L’ecumenismo e il Concilio Vaticano II. Risultati e problemi aperti
a) Il movimento ecumenico nasce agli inizi del XX secolo fuori della Chiesa cattolica. Nel 1948 si giunge alla creazione in Amsterdam del Consiglio Mondiale delle Chiese (WCC), a cui però non prende parte la Chiesa cattolica in ragione della scorretta ricerca dell’unità da questi perseguita. Con la creazione del Segretariato per l’Unità dei Cristiani (1960) da parte del b. Giovanni XXIII cambia l’atteggiamento di reticenza verso questo movimento e, in qualche modo, lo sforzo di unità perseguito, sorto «per grazia dello Spirito Santo», è “recepito” nel Vaticano II. Dice infatti il proemio di Unitatis redintegratio (UR) n.1:
«Ora, il Signore dei secoli, il quale con sapienza e pazienza persegue il disegno della sua grazia verso di noi peccatori, in questi ultimi tempi ha incominciato a effondere con maggiore abbondanza nei cristiani tra loro separati l’interiore ravvedimento e il desiderio dell’unione. Moltissimi uomini in ogni dove sono stati toccati da questa grazia, e tra i nostri fratelli separati è sorto anche per grazia dello Spirito Santo un movimento che si allarga di giorno in giorno per il ristabilimento dell’unità di tutti i cristiani. A questo movimento per l’unità, che è chiamato nuovamente ecumenico, partecipano quelli che invocano la Trinità e confessano Gesù come Signore e Salvatore, e non solo presi a uno a uno, ma anche riuniti in comunità, nelle quali hanno ascoltato il Vangelo e che essi chiamano la Chiesa loro e la Chiesa di Dio. Quasi tutti però, anche se in modo diverso, aspirano a una Chiesa di Dio una e visibile, che sia veramente universale e mandata al mondo intero, perché questo si converta al Vangelo e così si salvi per la gloria di Dio».
b) C’è un passaggio/sviluppo significativo rispetto alla Mortalium animos di Pio XI (1928), giustificato non solo in ragione di una nuova situazione storica creatasi ma dello stesso desiderio, vivificato da Dio, di giungere all’unità visibile di tutti i cristiani. J. Feiner (in LTK 13,42) definisce questa nuova percezione ecumenica un asserto di fede perché fondato sulla grazia. Condivisibile o esagerato?
C’è da notare però che il riconoscimento dell’azione dello Spirito Santo, che muove i cuori nella ricerca della visibile e piena unità di quelli che sono fuori della Chiesa cattolica, era già presente nell’Istruzione del S. Uffizio, De motione oecumenica del 20.12.1949. Questa Istruzione si rallegrava del desiderio di verità e di ritorno all’unità di molti dissidenti, desiderosi di essere uno con i discepoli del Signore.
Pio XI, comunque, metteva in guardia dal pericolo che quel modo di adunarsi acattolico scadesse in una visione “pancristiana”, in cui, intenti ad unire le Chiese, si cercava una carità a danno della fede rivelata circa l’unità e l’unicità della Chiesa. Immediatamente prima e poi col Vaticano II, invece, mantenendo ferma la professione dell’unica Chiesa costituita da Cristo, si intraprende la via del dialogo, che con una nuova metodologia teologica dovrà trovare nuove strade per ricucire la ferita nella comunione ecclesiale. Cosa lodevolissima ma non facile. Un accento importante è posto sulla preghiera e sulla conversione dei cuori per superare il vero nemico della divisione che è il peccato.
c) Chiaramente cambia la prospettiva ecumenica: si passa da una visione del “ritorno” dei dissidenti, a volte concepita teologicamente in modo statico e bloccante, allo sforzo per l’unità delle Chiese e delle comunità separate. L’accento con Lumen gentium (LG) si sposta da una visione personale a una comunitaria grazie alla riscoperta della Chiesa locale. Si avrà un passaggio di conseguenza dal De membris al De populo Dei. Questo sarà salutato in campo ecumenico come superamento dell’ecumenismo dallo stile unionistico o del ritorno degli scismatici all’unica Chiesa di Cristo per andare verso l’unità nella comunione dell’unica Chiesa.
L’ecumenismo, basato essenzialmente sul dialogo, sul confronto dottrinale e esperienziale, ha però un diverso approccio. Da parte cattolica si ricerca la piena comunione visibile di tutti i battezzati nell’unica Chiesa di Cristo, la Chiesa cattolica, riconoscendo la pluralità degli statuti ecclesiali e una molteplicità di elementi ecclesificanti o di santificazione e di verità. Da parte non cattolica invece si ricerca la comunione e l’unità visibili, che però non sono già date o già esistenti – altrimenti annullerebbero, a loro dire, la stessa necessità del dialogo – ma da ricercare e conseguire insieme mediante il confronto e uno spirito di collaborazione. Per i non cattolici – ahimè sovente e superficialmente anche per alcuni cattolici – l’unità (della Chiesa) è da ri-costituire. Ciò che manca talvolta è una chiara distinzione tra unità della Chiesa, quale sua proprietà o nota essenziale e imperdibile, e unità dei cristiani ferita dalle scissioni. L’ecumenismo si occupa solo di quest’ultima.
2) Principi dottrinali dell’ecumenismo
a) Il movimento ecumenico ha favorito senza dubbio anche una rinnovata visione teologica della Chiesa, da cui poi attinge i principi dottrinali in vista del dialogo. Vi è una nuova riflessione sulla Chiesa universale e sulle Chiese locali o particolari, da cui deriva l’accento sulla collegialità. Questa però storicamente, a partire da S. Ignazio di Antiochia, si dà come gerarchia tripartita del sacramento dell’Ordine quale fonte di comunione per la Chiesa locale con tutte le membra, con la plebs in comunione col Vescovo. In Concilio alcuni Padri, invece, vedevano la collegialità come istituzione divina, facendo leva sul Collegio apostolico. Cristo però ha istituito i Dodici, radunati a modo di collegio («ad modum collegii» (LG 19), il che è ben diverso.
b) Si volle offrire una dottrina più “viva”, che andasse al di là di una visione meramente giuridica di Chiesa, e che fosse più comunionale. In Concilio i Padri dibattono per superare una mera identificazione del Corpo mistico di Cristo con la Chiesa cattolica romana, sottolineando una più ampia estensione della Chiesa mistero rispetto alla Chiesa visibile o societas. Si pone però al contempo il problema della giusta interrelazione tra Chiesa visibile e Chiesa invisibile. La Chiesa invisibile o Chiesa come fructus salutis sebbene più ampia, in ragione della volontà salvifica universale di Dio (straordinaria in quanto può superare l’azione dei sacramenti), non può ignorare o tralasciare la Chiesa visibile o medium salutis. Si è introdotti in quella solo se si è membra di questa o almeno lo si desidera. Si tratta solo di due aspetti dell’unica Chiesa.
Di qui poi la distinzione tra Chiesa di Cristo e Chiesa cattolica, con il subsistit in (LG 8) da leggersi, con spiegato dal magistero successivo, come sostanziale identità tra Chiesa di Cristo e Chiesa cattolica e distinzione formale tra le due, per appurare la presenza di elementa Ecclesiae fuori dei confini visibili della Cattolica, quali beni dell’unica Chiesa, i quali perciò sono la ratio theologica della ricerca dell’unità ecumenica. Già nello schema preparatorio De Ecclesia (cap. XI) questi elementi e beni della Chiesa (la S. Scrittura, la grazia santificante, gli stessi sacramenti, ecc.) venivano definiti «res Ecclesiae Christi propriae».
c) Caratteristico poi è il metodo del dialogo e la gerarchia nelle verità (UR 9: par cum pari e UR 11). Il dialogo con i fratelli separati richiede un metodo e un modo di proporre la dottrina che non sia di ostacolo al dialogo e che al contempo non taccia la verità. Dice UR 11:
«Il modo e il metodo di enunziare la fede cattolica non deve in alcun modo essere di ostacolo al dialogo con i fratelli. Bisogna assolutamente esporre con chiarezza tutta intera la dottrina».
Questo implica anche una reciproca conoscenza. Dice UR 9:
«A questo scopo molto giovano le riunioni miste, con la partecipazione di entrambe le parti, per dibattere specialmente questioni teologiche, dove ognuno tratti da pari a pari, a condizione che quelli che vi partecipano, sotto la vigilanza dei vescovi, siano veramente competenti».
Quel «par cum pari» nel trattare le questioni teologiche, fu letto, nell’immediato post-concilio, da alcune comunità protestanti, come il posizionarsi della Chiesa cattolica sullo stesso livello dottrinale degli interlocutori, in modo da rinunciare insieme alla verità. Invece, così non era. Tuttavia, in ambito cattolico alcuni – ad esempio O. H. Pesch – leggono nello sforzo ecumenico il permanere di una tensione tra il posizionarsi forte sulla verità e la richiesta di dialogo, la qual cosa sarebbe come un semplice rincorrersi, soprattutto quanto alla difficoltà di recepire i risultati degli incontri ecumenici.
UR 11 espone poi un altro importante principio per il dialogo che è «l’ordine» o «gerarchia nelle verità». Ciò non significa che ci sono verità cattoliche meno importanti di altre – anche se da alcuni fu letto in tal modo – ma che tutte richiedono il medesimo assenso di fede divina, sebbene abbiano una relazione diversa con lo stesso fondamento che è Dio rivelante (cf. Mysterium Ecclesiae 1973 e Benedetto XVI, Discorso alla plenaria della CDF, 27.1.2012, dove richiama la problematicità dei metodi adottati in campo ecumenico: «Conoscere la verità è il diritto dell’interlocutore in ogni vero dialogo»).
Qui è d’uopo chiedersi: quanto e in che modo il metodo influenza la stessa presentazione della dottrina di fede? Un problema molto attuale anche nella catechesi, quando la fede è presentata quasi esclusivamente come esperienza di Cristo e non come verità da credere.
3. Valore dell’ecumenismo cattolico e suoi limiti attuali:
a) L’ecumenismo è un’esigenza per la Chiesa volta a sanare la ferita dei cristiani disuniti. La Chiesa, come dicevamo, in sé è sempre una e mai conosce fratture. La divisione è contingente e storica, sicché i relativi tentativi per arrivare a una soluzione d’unità dovrebbero essere valutati e semmai relativizzati con lo stesso criterio. Si deve poi guardare agli elementa Ecclesiae presenti fuori dei suoi confini visibili non solo come ad elementi dell’unica Chiesa, ma a partire dalla Chiesa: prima la Chiesa mistero incarnato e poi la divisione da redimere. Gli elementa senza la Chiesa svaniscono.
Lo sforzo per l’unità, comunque, rimane un imperativo dello Spirito Santo ai cristiani. La divisione infatti è uno scandalo davanti al mondo e Gesù stesso ha pregato perché i suoi siano uno (cf. Gv 17).
b) Un problema teologico che emerge è il seguente: qual è il grado di vincolabilità di UR? (non è una questione di lana caprina). UR è un decreto contenente dottrine di fede e/o una prassi pastorale? Non attinge, invero, i suoi principi dottrinali da LG? Gli atti del Concilio propendono per un’indicazione pastorale da seguire nell’ambito ecumenico, rivolta principalmente ai non cattolici. A giudizio, invece del Card. Kasper con UR siamo di fronte a un insegnamento dogmaticamente vincolante in ambito ecumenico. La non chiarezza del grado di vincolabilità magisteriale dei documenti del Concilio in genere, e nel nostro caso della dichiarazione sull’ecumenismo, provoca una disparità di giudizio, che rasenta anche la contraddizione. Si rischia così di infallibilizzare il tutto a detrimento della retta fede, per il semplice fatto che non è più chiaro cosa è da credere e cosa non lo è.
c) LG rimanda ad UR per quanto riguarda lo statuto più preciso delle Chiese particolari e delle Comunità ecclesiali. UR completa quindi LG. Questo dimostra che LG è un testo aperto. Il fatto che una costituzione dogmatica si lasci completare da una dichiarazione dice la possibilità di una perfettibilità teologica estrinseca alla stessa costituzione e ad un tempo un suo limite. Neanche LG in toto è infallibile, ma nel suo interno bisogna operare molte distinzioni tra dottrine definitive e sentenze teologiche (fatte proprie dal Magistero). Scrive, infatti, Ratzinger:
«Il testo dottrinale del Concilio sulla Chiesa non è un trattato teologico, né una presentazione completa sulla Chiesa, ma un cartello indicatore» (J. Ratzinger, Mon Concile Vatican II. Enjeux et perspective, Artège Spiritualité, Perpignan 2011, pp. 124-125).
d) In che senso le Chiese e le comunità cristiane sono in una certa comunione con la Chiesa cattolica? È indispensabile distinguere tra Chiesa locale e comunità ecclesiale, come ha fatto chiaramente Dominus Iesus per non rischiare di accomunare poi, di fatto, tutti i cristiani separati nell’unica comunione in ragione della presenza nelle loro comunità di alcuni elementi o beni della Chiesa. Di qui la doverosa distinzione ulteriore tra gli elementa Ecclesiae che attestano una cogenza ecclesiale anche fuori dei confini visibili della Chiesa e i tria vincula di appartenenza alla Chiesa, cioè la fede, i sacramenti e la gerarchia. Solo questi ultimi e tutti e tre insieme designano l’essere membra (o appartenenza) in modo pieno della Chiesa. Se ne manca anche solo uno, sebbene si sia già in qualche modo legati al Corpo mistico di Cristo (dimensione invisibile), non si è di esso pienamente membra e dobbiamo aggiungere anche che non si è ordinariamente salvati (eccetto il caso di ignoranza invincibile). Su questo punto LG è molto chiara: «Il santo Concilio … basandosi sulla S. Scrittura e sulla tradizione insegna che questa Chiesa peregrinante è necessaria alla salvezza» (n. 14). La Chiesa visibile non può essere assorbita in quella invisibile perché è mysterium salutis in quanto Chiesa peregrinante o militante. L’ecumenismo se non mira alla comunione visibile dei cristiani ha fallito il suo scopo e pertanto non può semplicemente favorire una comunione spirituale tra i cristiani.
e) Di qui un altro problema venuto alla ribalta in questi ultimi tempi: il battesimo innesta nella Chiesa visibile, sì da avere già una certa comunione visibile con i fratelli protestanti? No. Innesta in Cristo, come chiarisce Dominus Iesus (n. 17), favorendo una certa comunione sebbene imperfetta con la Chiesa (mistero invisibile). Fino a quando non ci sono i tre vincoli la comunione è sempre imperfetta e perciò non visibile. Non si può accusare questa teologia di essere giuridicista e di fermarsi a S. Roberto Bellarmino. L’aver accantonato questo modo chiaro di presentare l’appartenenza alla Chiesa ha generato molta confusione.
Lo sforzo per l’unità ha come fine la visibilità, la quale termina alla salvezza (cf. LG 14 e UR 3 letto alla sua luce). La salvezza è quindi il discrimen ecumenico finale, rimanendo comunque aperta la via straordinaria. Si ritornerebbe però ad un discorso personalista, mentre lo sforzo ecumenico del Concilio era quello di aprirsi all’aspetto comunitario o ecclesiale.
Quindi si tratta del problema dei membri della Chiesa, la cui questione viene tralasciata da LG e solo per i cattolici si parla di piena incorporazione alla Chiesa visibile («Illi plene Ecclesiae societati incorporantur» n. 14), mentre per i non cattolici si parla in modo generico di più ragioni per le quali la Chiesa è con essi congiunta (n. 15). Questo origina una frizione o una certa disparità di giudizio quanto alla considerazione dei fratelli separati rispetto alla Chiesa cattolica, se non veri e propri errori di fede.
f) C’è un “popolo di Dio” oltre o accanto alla Chiesa? In UR 3 leggiamo che devono essere pienamente incorporati nell’unico corpo di Cristo sulla terra, «tutti quelli che in qualche modo appartengono al popolo di Dio. Il quale popolo, quantunque rimanga esposto al peccato nei suoi membri finché dura la sua terrestre peregrinazione, cresce tuttavia in Cristo ed è soavemente condotto da Dio secondo i suoi arcani disegni, fino a che raggiunga gioioso tutta la pienezza della gloria eterna nella celeste Gerusalemme». Di fatto questa espressione fu interpretata come possibilità di un popolo di Dio che in qualche modo è alternativo alla Chiesa. In LG si appura che la Chiesa provenendo dall’antico Israele è il nuovo popolo di Dio, «sacramento visibile di… unità salvifica» (cf. LG 9). L’unicità del popolo di Dio s’accompagna perciò all’unicità della Chiesa, unico corpo di Cristo e mistero di salvezza. UR in questo contesto deve essere ricondotta a LG. Popolo di Dio non sta per congregatio salvifica, richiamante la prima e poi l’alleanza definitiva nel sangue di Cristo ma per gruppo di cristiani, da identificare in Chiese locali o comunità ecclesiali.
4) L’ecumenismo dopo il Vaticano II
a) Come è declinato in larga parte della teologia cattolica? Una linea abbastanza preponderante vede l’ecumenismo come un andare principalmente verso Cristo, mettendo da parte le proprie differenti identità ecclesiali. La Chiesa ci divide Cristo ci unisce, si dice. Per questi, fautori della rottura, il Vaticano II sarebbe il momento della storicizzazione delle proprietà ecclesiologiche divergenti delle diverse Chiese. La novità del Concilio starebbe nell’inveramento del “principio istituzionale” con il nuovo “principio vitale”, così da spostare il problema dell’unità dalla Chiesa a Cristo. Ma è illusorio perché non c’è un Cristo senza la Chiesa.
b) L’ecumenismo si presenta come una proposta di dialogo che vede impegnate a volte commissioni bilaterali ufficialmente deputate, a volte le stesse Chiese, ma non sempre in ambito cattolico si è in grado di giudicare affidabile la dottrina proposta, la quale a sua volta non è obbligante se non quando riconosciuta dal Magistero.
c) Poco dopo la chiusura del Vaticano II ormai il dialogo aveva già conosciuto uno sviluppo che è andato ben oltre quello che lo stesso Concilio potesse prevedere. Tanti nuovi fronti si sono aperti, e accanto a diversi risultati molto positivi, non ultimo la creazione di un Ordinariato per i cristiani anglicani che ritornano nella Chiesa cattolica (di nuovo un modello ecumenico del “ritorno” oppure l’unica via vera percorribile?), non sono mancati disguidi e smarrimenti. Si pensi alla Dichiarazione congiunta sulla giustificazione del 1999, che in modo molto perspicace cerca un accordo oltre le condanne del Concilio di Trento. C’è in essa, in realtà, nonostante la chiarificazione seguita, un chiaro superamento della dottrina del simul iustus et peccator e della cooperazione della creatura in ragione della grazia alla sua giustificazione finale?
d) Il problema maggiore dell’ermeneutica dei testi conciliari sta certamente nell’aver voluto dare la precedenza e la superiorità all’evento rispetto alle decisioni (testi), unendo le due realtà mediante l’esperienza. È sintomatica la posizione di Y. Congar ripresa e fatta propria da G. Routhier: la Chiesa si percepisce dall’esperienza attuale di Chiesa e questo fa maturare la coscienza di comunione (cf. Y. Congar, Vie de l’église et conscience de la catholicité, in Esquisse du mysterè de l’église, Paris 1953, p. 121, cit. da G. Routhier, La recezione dell’ecclesiologia conciliare: problemi aperti, in Associazione Teologica Italiana, La Chiesa e il Vaticano II. Problemi di ermeneutica e recezione conciliare, Milano 2006, pp. 22-23).
Si tratta qui del problema della ricezione del Concilio che diventa di volta in volta coscienza del Concilio stesso. Bisogna superare, per ritrovare la retta fede e il sano ecumenismo, la precedenza contingente della storia rispetto al mistero, ri-orientando la pastorale ecumenica al dogma della Chiesa una e indivisa.
Rimane paradigmatico quanto diceva Benedetto XVI (Discorso alla plenaria della CDF, del 27.1.2012):
«Senza la fede tutto il movimento ecumenico sarebbe ridotto ad una forma di «contratto sociale» cui aderire per un interesse comune, una “prasseologia” per creare un mondo migliore».
Così spero di aver presentato un quadro riassuntivo degli sviluppi e dei problemi in ambito ecumenico. Problemi risolvibili, accanto all’azione infallibile dello Spirito di Dio che, nonostante le nostre insufficienze, non cessa di muoverci alla verità tutta intera. (di p. Serafino M. Lanzetta, FI)
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