domenica 30 settembre 2012

S. Teresa di Lisieux

Santa Teresa di Lisieux


Exumação das Reliquias de Santa Teresinha do Menino Jesus

ESUMAZIONE DEL CORPO DI S. TERESA DI LISIEUX


Beatus Vir - Monteverdi

Beatus vir




Beatus vir qui timet Dominum,
In mandatis ejus volet nimis.
Potens in terra erit semen ejus,
Generatio rectorum benedicetur.
Gloria et divitiae in domo ejus,
Et justitia ejus manet
In saeculum saeculi.
Exortum est in tenebris lumen rectis,
Misericors et miserator et justus.
Jucundus homo,
Qui miseretur et commodat,
Disponet sermones suos in judicio.
Quia in aeternum non commovebitur.
In memoria aeterna erit justus,
Ab auditione mala non timebit.
Paratum cor ejus sperare in Domino.
Confirmatum est cor ejus;
Non commovebitur
Donec despiciat inimicos suos.
Dispersit, dedit pauperibus,
Justitia ejus manet
In saeculum saeculi.
Cornu ejus exaltabitur in gloria.
Peccator videbit et irascetur,
Dentibus suis fremet et tabescet;
Desiderium peccatorum peribit.
Beato l'uomo che teme il Signore
E trova grande gioia nei suoi comandamenti.
Potente sulla terra sarà la sua stirpe,
La discendenza dei giusti sarà benedetta.
 
Onore e ricchezza nella sua casa,
La sua giustizia rimane per sempre.
Spunta nelle tenebre come luce per i giusti,
Buono, misericordioso e giusto.
 
Felice l'uomo pietoso che dà in prestito,
Amministra i suoi beni con giustizia.
Egli non vacillerà in eterno:
Il giusto sarà sempre ricordato.
 
Non temerà annunzio di sventura,
Saldo è il suo cuore, confida nel Signore.
Sicuro è il suo cuore, non teme,
Finché trionferà dei suoi nemici.
 
Egli dona largamente ai poveri,
La sua giustizia rimane per sempre,
La sua potenza s'innalza nella gloria.
 
L'empio vede e si adira,
Digrigna i denti e si consuma.
Ma il desiderio degli empi fallisce.

Alessandro Scarlatti : Dixit Dominus

venerdì 28 settembre 2012

Vespri ambrosiani - intervista ad Angelo Rusconi

Magnificat.

In memoria di Mons. A. Amodeo

Roberto Cacciapaglia - Michael Angelus Pacis


Angelus pacis Michael




Angelus pacis Michael in aedes
Caelitus nostras veniat serenae
Auctor ut pacis lacrimosa in orcum
Bella releget.
"Angelus pacis Michael in aedes
Caelitus nostras veniat serenae
Auctor ut pacis lacrimosa in orcum
Bella releget."

eresie

" Quando Liturgia fa rima con eresia" Imperdibile ! ( Sandro Magister )



Proseguendo il suo ciclo di catechesi sulla preghiera, Benedetto XVI è passato, il mercoledì 26 settembre, dalla preghiera nella Scrittura alla preghiera nella liturgia. 
Nella liturgia è Dio che “ci offre le parole”, ha detto il papa. “Noi dobbiamo entrare all’interno delle parole [liturgiche], nel loro significato, accoglierle in noi, metterci noi in sintonia con queste parole; così diventiamo figli di Dio, simili a Dio”. 
Se dalla dottrina, però, si passa alla pratica, le cose cambiano. Si sa che vari preti hanno un concetto “creativo” della liturgia, nel quale gli attori e gli inventori sono loro. In una parrocchia della Toscana, ad esempio, c’è un prete che fa e parla a modo suo, quando distribuisce la comunione. 
Evidentemente perché non crede nella presenza reale di Gesù nel pane e nel vino consacrati. ( Sottolineatura nostra n.d.r.) 
La cosa è arrivata all’orecchio del professor Pietro De Marco, che da Firenze ci ha trasmesso questo commento acuminato. 

IN MEMORIA DI CRISTO” di Pietro De Marco 

Mi raccontano, non senza preoccupata ironia, che un parroco di una diocesi toscana, noto per varie eccentricità, amministra l’eucaristia o, come dicono i messali, “presenta l’ostia” ai comunicandi, con le parole “In memoria di Cristo”, invece che con la vincolante ed essenziale formula: “Il corpo di Cristo”. 
Poiché tale parroco ama dichiararsi un “professionista” ecclesiale, è certo che, da professionista, usa quella formula consapevolmente. Per esibire e trasmettere, senza timore, la sua negazione della presenza reale di Cristo nelle specie eucaristiche. 
Ora, sull’evento “reale” della consacrazione non vi è alcuna incertezza nella “lex orandi”, cioè negli enunciati del canone liturgico. 
Non per nulla, dopo le parole della consacrazione, il sacerdote “adora subito l’ostia”. 
E altrettanto dovrebbero fare i fedeli, invece del disordine dei comportamenti attuali e specialmente dello stare in piedi suggerito da qualche liturgista. 
La dottrina della fede è altrettanto ferma e costante. Rileggiamo “pro memoria” il mai abrogato “Decretum de SS. Eucharistia” del Concilio di Trento, fino ai canoni conclusivi (Denzinger-Hünermann, nn. 1651-1656), e il recente e obbligante Catechismo della Chiesa Cattolica, promulgato esattamente venti anni fa, ai nn. 1373 e seguenti. 
Il Catechismo della Chiesa Cattolica va considerato la trascrizione di ciò che è dogmaticamente rilevante nel “corpus” dei documenti del Vaticano II. 
La cultura teologica diffusa, invece, su questo punto ha oscillato e oscilla dannosamente, così da essere responsabile di questi effetti, anzitutto nel clero. 
L’arrischiato parroco di cui sopra è sicuramente il frutto degli insegnamenti ricevuti in seminario o in qualche facoltà teologica, o dei maestri della letteratura teologica internazionale, letta od orecchiata successivamente. 
Leggevamo non ieri, ma anni fa, che la maggior parte del clero olandese delle ultime generazioni non crede nella presenza reale di Gesù nell’eucaristia. In ragione di cosa, se non di un insegnamento dogmatico e liturgico ammiccante e aberrante? 
 Quale che sia l’estensione delle responsabilità, l’uso della formula “In memoria di Cristo” in luogo di “Il corpo di Cristo” non è solo imprudente o inopportuno. 
È molto di più: suppone una convinzione che ad essere massimamente prudenti si direbbe che “ha sapore di eresia”. 
Al caso particolare saprà far fronte il vescovo competente, dopo opportuna indagine. Interessa qui sottolineare, ancora una volta, lo scandalo continuato, anche su materie meno gravi, indotto da una spigliata confidenza, accoppiata ad ignoranza o a corruttela teologica, con la dottrina della fede. 
Preti come questi hanno deliberatamente distrutto in sé stessi e probabilmente nei collaboratori laici e in parte del loro popolo la verità sacramentaria, colpendo l’essenziale dell’esistenza e del fondamento della Chiesa: la retta fede del popolo cristiano. 
E nel valutare questo peccato e “crimen” la Chiesa è sola. 
Non ha né il supporto né lo stimolo concorrenziale delle magistrature civili, come negli episodi di pedofilia. L’esercizio ispettivo e correttivo le spetta ed è tenuta ad esercitarlo. 
Azione doverosa e coraggiosa perché, appunto, il contesto generatore di questi fatti particolari è esteso. 
Non sarebbe difficile cogliere, in una quantità di libri teologici tradotti da editori cattolici, pagine (mai sottoposte a critica da chi dovrebbe) che istigano, di fatto, ad atti di svalutazione, metaforizzazione, vaga spiritualizzazione della transustanziazione, mascherati con parole equivoche. 
L’eventualità che quanto nel piccolo caso toscano è esplicitato con sicumera sia in altri preti tenuto nascosto, nicodemiticamente, fa tremare. 
Il compito dell’imminente Sinodo dei vescovi, col suo esercito di periti sapientemente dosati, sarebbe a mio avviso non quello di confermare un cinquantennio di moderne esortazioni all’annuncio cristiano, ma di ricostruire energicamente nel clero e nel laicato quella comune dottrina della fede senza cui ogni enunciato che venga dalla Chiesa sarà indistinguibile da quelli del nichilismo ordinatore della postmodernità. 
Se i vescovi di tutto il mondo, frenati da prudenze pastorali e di governo e talora da incertezza dottrinale, non avessero la forza di provvedere, toccherebbe ai semplici fedeli – quelli che in virtù di una buona formazione cristiana ancora possono farlo – discernere opinioni e condotte diffuse palesemente erronee, catechismo alla mano, e dire “no”. 

mercoledì 26 settembre 2012

liturgia

Il Papa: La Liturgia opera di Cristo, luogo privilegiato in cui Dio agisce, si rivela, ci partecipa la sua grazia e salvezza.



Tanto per ricordare a certi preti e a certi "cattolici adulti" che la liturgia (e, per estensione, la celebrazione dei sacramenti) non è e non dev'essere un tempo e uno spazio dei fedeli e per i fedeli; non è autoreferenziabile, fine a sè stessa, e autocelebrativa (dimensione "orizzontale")...
Ma è un opera di Cristo, è un luogo privilegiato in cui Dio agisce, si rivela, ci partecipa la sua grazia e salvezza. E il momento attuale in cui gli uomini possono partecipare all'opera di Dio (dimensione verticale).

Il Papa si chiede: "dove si rende attuale, per noi, oggi, il Mistero della Morte e Risurrezione di Cristo, che porta la Salvezza?", E dà la risposta, stupenda: "nell'azione di Cristo, attraverso la Chiesa, nella ligurgia e nei sacramenti". Anche il Concilio lo ha ribadito. Non ci sono scuse.
Roberto http://blog.messainlatino.it/2012/09/il-papa-attraverso-la-liturgia-dio-ci.html

 

Il Papa all'udienza generale:
la liturgia, azione dell'uomo e di Dio, preghiera che viene dallo Spirito e da noi
da Radio Vaticana del 26.09.2012
 
Oggi [mercoledì 26 settembre 2012, n.d.r.] il Papa, durante l’udienza generale, la prima tenuta in Piazza San Pietro dopo il 6 giugno, ha svolto la sua catechesi sulla Liturgia, come scuola di preghiera. In questi mesi – ha detto – “abbiamo compiuto un cammino alla luce della Parola di Dio, per imparare a pregare in modo sempre più autentico guardando ad alcune grandi figure dell’Antico Testamento, ai Salmi, alle Lettere di san Paolo e all’Apocalisse, ma soprattutto guardando all’esperienza unica e fondamentale di Gesù, nel suo rapporto con il Padre celeste. In realtà, solo in Cristo l’uomo è reso capace di unirsi a Dio con la profondità e la intimità di un figlio nei confronti di un padre che lo ama, solo in Lui noi possiamo rivolgerci in tutta verità a Dio chiamandolo con affetto “Abbà! Padre!”. Come gli Apostoli, anche noi abbiamo ripetuto in queste settimane e ripetiamo oggi a Gesù: «Signore, insegnaci a pregare» (Lc 11,1). Inoltre, per apprendere a vivere ancora più intensamente la relazione personale con Dio, abbiamo imparato a invocare lo Spirito Santo, primo dono del Risorto ai credenti, perché è Lui che «viene in aiuto alla nostra debolezza: non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente» dice san Paolo e sappiamo come ha ragione!”.

Il Papa pone dunque la domanda: “come posso io lasciarmi formare dallo Spirito Santo?". "Qual è questa scuola nella quale mi insegna a pregare e viene in aiuto alla mia fatica di rivolgermi in modo giusto a Dio?". La prima scuola per la preghiera - ha sottolineato - è la Parola di Dio, la Sacra Scrittura, permanente dialogo tra Dio e l'uomo. Ma - ha aggiunto - "c’è un altro prezioso «spazio», un’altra preziosa «fonte» per crescere nella preghiera, una sorgente di acqua viva in strettissima relazione con la precedente. Mi riferisco alla liturgia, che è un ambito privilegiato nel quale Dio parla a ciascuno di noi, qui ed ora, e attende la nostra risposta".
Quindi, aggiunge: “Che cos’è la liturgia? Se apriamo il Catechismo della Chiesa Cattolica - sussidio sempre prezioso, direi indispensabile" leggiamo che "la parola «liturgia» significa «servizio da parte del popolo e in favore del popolo» (n. 1069). Se la teologia cristiana prese questo vocabolo dal mondo greco, lo fece ovviamente pensando al nuovo Popolo di Dio nato da Cristo che ha aperto le sue braccia sulla Croce per unire gli uomini nella pace dell’unico Dio. «Servizio in favore del popolo», un popolo che non esiste da sé, ma che si è formato grazie al Mistero Pasquale di Gesù Cristo. Di fatto, il Popolo di Dio non esiste per legami di sangue, di territorio, di nazione, ma nasce sempre dall’opera del Figlio di Dio e dalla comunione con il Padre che Egli ci ottiene. Il Catechismo indica inoltre che «nella tradizione cristiana (la parola “liturgia”) vuole significare che il Popolo di Dio partecipa all’opera di Dio»".

Questo – ha proseguito - ce lo ha ricordato lo sviluppo stesso del Concilio Vaticano II, che iniziò i suoi lavori, cinquant’anni orsono, con la discussione dello schema sulla sacra liturgia, approvato solennemente il 4 dicembre del 1963, il primo testo approvato dal Concilio. Che il documento sulla liturgia fosse il primo risultato dell’assemblea conciliare forse fu ritenuto da alcuni un caso. Tra tanti progetti, il testo sulla sacra liturgia sembrò essere quello meno controverso, e, proprio per questo, capace di costituire come una specie di esercizio per apprendere la metodologia del lavoro conciliare. Ma senza alcun dubbio, ciò che a prima vista può sembrare un caso, si è dimostrata la scelta più giusta, anche a partire dalla gerarchia dei temi e dei compiti più importanti della Chiesa. Iniziando, infatti, con il tema della «liturgia» si mise in luce in modo molto chiaro il primato di Dio, la sua priorità assoluta. Prima di tutto Dio: proprio questo ci dice la scelta conciliare di partire dalla liturgia. Dove lo sguardo su Dio non è determinante, ogni altra cosa perde il suo orientamento. Il criterio fondamentale per la liturgia è il suo orientamento a Dio, per poter così partecipare alla sua stessa opera”.

C’è poi un’altra domanda: “qual è questa opera di Dio alla quale siamo chiamati a partecipare? La risposta che ci offre la Costituzione conciliare sulla sacra liturgia è apparentemente doppia. Al numero 5 ci indica, infatti, che l’opera di Dio sono le sue azioni storiche che ci portano la salvezza, culminate nella Morte e Risurrezione di Gesù Cristo; ma al numero 7 la stessa Costituzione definisce proprio la celebrazione della liturgia come «opera di Cristo». In realtà i due significati sono inseparabilmente legati. Se ci chiediamo chi salva il mondo e l’uomo, l’unica risposta è: Gesù di Nazaret, Signore e Cristo, crocifisso e risorto. E dove si rende attuale per noi, per me oggi il Mistero della Morte e Risurrezione di Cristo, che porta la salvezza? La risposta è: nell’azione di Cristo attraverso la Chiesa, nella liturgia, in particolare nel Sacramento dell’Eucaristia, che rende presente l’offerta sacrificale del Figlio di Dio, che ci ha redenti; nel Sacramento della Riconciliazione, in cui si passa dalla morte del peccato alla vita nuova; e negli altri atti sacramentali che ci santificano (cfr Presbyterorum ordinis, 5). Così, il Mistero Pasquale della Morte e Risurrezione di Cristo è il centro della teologia liturgica del Concilio”.

Ma “in che modo – si chiede ancora Benedetto XVI - si rende possibile questa attualizzazione del Mistero Pasquale di Cristo? Il beato Giovanni Paolo II, a 25 anni dalla Costituzione Sacrosanctum Concilium, scrisse: «Per attualizzare il suo Mistero Pasquale, Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, soprattutto nelle azioni liturgiche. La liturgia è, di conseguenza, il luogo privilegiato dell’incontro dei cristiani con Dio e con colui che Egli inviò, Gesù Cristo (cfr Gv 17,3)» (Vicesimus quintus annus, n. 7). Sulla stessa linea leggiamo nel Catechismo della Chiesa Cattolica: «Ogni celebrazione sacramentale è un incontro dei figli di Dio con il loro Padre, in Cristo e nello Spirito Santo, e tale incontro si esprime come un dialogo, attraverso azioni e parole» (n. 1153). Pertanto la prima esigenza per una buona celebrazione liturgica è che sia preghiera e colloquio con Dio, anzitutto ascolto e quindi risposta. San Benedetto, nella sua «Regola», parlando della preghiera dei Salmi, indica ai monaci: mens concordet voci, «che la mente concordi con la voce». Il Santo insegna che nella preghiera dei Salmi le parole devono precedere la nostra mente. Abitualmente non avviene così: prima si deve pensare e poi quanto abbiamo pensato si converte in parola". Nella liturgia invece la parola viene prima. Dio - ha affermato il Papa - ci ha dato la Parola e la sacra liturgia ci offre le parole; "noi dobbiamo entrare nell'interno delle parole, ne loro significato, accoglierle in noi, metterci in sintonia con queste parole": così diventiamo simili a Dio. Come ricorda la Sacrosanctum Concilium, per assicurare la piena efficacia della celebrazione «è necessario che i fedeli si accostino alla sacra liturgia con retta disposizione di animo, pongano la propria anima in consonanza con la propria voce e collaborino con la divina grazia per non riceverla invano» (n. 11). Elemento fondamentale, primario, del dialogo con Dio nella liturgia, è la concordanza tra ciò che diciamo con le labbra e ciò che portiamo nel cuore ...”.

Il Papa accenna poi “ad uno dei momenti che, durante la stessa liturgia, ci chiama e ci aiuta a trovare tale concordanza, questo conformarci a ciò che ascoltiamo, diciamo e facciamo nella celebrazione liturgica. Mi riferisco all’invito che formula il Celebrante prima della Preghiera Eucaristica: «Sursum corda», innalziamo i nostri cuori al di fuori del groviglio delle nostre preoccupazioni, dei nostri desideri, delle nostre angustie, della nostra distrazione. Il nostro cuore, l’intimo di noi stessi, deve aprirsi docilmente alla Parola di Dio e raccogliersi nella preghiera della Chiesa, per ricevere il suo orientamento verso Dio dalle parole stesse che ascolta e dice. Lo sguardo del cuore deve dirigersi al Signore, che sta in mezzo a noi: è una disposizione fondamentale.
Quando viviamo la liturgia con questo atteggiamento di fondo, il nostro cuore è come sottratto alla forza di gravità, che lo attrae verso il basso, e si leva interiormente verso l’alto, verso la verità, verso l’amore, verso Dio. Come ricorda il Catechismo della Chiesa Cattolica: «La missione di Cristo e dello Spirito Santo che, nella Liturgia sacramentale della Chiesa, annunzia, attualizza e comunica il Mistero della salvezza, prosegue nel cuore che prega. I Padri della vita spirituale talvolta paragonano il cuore a un altare» (n. 2655): altare Dei est cor nostrum
”.

Di qui l’esortazione finale: “Cari amici, celebriamo e viviamo bene la liturgia solo se rimaniamo in atteggiamento orante", se non vogliamo farci vedere ma orientiamo il nostro cuore a Dio e siamo in atteggiamento di preghiera, "unendoci al Mistero di Cristo e al suo colloquio di Figlio con il Padre. Dio stesso ci insegna a pregare, come afferma san Paolo (cfr Rm 8,26). Egli stesso ci ha dato le parole adeguate per dirigerci a Lui, parole che incontriamo nel Salterio, nelle grandi orazioni della sacra liturgia e nella stessa Celebrazione eucaristica. Preghiamo il Signore di essere ogni giorno più consapevoli del fatto che la Liturgia è azione di Dio e dell’uomo; preghiera che sgorga dallo Spirito Santo e da noi, interamente rivolta al Padre, in unione con il Figlio di Dio fatto uomo (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2564)”.

martedì 25 settembre 2012

nuova evangelizzazione????

Un’espressione militante della “scuola di Bologna”: “il Laboratorio Sinodale Laicale”


(di Mauro Faverzani) Si muovono nell’ombra, ma sanno dove andare. Non sono un gruppo qualsiasi. Si firmano “Laboratorio Sinodale Laicale”, ma dietro di loro c’era Giuseppe Alberigo e oggi ci sono i suoi pupilli Alberto Melloni (sì, l’articolista del “Corriere della Sera”) e Giuseppe Ruggieri (lo stesso che ci invita, con un volumetto appena pubblicato da Einaudi, a Ritrovare il Concilio).

In una parola c’è la “scuola di Bologna”, quella che auspica un “Vaticano III” per “riformare la Chiesa” e che ora si serve di uno strumento operativo per penetrare nelle parrocchie e nei circoli cattolici. Un esempio della loro concezione socio-ecclesiastica? Non credono nella famiglia, ma nelle «famiglie», come scrivono nel documento elaborato a Milano presso la Rettoria di San Gottardo, a Palazzo Reale. Dimenticando il vecchio e nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica, che, con estrema chiarezza, spiega come famiglia sia solo quella fondata sul matrimonio tra uomo e donna, distinguono le famiglie «normocomposte» dalle altre. Senza escluderne alcuna. Senza fare eccezioni.

C’è da chiedersi, se nel mucchio vi siano da annoverare anche quelle omosessuali. Di certo vi finiscono separati, divorziati, coppie di fatto, nonché le cosiddette “famiglie ricostituite”, in una parola “pasticciate”. L’estemporaneo sodalizio ne chiede il «riconoscimento». Per questo cita i soliti casi estremi, tanto noti, ormai, da non esser nemmeno più strappalacrime. Non ne prende in considerazione la dimensione sacramentale. «Il punto di partenza» si ritiene sia un altro ossia «la coppia, che sceglie di entrare in un rapporto particolare basato sull’amore, su un progetto comune». Una sorta di “contratto”, insomma, che oggi si può fare e domani disfare. Per il Laboratorio, «omologare» la famiglia, assolutizzarla in un «solo modello» sarebbe un’«ingenuità imperdonabile», «sconcertante, povera e impoverente». Ma non si limita a questo: in un altro testo accusa la «gerarchia» di puntare solo sui «valori non negoziabili» e d’esser invece troppo servile nei confronti di una politica «populista».

Da qui, i soliti slogan ovvero la decisione di farsi portavoce della cosiddetta «base» e di sposare il più trito filone pauperistico. Ad ospitare le sue posizioni, oltre alla solita agenzia “Adista”, è il sito Statusecclesiae.net, gestito da alcuni dei firmatari della «Supplica» ai Vescovi del 13 febbraio 2007, in cui si chiedeva che accettassero e senza fiatare il progetto di legge sui «diritti delle convivenze», presentato quando in carica c’era il governo Prodi (primo firmatario della Supplica fu Giuseppe Alberigo), nonché i  sottoscrittori del Documento dei 63, con cui nell’89 si accusò la Santa Sede di eccessivo autoritarismo, si pose in discussione l’infallibilità del Magistero e s’imputò alla Chiesa d’esser percorsa da «spinte regressive».

Alla bioetica cattolica, definita «infantile», preferiscono un’etica della situazione; si accendono per il mito dell’operaismo, per i “dissidenti” di “Noi siamo Chiesa” e per la teologia della liberazione – condannata ‒ ; gioiscono per l’abolizione dei crocifissi nelle aule scolastiche. L’elenco di sconcertanti luoghi comuni potrebbe continuare. Per contestarli tutti, dovremmo trascrivere il Catechismo, i testi del Magistero, della Tradizione e della Sacra Scrittura. Non ne vale la pena: rimandiamo agli originali. Di certo addolora però come queste posizioni possano diffondersi indisturbate: non sono solo critiche, infatti. Sono molto di più. E qualche parroco, come è già capitato, potrebbe utilizzarle nella propria pastorale. Reiterando l’errore. Liberissimi loro di non condividere le posizioni del Magistero. Ma abbiano almeno il coraggio e la decenza di farlo responsabilmente ovvero stando fuori dalla Chiesa. (Mauro Faverzani)

aborto

Il peccato di origine della legge 40


(di Alfredo De Matteo) La recente sentenza della Corte Europea sulla legge 40 ha riacceso i riflettori su una legge che fin dalla sua promulgazione (2004) è stata oggetto di dispute e fraintendimenti, soprattutto all’interno del mondo cattolico e pro-life.  La 40 nacque come norma di compromesso tra le esigenze del mondo laico e del mondo cattolico. Mentre il primo premeva affinché la pratica della fecondazione artificiale fosse libera e sganciata da ogni regola morale, il secondo opponeva la difesa della vita in quanto, com’è noto, la fecondazione in vitro, oltre a negare la dignità propria dell’essere umano (ridotto a merce prodotta in laboratorio), provoca direttamente la morte di un elevato numero di embrioni.

In realtà, una parte del mondo cattolico, condivideva, più o meno apertamente, i principi di fondo dei laicisti, ossia la libertà di scelta della donna e l’esistenza di un presunto diritto della coppia di avere un figlio. Con questa parte del mondo cattolico e pro-life, e della stessa CEI, il Parlamento italiano tirò fuori dal cilindro la legge 40, gravemente ingiusta e piena di incoerenze e contraddizioni. Il clamoroso fallimento di una legge che nel corso degli anni è stata svuotata dall’interno e ridotta ad un semplice insieme di regole facilmente aggirabili non può destare alcuna sorpresa: esso rappresenta l’esito inevitabile del compromesso etico morale che ne è all’origine.

I favori di cui ha goduto la legge 40 (e di cui ancora gode) all’interno del mondo cattolico sono riconducibili a due fattori: all’inizio, ossia nel periodo immediatamente precedente e successivo la sua promulgazione (ed in particolare nel 2005, quando il popolo è stato chiamato a dare il suo giudizio sulla legge attraverso un referendum abrogativo), ha funzionato da efficace catalizzatore del consenso la definizione di “legge cattolica”, dunque in linea con gli insegnamenti del Magistero; in seguito, quando gli attacchi mirati dei nemici hanno messo bene a nudo le contraddizioni insite nella norma, ha avuto maggior credito (e continua ad averla) la tesi secondo cui la legge 40 rappresenti il “male minore” rispetto ad una situazione che, in caso di assenza della legge, sarebbe stata ben più grave in termini di vite umane sacrificate. Ma è davvero possibile inquadrare la legge 40 all’interno della dottrina del male minore?

Il punto dirimente è il seguente: il male non può mai essere ricercato neppure in vista di un bene, semmai può essere, talvolta, tollerato. La legge 40, una legge gravemente ingiusta, fu pensata e voluta di per se stessa da esponenti dichiaratamente cattolici e per di più all’interno di un contesto di vuoto normativo, ossia in mancanza di una legge già presente che avrebbe potuto, eventualmente, giustificare un atto politico finalizzato ad una riduzione del danno. Eppure, l’enciclica Evangelium Vitae fornisce delle chiare indicazioni in proposito: «Nel caso ipotizzato, quando non fosse possibile scongiurare o abrogare completamente una legge abortista, un parlamentare, la cui personale assoluta opposizione all’aborto fosse chiara e a tutti nota, potrebbe lecitamente offrire il proprio sostegno a proposte mirate a limitare i danni di una tale legge e a diminuirne gli effetti negativi sul piano della cultura e della moralità pubblica. Così facendo, infatti, non si attua una collaborazione illecita a una legge ingiusta; piuttosto si compie un legittimo e doveroso tentativo di limitarne gli aspetti iniqui» (n. 73).

Nel caso della legge 40 il discorso cambia:«Non è mai lecito cooperare formalmente al male. Tale cooperazione si verifica quando l’azione compiuta, o per la sua stessa natura o per la configurazione che essa viene assumendo in un concreto contesto, si qualifica come partecipazione diretta ad un atto contro la vita umana innocente o come condivisione dell’intenzione immorale dell’agente principale». (…) Nel caso quindi di una legge intrinsecamente ingiusta, come è quella che ammette l’aborto o l’eutanasia, non è mai lecito conformarsi ad essa, «né partecipare ad una campagna di opinione in favore di una legge siffatta, né dare ad essa il suffragio del proprio voto».

Non v’è dubbio alcuno che purtroppo la legge 40 ha direttamente causato la morte di un numero elevatissimo di esseri umani innocenti e ha indotto in grave errore coloro i quali, in buona fede, l’hanno creduta una legge cattolica oppure una legge necessaria seppur “imperfetta”. (Alfredo De Matteo)

http://www.corrispondenzaromana.it/il-peccato-di-origine-della-legge-40/

lunedì 24 settembre 2012

Haydn- Insanae Et Vanae Curae (St. John's College Choir.)

Sunt fausta tibi cuncta, si Deus est pro te





Insanae et vanae curae invadunt mentes nostras,
saepe furore replent corda, privata spe,
Quid prodest

O mortalis conari pro mundanis,
si coelos negligas,
...

Sunt fausta tibi cuncta, si Deus est pro te.

Vane e folli preoccupazioni invadono la nostra mente
la pazzia ci riempie il cuore e ci deruba della speranza
O mortale, quale profitto dal mondo
se trascuri i cieli,
Se Dio è con te, ogni cosa ti sarà favorevole.

sacrilegio di venezia

Le conseguenze gravissime delle ingiustificate offese e provocazioni alla Fede non sono solo evidenti per le reazioni che suscitano nei credenti ora ma lo saranno anche per i castighi che attireranno prima o poi su di noi.

L'oltraggio di Venezia e il Crocifisso di Vienna

di Roberto De Mattei



E’ difficile immaginare un oltraggio contro la fede cristiana più blasfemo e provocatorio di quello che si è avuto al Festival del Cinema di Venezia il 31 agosto con la proiezione del film Paradise Faith, Fede nel Paradiso, di Ulrich Seidl, film che ha il suo punto culminante in una sequenza in cui la protagonista, l’attrice Maria Hoffstatter, si dedica all’autoerotismo utilizzando come strumento un crocifisso. E’ inutile entrare nei particolari, che sono raccapriccianti, ma sarà bene ricordare che per un cristiano non c’è simbolo più sacro del Crocifisso, che rappresenta Gesù Cristo, l’uomo-Dio, morto sulla Croce per redimere i peccati degli uomini. Tutta la fede cristiana si riassume nella predicazione di Cristo crocifisso.
Lo scandalo di Venezia non è un episodio isolato, ma si inserisce in un quadro di cristianofobia dilagante. Lo spettacolo teatrale di Romeo Castellucci Sul concetto di Volto di Dio, messo in scena a Milano a gennaio, ha aperto quest’anno le danze. Il Festival di Venezia però è una ben più ampia cassa di risonanza, una vetrina internazionale, che ha visto accorrere giornalisti di tutto il mondo, per riferire senza alcuna indignazione della proiezione del film blasfemo, che ha avuto il premio speciale dalla Giuria.
La Santa Sede, il 12 settembre è intervenuta con un comunicato dal tono fermo: “Il rispetto profondo per le credenze, i testi, i grandi personaggi e i simboli delle diverse religioni è una premessa essenziale della convivenza pacifica dei popoli.” A dichiararlo è stato padre Federico Lombardi, portavoce della Sala Stampa Vaticana, che non si è riferito però alla blasfemia di Venezia, ma ad un altro film, Innocence of muslims, prodotto in America e considerato alle origini delle violente manifestazioni in Libia ed in altri paesi arabi.
“Le conseguenze gravissime delle ingiustificate offese e provocazioni alla sensibilità dei credenti musulmani - ha scritto in una nota padre Lombardi – sono ancora una volta evidenti in questi giorni, per le reazioni che suscitano, anche con risultati tragici, che a loro volta approfondiscono tensione ed odio, scatenando una violenza del tutto inaccettabile“. Quanto è accaduto in Libia non sarebbe stato pianificato da mesi da Al Qaida in odio all’Occidente, ma sarebbe stato l’inevitabile conseguenza di “ingiustificate offese e provocazioni alla sensibilità dei credenti musulmani”. Ma perché non vengono definite “ingiustificate” le offese e le provocazioni alla sensibilità dei credenti cattolici come quelle del Festival di Venezia? Solo perché non provocano conseguenze, né gravissime, e neppure modestissime?
Ben pochi hanno ricordato che quanto è accaduto, nella città di Bengasi, è la conseguenza non dell’insulso film anti-Maometto, ma della politica franco-americana di cessione del Medio Oriente all’Islam, che, per nemesi storica, ha avuto il suo momento principale proprio nel sostegno dato dalla Nato ai fondamentalisti di Bengasi contro Gheddafi. E se tutto il mondo ha protestato contro il film anti-islamico, che per ora è semi-clandestino, e presumibilmente non sarà mai proiettato, nessuno ha protestato contro il film anticattolico, che ha avuto tutte le luci della ribalta ed è destinato a larga circolazione, senza alcuna opposizione.
Il vero problema oggi è questo. Non esiste solo la persecuzione dei cristiani nelle terre di Islam, esiste anche la cristianofobia in Occidente. Ma soprattutto esiste l’arrendismo e la complicità dell’Occidente di fronte a questa cristianofobia. L’autolesionismo degli ambienti ecclesiastici fa parte purtroppo di questo sistema di complicità.
Il Beato Marco d’Aviano sulle colline del Kahlenberg, che dominano Vienna, brandiva il Crocifisso come strumento di lotta e di vittoria, per incitare i combattenti cristiani a liberare la città occupata dai musulmani. Oggi il Crocifisso è ridotto a strumento di sordido piacere da una società edonista che si autodistrugge consegnandosi all’Islam.
tratto da: http://www.corrispondenzaromana.it/loltraggio-di-venezia-e-il-crocifisso-di-vienna/

domenica 23 settembre 2012

san silvano del monte athos

24 SETTEMBRE
San Silvano del Monte Athos, monaco




Simeone Ivanovic Antonov nacque nel 1866 a Sciovsk, villaggio della provincia russa di Tambov, in una numerosa famiglia di contadini. Nell’autunno del 1892, dopo aver svolto il servizio militare, lasciò la Russia per il Monte Athos, dove divenne monaco presso il Monastero di san Panteleimon, giunto in quegli anni al suo apogeo con oltre 2000 monaci. Nel 1896 fece la professione monastica, ricevendo il nome di Silvano, e nel 1911 divenne schimonaco, titolo riservato agli asceti più esperti. Lavorò nel metochion (latifondo di proprietà di un monastero athonita, ma sito fuori della penisola athonita) di Kalamareia, poi al mulino del suo Monastero. Dopo molta insistenza ottenne il permesso dell’igumeno di ritirarsi al Rossikon, il primitivo monastero di san Panteleimon divenuto luogo di ritiro per asceti e staretz. Dopo un anno e mezzo venne richiamato al Monastero per assumervi l’incarico di economo alle costruzioni. Morì il 24 sett. 1938. Fu canonizzato il 26 nov. 1987 dal Patriarca Ecumenico Dimitrios I.

San Silvano l’aghiorita condusse una vita semplice e lineare come i contadini russi ed i monaci athoniti. Non fu un monaco dotto, ma divenne un santo monaco dell’Umiltà divina. Suo primo discepolo fu l’archimandrita Sofronio (Sergio Sakharov, Mosca, 22 settembre1896 – Tolleshunt, Essex, 11 luglio 1993) che poi divenne suo biografo. Sofronio conobbe padre Silvano nel 1931 e da allora suo unico scopo divenne impregnarsi dello spirito del suo staretz. Custode dei suoi scritti, ne curò la pubblicazione in russo, provvedendo poi alla loro traduzione nelle principali lingue moderne. Il padre di Silvano, Ivan Petrovic Antonov, fu il suo primo staretz per la grande umiltà, in vista della quale Silvano ricevette numerose grazie mistiche: udì la voce della Vergine Maria, ricevette il dono della preghiera continua e spontanea, vide nello Spirito Santo il Signore Risorto e udì il segreto della divina Umiltà dalla viva voce del Cristo disceso agli inferi. Ricolmato di così tanti doni, divenne splendido esempio della virtù evangelica dell’umiltà, riscoperta come qualità primordiale di Dio. Viveva ancora nel mondo, immerso nella lussuria e nell’ira violenta, quando udì la dolcissima voce della Madre di Dio che lo richiamò dal peccato. La vocazione provocò la decisiva conversione cristiana di Silvano che maturò nella ferma decisione ad abbracciare la vita monastica. Giunto al Monte Athos si gettò nella conversione e s’immerse nella preghiera e dopo sole tre settimane dal suo arrivo all’Athos, la preghiera penetrò a tal punto nel suo cuore che ne sgorgò spontanea e continua, come sorgente dissigillata. Questo dono prezioso non lo esentò dalle tentazioni della carne e dei demoni, al punto che Silvano giunse quasi a disperare della propria salvezza. In questa tragica situazione, durante un vespro primaverile del 1893, mentre recitando la formula della preghiera del cuore guardava l’icona del Salvatore nella chiesa di sant’Elia, vide al suo posto la persona del Signore risorto e fu ripieno di Spirito Santo. Il Risorto non proferì parole ma con il suo sguardo calmo ed umile penetrò il cuore del novizio, colmandolo della grazia vivente dello Spirito Santo, sperimentato da Silvano nel corpo e nell’anima. Tale dolcezza indescrivibile scemò pian piano, plasmando così la sua anima con la forma del desiderio abissale di Dio. L’elogio inopportuno ricevuto da uno staretz per le grandi mete spirituali raggiunte in così giovane età, contagiò Silvano con il virus della vanità. Per quindici anni Silvano lottò contro il pensiero sottile e proteiforme dell’orgoglio, malattia spirituale che lo angustiò fino alla fine dei suoi giorni. La superbia è la radice ultima del peccato, tale pensiero diabolico è il più difficile da estirpare perché assume le forme più diverse, accompagnato spesso da visioni o falsamente celestiali secondo la natura luciferina del Maligno, o direttamente di demoni che torturano l’anima.
Duramente impegnato nel combattimento spirituale, durante una notte di veglia del 1908, Silvano dialogò con il Cristo disceso agli inferi: gli chiese di liberarlo dai demoni che gli impedi-vano la preghiera ed il Cristo gli svelò che la presenza dei diavoli era dovuta al suo orgoglio. Istruito dalla diagnosi di Cristo sulla vera natura del suo stato patologico, Silvano gli chiese di insegnargli la via dell’umiltà e Cristo gliela rivelò, dicendogli: “Tieni il tuo spirito agli inferi e non disperare”. Applicando la terapia di Cristo contro l’orgoglio Silvano ne acquisì l’umiltà, e così scoprì che l’Umiltà di Cristo è l’unica condizione per custodire lo Spirito Santo nel cuore.
La via dell’umiltà di Cristo, su cui Silvano si incamminò negli ultimi trent’anni della sua vita terrena, non è nuova, essendo stata aperta dalla divina Condiscendenza con il parlare le lingue degli uomini, fino ad assumere poi la carne umana. Tale antica via dell’umiltà è però una via stretta, tant’è che pochi sono quelli che la percorrono fino alla fine seguendo il Cristo fin negli inferi.
Tra costoro vi sono l’anonimo ciabattino di Alessandria d’Egitto, sant’Antonio l’egiziano, abba Poemen, abba Sisoes e abba Macario, santa Teresa Eustochio Verzeri, santa Teresa del bambin Gesù, Adrienne von Speyr, la beata madre Teresa di Calcutta. Ma anche prima di Cristo vi furono testimoni della divina Umiltà, quali il patriarca Abramo, il profeta Mosé, il re Davide, i profeti Elia, Geremia e Daniele e Giobbe ed infine l’ultimo dei profeti san Giovanni il precursore.
Secondo san Silvano, la cosa più ardua, non è tenere il proprio spirito agli inferi, che equivale a considerarsi sinceramente degni della dannazione e immeritevoli del paradiso, bensì è sperare sempre senza venir meno, cosa che per Silvano coincide con la forza del cuore, il coraggio. Le conseguenze del pensiero rivelato da Cristo a Silvano sono tre: la conoscenza di Dio nello Spirito Santo, la memoria del proprio essere una creatura ed un peccatore, la necessità di amare i nemici. Questi tre effetti applicano l’unguento dell’umiltà di Dio alle tre relazioni costitutive della persona umana (la relazione a Dio, a sé, agli altri) che così può recuperare la somiglianza perduta con il Creatore.  
Autore: Paolo Gobbini      
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Tieni il tuo spirito agli inferi e non disperare
I foglietti e i quaderni, scritti da Silvano dell'Athos negli ultimi anni della sua vita, sono la testimonianza spirituale veritiera di un uomo che, ritornato uno con Dio, ritrova l'unità con tutte le cose, attraverso la forza del grande dono, lo Spirito santo, resta trasfigu­rato e capace di trasfigurare tutto il creato, perfino il male di cui esso è pervaso.
Silvano non vaga alla periferia della speranza cri­stiana: in fondo egli ridice con parole sue, nel suo hic et nunc, ciò che la Chiesa canta la notte pasqua­le: «Tutto è pieno di luce, i cieli, la terra e anche l'inferno. Tutta la creazione celebri la risurrezione di Cristo nella quale la sua vita trova fondamento, illuminati di gioia, abbracciamoci e chiamiamoci: "Fratelli"; a quanti ci odiano diciamo: "Perdonia­moci a causa della risurrezione di Cristo", e cantia­mo: "Cristo è risorto dai morti, con la sua morte ha vinto la morte, a tutti quelli che sono nelle tombe ha donato la vita!"».
Siamo convinti che agli uomini, piombati oggi in una notte che non è la «notte» di Giovanni della Croce, sia necessario ridire e narrare il messaggio dell'u­nione con Dio, dell'ineffabile attrazione di Cristo, dell'esperienza dello Spirito santo. Proprio di questo mes­saggio Silvano, in grande semplicità e trasparenza, si è fatto ministro e a noi, che attendiamo dei santi, egli si presenta con umiltà, senza pensare di diventare un maestro spirituale; se ha scritto, lo ha fatto «solo sulla bontà del Signore», annotando giorno dopo giorno, con estrema facilità e con cuore da fanciullo, ciò che ­la sua anima arrivava a conoscere del Signore attraverso Io Spirito santo: esperienza ricevuta in dono, non carpita.
A Silvano, che si è donato totalmente a Dio, Dio ha donato se stesso. Questo sanctum commercium, il nostro starec l'ha percepito con forza, forse senza viverlo visibilmente con la stessa intensità; ma chi può dire che l'intensità di ciò che si percepisce deb­ba corrispondere all'intensità di ciò che manifestatamente si vive? Silvano è vissuto come semplice mo­naco, come mugnaio, come un economo di un qualsiasi monastero, un semplice laico: eppure ha saputo vivere dell'Amore in ogni istante, celebrando l'estasi nella vita quotidiana, versando lacrime o cantando di gioia come un ferito dall'Amore Infinito. Se France­sco d'Assisi fu assimilato a Cristo sulla croce del Golgota mediante le stigmate, le mani, il costato, ed i piedi piagati, Silvano dell'Athos, parallelamen­te, fu reso simile al Signore scendendo agli inferi sen­za mai disperare.
È la voce stessa del Signore, percepita nella con­templazione e costantemente ubbidita, che chiede al­lo starec. «Tieni il tuo spirito agli inferi e non dispe­rare!». Come Mosè che accetta di restare fuori dalla Terra promessa purché vi entri Israele, come Cristo che va agli inferi affinchè gli uomini entrino nel Regno, come Paolo che vuole essere anatema, scomuni­cato perché i suoi fratelli di sangue, gli ebrei, si sal­vino, così anche Silvano si tiene agli inferi perché l’ inferno sia svuotato.
L'estasi quotidiana, gemito d'amore, cosciente par­tecipazione alle sofferenze di Cristo, festa del profon­do del cuore, è il frutto normale di una vita spesa alla ricerca di Dio. Oggi però questo desiderio di Dio sem­bra indebolirsi: al desiderio di Dio gli uomini sono ten­tati di sostituire il desiderio delle cose, diventando sen­za saperlo degli idolatri infelici che non trovano libertà ma schiavitù, non gioia ma angoscia. Silvano ci rivolge un appello, ci canta il desiderio di Dio senza misura, ci fa vedere nuovamente un cristianesimo religione di pace e di umili, religione di viventi per il solo Amore di Dio.

NOSTALGIA DI DIO
Una notte stavo seduto nella mia cella, ed ecco la colletta si riempi di demoni. Pregai incessante-mente e il Signore li cac­ciò, ma essi ritornarono. Allora mi alzai per prostrarmi davanti alle icone, ma i demoni mi circondarono e uno di loro si mise davanti a me in modo che non potevo prostrarmi davanti alle icone, perché apparentemente mi sarei prostrato davanti a lui. Allora mi sedetti di nuovo e dissi: « Signore, tu vedi che io voglio pregarti con spirito puro, ma i demoni me lo impedi­scono. Dimmi che cosa devo fare perché se ne vadano via da me! » E mi giunse la risposta del Signore: « Gli orgogliosi sono sempre perseguitati in questo modo dai demoni ».
Allora dissi: « Signore, Dio di misericordia, l'anima mia ti conosce, dimmi che cosa devo fare perché la mia anima sia umi­liata ».
E il Signore mi rispose: « Tieni il tuo spirito agli inferi e non disperare ».
Da allora io tengo il mio spirito agli inferi e brucio nel fuoco tenebroso e ardo di amore per il Signore e lo cerco con le lacrime e grido: « La fine è vicina, io morirò e abiterò nella buia prigione dell'inferno: là io, solo, brucerò e avrò nostalgià del Signore e piangerò: Dove sei, mio Signore, tu che l'ani­ma mia conosce? » E da questo pensiero trassi grande giova­mento. II mio spirito venne purificato e la mia anima trovò riposo. (...)
Il mio corpo è disteso sulla terra; ma il mio spirito si in­nalza verso il Signore per vederlo nella sua gloria. Benché io sia un grande peccatore, il Signore mi ha concesso di conoscerlo nello Spirito santo; la mia anima lo conosce e sa che la sua bontà non ha confini e sa quale gioia viene da lui.
Finché l'anima non ha conosciuto la gioia divina, teme la morte. Essa teme anche Dio, perché non sa quanto Egli sia umile, dolce e misericordioso, poiché nessuno può comprendere l'amore di Cristo senza aver prima gustato la grazia dello Spi­rito santo.
Fratelli amatissimi nel Signore, lo stesso Signore è testi­mone per la mia anima che io scrivo la verità. Sappiatelo, fra­telli, e che nessuno si illuda: chi non ama suo fratello tanto meno ama Dio. La Scrittura ci riporta fedelmente questa ve­rità e noi dobbiamo compierla: allora constaterai in te stesso la misericordia del Signore che nella sua dolcezza ha soggiogato l'anima.

SIGNORE, IO CERCO IL TUO VOLTO                           
La madre di Dio e Giuseppe cercarono con ansia Cristo quando egli restò a Gerusalemme, intrattenendosi al Tempio con gli anziani e Io trovarono solo dopo tre giorni. Come do­veva essere triste il cuore della madre di Dio in quei giorni! Essa pensava: « Dovei sei, figlio mio diletto? Dovei sei, mia preziosa luce? Dove sei, mio cuore adorato? » Allo stesso modo ogni anima deve cercare il Figlio di Dio e Figlio della Vergine finché non l'abbia trovato.
L'anima che ha conosciuto l'amore divino nello Spirito san­to prova al momento della morte un certo timore, poiché du­rante la sua vita ha commesso dei peccati e si sente in colpa. Ma quando vedrà il Signore, sarà beata nel contemplare il suo volto misericordioso e dolce e il Signore non si ricorderà dei suoi peccati a motivo della sua immensa dolcezza e del suo amore. L'anima, fin dal suo primo sguardo rivolto al Signore, sarà invasa dall'amore divino e verrà completamente trasfigu­rata da questo amore e dalla dolcezza dello Spirito santo.
I nostri padri sono passati dalla terra al cielo; ma che fanno lassù? Dimorano nell'amore divino e contemplano la bellezza del volto del Signore. La bellezza del Signore riempie ogni ani­ma di gioia e di amore. Questa bellezza è conosciuta anche sul­la terra, ma in misura minore, poiché un corpo corruttibile non può sopportare la pienezza dell'amore. Qui sulla terra il Si­gnore concede all'uomo, secondo la sua capacità, di sopportare il fuoco e la grazia tanto quanto la mano generosa del Signore vuole concedergli.
L'anima mia si è avvicinata alla morte e desidera ardente­mente vedere il Signore e dimorare con lui in eterno. Il Signore mi ha perdonato molti peccati e mi ha fatto conoscere per mezzo dello Spirito santo come Egli ami gli uomini.
Tutto il cielo si meraviglia dell'incarnazione del Signore: co­me Lui, il supremo Signore, è venuto a salvare noi peccatori e con le sue sofferenze ci ha acquistato il riposo eterno. La mia anima non vuole pensare a nient'altro ma è attratta là dove si trova il Signore. (...)
L'anima mia si ricorda di Te, Signore, tutto il giorno e tutta la notte e ti cerca incessantemente. Il tuo spirito mi induce a cercarti e al tuo ricordo il mio spirito gioisce. La mia anima ti ha amato ed è contenta che Tu sia il mio Signore e il mio Dio. Io languisco per te fino alle lacrime. Benché nel mondo si trovi la bellezza, nulla di ciò che si trova sulla terra mi da gioia: la mia anima non desidera che il Signore e come un bambino che ha perso sua madre si rivolge incessantemente verso il Signore e grida: « L'anima mia languisce per te e io ti cerco tra le la­crime ».
O Signore, effondi il tuo spirito sul mondo intero!
O Spirito santo, vieni a dimorare in noi affinchè tutti con una sola voce rendiamo gloria al nostro Creatore, Padre, Figlio e Spirito santo. Amen! Arch. Sofronio, Silvano del Monte Athos. Vita, dottrina, scritti, Torino 1978,

NON HO ANCORA RAGGIUNTO L'UMILTÀ
Giovedì 15 settembre 1938 (2 settembre secondo il calen­dario Giuliano), verso le cinque del mattino (secondo la maniera atonita di contare: verso l'undicesima ora), andai a veder lo staretz al magazzino e come al solito lo trovai sereno; parlava con voce normale, anche se era un po' sordo. Non notai alcun cambiamento esteriore; stava svolgendo il suo lavoro quotidiano.
Ritornai a trovarlo nella sua cella verso le dieci del mattino. Era seduto su una sedia vicino al tavolino, era cambiato e gli domandai:
- Staretz, che cosa avete?
- Non mi sento bene.
- Che cosa vi sentite?
- Non lo so.
Si alzò dalla sedia e si sedette con lentezza sul letto, appog­giandosi contro il muro e, semidisteso, si sosteneva col braccio destro. Raddrizzando lentamente il collo sollevò il capo: la sof­ferenza era dipinta sul suo volto. Gli domandai:
- Staretz, state per morire?
- Non ho ancora raggiunto l'umiltà - fu la risposta.
Lentamente appoggiò le gambe sul letto, si voltò sul fianco e si coricò completamente vestito. Dopo un breve silenzio gli dissi:
- Staretz, non sarebbe meglio andare in infermeria?
Lo staretz accettò di andarvi ma era già troppo debole per recarvisi da solo, e bisognava sostenerlo. Con tristezza lo con­dussi all'infermeria.
L'infermeria del monastero non dispone di alcuna attrezza­tura specializzata per diagnosticare le malattie, per cui nessuno sapeva con esattezza di che cosa soffrisse lo staretz; lo stato della sua salute però peggiorava di giorno in giorno.
Secondo l'uso del monastero, poiché era gravemente malato riceveva la Comunione ogni giorno. Il lunedì diciannove ricevette l'unzione dei malati.
Andavo a trovarlo spesso, ma non osavo mai disturbarlo ri­volgendogli la parola, per cui mi sedevo vicino all'uscio socchiuso e restavo fuori dalla stanzetta. Durante la vita dello staretz ho avuto molte occasioni di vedere come egli vivesse e di udire dalla sua bocca molte cose che rivelavano l'itinerario interiore del suo cammino spirituale; e mi fu anche data la possibilità di cono­scere, seppure fino ad un certo punto, come egli si avvicinasse al grande mistero della morte. Ma il momento stesso della morte mi fu nascosto.
Negli ultimi giorni della sua vita, dall'inizio della malattia fino alla morte, lo staretz restò in silenzio. Quand'era in vita infatti mi aveva raccontato che un monaco, preparandosi alla morte, aveva passato tutto il tempo in infermeria tenendo gli occhi chiusi per non turbare la memoria di Dio con qualche immagine esteriore. E quando l'amico e compagno d'ascesi di questo monaco andava a trovarlo, egli non scambiava che qual­che parola con lui ma senza aprire gli occhi, riconoscendolo solo dalla voce. Ricordandomi di questo fatto, non disturbavo il ri­poso dello staretz con domande, tranne in qualche raro momento eccezionale.
All'inizio della settimana lo stato dello staretz divenne cri­tico. Il venerdì 23 settembre, la sera prima del calar del sole, il suo confessore, padre Sergio, andò da lui per leggergli il "Can­tico della Santa Vergine", Canone di intercessione per la dipar­tita dell'anima e che si chiama anche "preghiera per gli agoniz­zanti". Avvicinandosi al letto del malato, il confessore disse: « Padre Silvano, benediteci ». Lo staretz aprì gli occhi e, in silenzio, ci guardò con dolcezza. Il suo volto era estremamente pallido, ma rappacificato. Il confessore allora, vedendo che lo staretz taceva, gli domandò:
- Ebbene, padre Silvano, ci riconoscete?
- Vi riconosco - rispose, con voce fioca ma chiara.
- E come vi sentite?
- Bene, mi sento bene.
Questa risposta era forse dettata dal desiderio dell'asceta di nascondere le sue sofferenze e non manifestarle lamentandosi della sua malattia, oppure lo staretz stava veramente bene spiri­tualmente per cui la sua malattia non si faceva già più sentire e non disturbava la pace della sua anima? Non lo so.
- Noi siamo venuti - disse il padre spirituale - per pregare con voi e recitare il Canone della Madre di Dio... Volete?
- Sì, Io voglio veramente.., grazie... lo desidero ardente­mente.
Padre Sergio iniziò a leggere il Canone. Lo staretz, pallidis­simo, era supino, tranquillo, immobile e aveva gli occhi chiusi;
il braccio destro era appoggiato sul petto, il sinistro era abban­donato lungo il corpo, io riuscii, senza muoverlo, a controllare con preoccupazione le pulsazioni del braccio destro: erano estre­mamente irregolari; talvolta appena percettibili, talvolta più for­ti, ma in entrambi i casi erano irregolari e cambiavano costan­temente.
Terminata la lettura della preghiera degli agonizzanti lo sta­retz aprì ancora gli occhi, ci ringraziò a bassa voce e ci separam­mo da lui dicendogli: « A domani mattina ».
Verso mezzanotte padre Nicola, l'infermiere, entrò nella stan­zetta e lo staretz gli chiese:
- Hanno recitato il Mattutino?
- Sì - rispose l'infermiere. Ed aggiunse se avesse bisogno di qualcosa.
- No, grazie, non ho bisogno di nulla.
La serenità manifestata dallo staretz nel porre questa do­manda e nel rispondere all'infermiere, e il fatto stesso che udisse la lettura del Mattutino, appena percepibile in quell'angolo riti­rato dimostrava come egli fosse ancora cosciente e in possesso delle sue facoltà. Al termine del Mattutino, cioè circa un'ora e mezza dopo questa breve conversazione, Padre Nicola ritornò dallo staretz e rimase stupefatto nel trovarlo già morto. Nessuno l'aveva udito spirare, anche coloro che dormivano vicinissimi a lui. Questa fu la sua dolce dipartita. Arch. Sofronio, Silvano del Monte Alhos. Vita, dottrina, scritti, Torino 1978, p. 229 ss

ORAZIONE Dio misericordioso, che attraverso l'effusione dello Spirito santo hai concesso a Silvano dell'Athos di scendere con il suo spirito all'inferno senza disperare, gli hai donato l'amore per i nemici: per la sua testimonianza, concedi anche a noi di cantare il tuo amore in questa vita e oltre la morte, nell’ eternità. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio che è Dio e vive e regna con te nell'unità dello Spirito Santo, per tutti secoli dei secoli.