giovedì 31 marzo 2016

rimettere le persone nei loro corpi

Per ricostruire il matrimonio e la famiglia bisogna rimettere le persone nei loro (sacri) corpi. Spettacolare lezione di Caffarra




Pubblichiamo l’intervento con il quale il cardinale Carlo Caffarra, arcivescovo di Bologna, ha aperto ieri mattina a Roma i lavori del convegno “Matrimonio e famiglia. La questione antropologica e l’evangelizzazione della famiglia”, organizzato dalla facoltà di Diritto canonico della Pontificia Università della Santa Croce.
 
Rifletterò sulla comunicazione della proposta cristiana circa il matrimonio dentro la cultura occidentale e presenterò il mio ragionamento in tre tempi. Nel primo cercherò di disegnare uno schizzo della condizione culturale in cui oggi versa il matrimonio in Occidente. Nel secondo cercherò di individuare i problemi fondamentali che questa condizione culturale pone alla proposta cristiana riguardante il matrimonio. Nel terzo indicherò alcune modalità fondamentali con cui il Vangelo del matrimonio oggi deve proporsi.
 
Condizione del matrimonio oggi
«Rari nantes in gurgite vasto». Il famoso verso virgiliano fotografa perfettamente la condizione del matrimonio in Occidente. L’edificio del matrimonio non è stato distrutto; è stato de-costruito, smontato prezzo per pezzo. Alla fine abbiamo tutti i pezzi, ma non c’è più l’edificio.
 
Esistono ancora tutte le categorie che costituiscono l’istituzione matrimoniale: coniugalità; paternità-maternità; figliazione-fraternità. Ma esse non hanno più un significato univoco.
 
Perché e come è potuto accadere questa de-costruzione? Cominciando a scendere in profondità, costatiamo che è in opera una istituzionalizzazione del matrimonio che prescinde dalla determinazione bio-sessuale della persona. Diventa sempre più pensabile il matrimonio separandolo totalmente dalla sessualità propria di ciascuno dei due coniugi. Questa separazione è giunta perfino a coinvolgere anche la categoria della paternità-maternità.
 
La conseguenza più importante di questa de-biologizzazione del matrimonio è la sua riduzione a mera emozione privata, senza una rilevanza pubblica fondamentale.
 
Il processo che ha portato alla separazione dell’istituto matrimoniale dall’identità sessuale dei coniugi, è stato lungo e complesso. Non posso che accennarlo nei suoi momenti essenziali.
 


Ferrandina
d. Luciano Micheli
 
Il primo momento è costituito dal modo di pensare il rapporto della persona al proprio corpo, un tema che ha sempre accompagnato il pensiero cristiano. Mi sia consentito ci descrivere come sono andate le cose attraverso una metafora. Il pensiero cristiano ha ingerito la visione platonica e neo-platonica dell’uomo, ed una tale decisione ha creato gravi problemi di “metabolismo”. Come amavano esprimersi i teologi medievali, il vino della fede rischiava di trasformarsi nell’acqua di Platone, anziché l’acqua di Platone nel vino della fede. La difficoltà propriamente teologica non poteva non divenire anche difficoltà antropologica riguardante precisamente il rapporto persona-corpo. La grande tesi di S. Tommaso che affermava l’unità sostanziale della persona non è risultata vincente.
 
Secondo momento. La separazione del corpo dalla persona trova un nuovo impulso nella metodologia propria della scienza moderna, la quale bandisce dal suo oggetto di studio ogni riferimento alla soggettività, in quanto grandezza non misurabile. Il percorso della separazione del corpo dalla persona può dirsi sostanzialmente concluso: la riduzione, la trasformazione del corpo in puro oggetto.
 
Da una parte il dato biologico viene progressivamente espulso dalla definizione di matrimonio, dall’altra, e di conseguenza in ordine alla definizione di matrimonio le categorie di una soggettività ridotta a pura emotività diventano centrali.
 
Mi fermo un poco su questo. Prima della svolta de-biologizzante, in sostanza il “genoma” del matrimonio e famiglia era costituito dalla relazione fra due relazioni: la relazione di reciprocità [la coniugalità] e la relazione inter-generazionale [la genitorialità]. Tutte e tre le relazioni erano intra-personali: erano pensate come relazioni radicate nella persona. Esse non si riducevano certamente al dato biologico, ma il dato biologico veniva assunto ed integrato dentro la totalità della persona. Il corpo è un corpo-persona e la persona è una persona-corpo.
 
Ora la coniugalità può essere sia etero che omosessuale; la genitorialità può essere ottenuta da un procedimento tecnico. Come giustamente ha dimostrato P.P. Donati, stiamo assistendo non ad un cambiamento morfologico, ma ad un cambiamento del genoma della famiglia e del matrimonio.
 
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Problemi posti dal Vangelo del matrimonio
In questo secondo punto vorrei individuare i problemi fondamentali che questa condizione culturale pone alla proposta cristiana del matrimonio.
 
Penso che non si tratti in primo luogo di un problema etico, di condotte umane. La condizione in cui versa oggi il matrimonio e la famiglia non può essere affrontata in primo luogo con esortazioni morali. È una questione radicalmente antropologica quella che viene posta all’annuncio del vangelo del matrimonio. Vorrei ora precisare in che senso.
 
– La prima dimensione della questione antropologica è la seguente. È noto che secondo la dottrina cattolica, il matrimonio sacramento coincide col matrimonio naturale. La coincidenza fra i due penso che non si possa più oggi mettere teologicamente in dubbio.
 
Ora ciò che la Chiesa intendeva ed intende per “matrimonio naturale” è stato demolito nella cultura contemporanea. È stata tolta la “materia”, mi sia consentito dire, al sacramento del matrimonio.
 
Giustamente teologi, canonisti, e pastori si stanno interrogando sul rapporto fede-sacramento del matrimonio. Ma esiste un problema più radicale. Chi chiede di sposarsi sacramentalmente, è capace di sposarsi naturalmente? Oppure: non la sua fede, ma la sua umanità è così devastata da non essere più in grado di sposarsi?
 
– La questione antropologica ha una seconda dimensione. Essa consiste nell’incapacità di percepire la verità e quindi la preziosità della sessualità umana. Mi sembra che Agostino abbia descritto nel modo più preciso questa condizione: «Sommerso ed accecato come ero, non ero capace di pensare alla luce della verità e ad una bellezza che meritasse di essere amata per se stessa che non fosse visibile agli occhi della carne, ma nell’interiorità».
 
La Chiesa deve chiedersi perché ha di fatto ignorato il magistero di S. Giovanni Paolo II sulla sessualità e l’amore umano. Dobbiamo chiederci anche: la Chiesa possiede una grande scuola in cui impara la profonda verità del corpo-persona, la Liturgia. Come e perché non ha saputo farne tesoro anche in ordine alla domanda antropologica di cui stiamo parlando? Fino a che punto la Chiesa ha coscienza del fatto che la teoria del gender è un vero tsunami, che non ha di mira principalmente il comportamento degli individui, ma la distruzione totale del matrimonio e della famiglia?
 
In sintesi: il secondo problema fondamentale che si pone oggi alla proposta cristiana del matrimonio è la ricostruzione di una teologia e filosofia del corpo e della sessualità, che generino un nuovo impegno educativo in tutta la Chiesa.
– La questione antropologica posta dalla condizione in cui versa il matrimonio alla proposta cristiana dello stesso ha una terza dimensione: la più grave.
 
Il collasso della ragione nella sua tensione verso la verità di cui parla la Fides et ratio [cfr. 81-83] ha trascinato con sé anche la volontà e la libertà della persona. L’impoverimento della ragione ha generato l’impoverimento della libertà. In conseguenza del fatto che disperiamo della nostra capacità di conoscere una verità totale e definitiva, noi abbiamo difficoltà a credere che la persona umana possa realmente donare se stessa in modo totale e definitivo, e ricevere l’auto-donazione totale e definitiva di un altro.
 
L’annuncio del Vangelo del matrimonio ha a che fare con una persona la cui volontà e libertà è privata dalla sua consistenza ontologica. Nasce da questa inconsistenza l’incapacità oggi della persona di pensare l’indissolubilità del matrimonio se non in termini di una legge «exterius data»: una grandezza inversamente proporzionale alla grandezza della libertà. È questa una questione molto seria anche nella Chiesa.
 
– Con quest’ultima costatazione siamo entrati nella quarta ed ultima dimensione della questione antropologica posta all’annuncio del Vangelo del matrimonio: la logica interna propria degli ordinamenti giuridici degli Stati riguardo a matrimonio e famiglia. Sulla questione in generale, Benedetto XVI ha espresso il Magistero della Chiesa in uno dei suoi discorsi fondamentali, quello tenuto davanti al Parlamento della Rep. Federale tedesca a Berlino il 22 settembre 2011.
 
Gli ordinamenti giuridici sono andati progressivamente sradicando il diritto di famiglia dalla natura della persona umana. È una sorta di tirannia dell’artificialità, che si va imponendo, riducendo la legittimità alla procedura. Le leggi attuali di equiparazione si attribuiscono l’autorità di creare la capacità di esercitare il diritto di sposarsi, di rendere artificialmente possibile ciò che naturalmente non lo è.
 
Sarebbe un grave errore il pensare – e agire di conseguenza – che il matrimonio civile non interessi il Vangelo del matrimonio, al quale interesserebbe solo il sacramento del matrimonio.
 
 
Modalità dell’annuncio
Vorrei ora in questo terzo ed ultimo punto indicare alcune modalità in cui la proposta cristiana del matrimonio non deve essere fatta, ed alcune modalità in cui può essere fatta.
 
Vi sono tre modalità che vanno evitate. La modalità tradizionalista, la quale confonde una particolare forma di essere famiglia con la famiglia ed il matrimonio come tale. La modalità catacombale, la quale sceglie di ritornare o rimanere nelle catacombe. Concretamente: bastano le virtù “private degli sposi”; è meglio lasciare che il matrimonio, dal punto di vista istituzionale, sia definito da ciò che la società liberale decide. La modalità buonista, la quale ritiene che la cultura di cui ho parlato sopra, sia un processo storico inarrestabile. Propone di venire, quindi, a compromessi con esso, salvando ciò che in esso sembra essere riconoscibile come buono.
 
Non ho ora il tempo per rifletter più a lungo su ciascuna di queste tre modalità, e passo quindi all’indicazione di alcune modalità positive.
 
Parto da una costatazione. La ricostruzione della visione cristiana del matrimonio nella coscienza dei singoli e nella cultura dell’Occidente è da pensarsi come un processo lungo e difficile. Quando una pandemia si abbatte su un popolo, la prima urgenza è sicuramente curare chi è stato colpito, ma è anche necessario eliminare le cause.
 
La prima necessità è la riscoperta delle evidenze originarie riguardanti il matrimonio e la famiglia. Togliere dagli occhi del cuore la cataratta delle ideologie, le quali ci impediscono di vedere la realtà. È la pedagogia [socratico-agostiniana] del maestro interiore, non semplicemente del consenso. Cioè: recuperare quel “conosci te stesso” che ha accompagnato il cammino spirituale dell’Occidente.
Le evidenze originarie sono inscritte nella stessa natura della persona umana. La verità del matrimonio non è una lex exterius data, ma una veritas indita.
 
La seconda necessità è la riscoperta della coincidenza del matrimonio naturale col matrimonio-sacramento. La separazione fra i due finisce da una parte a pensare la sacramentalità come qualcosa di aggiunto, di estrinseco, e dall’altra parte rischia di abbandonare l’istituto matrimoniale a quella tirannia dell’artificiale di cui parlavo.
 
La terza necessità è la ripresa della “teologia del corpo” presente nel Magistero di S. Giovanni Paolo II. Il pedagogo cristiano si trova oggi ad aver bisogno di un lavoro teologico e filosofico che non può più essere rimandato, o limitato ad una particolare istituzione.
Come vedete si tratta di prendere sul serio quella superiorità del tempo sullo spazio di cui parla l’Evangelii gaudium [222-225]: ho indicato tre processi più che tre interventi di urgenza.
Sono anch’io, alla fine, del parere di G. Weigel che alla base delle discussioni del Sinodo è il rapporto che la Chiesa vuole avere colla post-modernità, nella quale i relitti della decostruzione del matrimonio sono la realtà più drammatica ed inequivocabile.
 
Foto matrimonio da Shutterstock

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mercoledì 30 marzo 2016

maschi svirilizzati e femminilizzati

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Svirilizzati e femminilizzati. L’Occidente denunciato da Eric Zemmour

Ebreo francese di origine algerina, patriota, simbolo del politicamente scorretto, opinionista di Le Figaro e animatore di trasmissioni radiofoniche (in Italia Piemme ha pubblicato il suo “L’uomo maschio”, critica della società “femminilizzata”) Zemmour è già stato definito Oltralpe l’uomo del 2014 dopo l’uscita del suo ultimo saggio Le suicide français (Il suicidio francese). Il suo motto? “La reazione è oggi sovversiva”.
 
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Anche il mondo dell’editoria, come quello del giornalismo, è diventato un tempio di mercanti. Si stravolgono persino le tesi degli autori pur di trafficare libri e fare profitto. È il caso della casa editrice Piemme che poche settimane fa ha ri-editato L’uomo maschio, di cui era già editore, titolandolo questa volta Sii sottomesso. La virilità perduta che ci consegna all’Islam. Una mossa studiata a tavolino per affiancare in tutte le vetrine d’Italia questo “bestseller” scritto da Eric Zemmour nel 2005 (in Francia ha venduto oltre 100mila copie) al romanzo mal interpretato dall’intera vulgata giornalistica “Sottomissione” di Michel Houellebecq. Inserire la parola “Islam”, intesa come “islamizzazione”, nel sottotitolo non solo inserisce scorrettamente il pamphlet nella pubblicistica fallaciana dello “scontro di civiltà”, ma soprattutto devia la tesi globale manifestata dal giornalista francese.

L’uomo maschio è in realtà un trattato contro l’Occidente: femminilizzato e svirilizzato. “La società unanime sta domandando agli uomini di rivelare la femminilità che è in loro. Con sospetta, morbosa e stupefacente buona volontà gli uomini stanno facendo del loro meglio per mettere in atto questo programma ambizioso: diventare una donna come le altre. In sostanza per superare i propri istinti arcaici. La donna non è più un sesso, è un ideale”, scrive Zemmour. L’editorialista di Le Figaro identifica come responsabili di questa metamorfosi antropologica e societale l’alleanza post-sessantina tra femministe e lobby omosessuale con la complicità di multinazionali, definite “la quintessenza del capitalismo”, e mondo dello show-business il quale offre alle nuove generazioni modelli culturali profondamente degenerati, dai calciatori svirilizzati alle modelle anoressiche.

Il progressivo smantellamento di una società patriarcale ha prodotto una donna mascolinizzata e un uomo svrilizzato, dunque femminilizzato, perfettamente interscambiabili tra loro. Se prima infatti le rivendicazioni sull’uguaglianza dei sessi erano di carattere giuridico ed economico, di conseguenza ragionevoli e legittime, queste sono diventate di carattere antropologico. Sembrerebbe così disegnarsi all’orizzonte una figura nuova: l’essere umano unisex. Perché dove c’è convergenza delle identità sessuali c’è di conseguenza annullamento. Il maschile e il femminile si cancellano a vantaggio di un ibrido modello androgino in una società artificiale e post-umana. Lo stesso Alain De Benoist ne La femminilizzazione dell’Occidente aveva scritto in relazione al rapporto tra i sessi:  “la Modernità tende a sopprimere le differenze, di qualsiasi natura, a vantaggio di un modello omogeneo. Tale omogeneità risponde in primo luogo alle esigenze del capitale, cui occorre trasformare l’esistenza quotidiana in un immenso mercato, dove desideri e bisogni si somigliano”.

Il pamphletista Zemmour denuncia così l’uomo sottomesso all’ideologia dominante, il quale ha perso la sua autorità e autorevolezza all’interno del nucleo famigliare quanto in quello sociale. L’uomo ideale oggi? “Si depila. Fa incetta di prodotti di bellezza. Indossa gioielli. Crede fermamente ai valori femminili”, mentre la donna, ora integrata, più o meno, nel mercato del lavoro (forzato), cerca di emanciparsi anch’essa indossando i pantaloni e inseguendo il mito della donna in carriera, in stile Vanity Fair, senza però abbandonare il sentimentalismo di Sex and the City. Perché in fondo tutto ciò che è emotivo è propenso al consumo di notizie, immagini e prodotti. Il sesso femminile, nettamente più compulsivo di quello maschile come aveva fatto notare un secolo prima in Sesso e Carattere lo scrittore austriaco Otto Weininger, è di conseguenza più esposto alla civiltà dei consumi.

Torna a far scandalo tra le anime belle la ri-edizioni de “L’uomo maschio”. Ma le sue posizioni politicamente scorrette e “reazionarie” non avrebbero potuto avere successo in Francia se Zemmour non fosse un uomo raffinato e di vastissima cultura. Eric Zemmour è già stato definito Oltralpe come l’uomo del 2014 dopo l’uscita del suo ultimo saggio Le suicide français (Il suicidio francese) che ha venduto più di 400mila copie. L’editorialista di Le Figaro ricostruisce in cinquecento pagine la storia dell’egemonia politica sessantottina in un contesto che vede trionfare la globalizzazione e quindi la distruzione della cultura e dell’identità francese.

http://www.lintellettualedissidente.it/editoriale/svirilizzati-e-femminilizzati-loccidente-denunciato-da-eric-zemmour/

martedì 29 marzo 2016

CRISI al QUADRATO nella CHIESA

Ratzinger: ‘Dopo Vaticano II, doppia profonda crisi’
 
L’intervista a Joseph Ratzinger di cui pubblichiamo questo stralcio, è stata curata e realizzata dal gesuita belga Jacques Servais ed è stata presentata nel contesto del Convegno dal titolo: “Per mezzo della fede. Dottrina della giustificazione ed esperienza di Dio nella predicazione degli Esercizi Spirituali”.
 
 

 
 
 
com1302pD.: Negli Esercizi Spirituali, Ignazio di Loyola non utilizza le immagini veterotestamentarie di vendetta, al contrario di Paolo (come si evince nella seconda lettera ai Tessalonicesi); ciò non di meno egli invita a contemplare come gli uomini, fino alla Incarnazione, «discendevano all’inferno» e a considerare l’esempio dagli «innumerevoli altri che vi sono finiti per molti meno peccati di quelli che ho commesso io». È in questo spirito che san Francesco Saverio ha vissuto la propria attività pastorale, convinto di dover tentare di salvare dal terribile destino della perdizione eterna quanti più «infedeli» possibile. Si può dire che su questo punto, negli ultimi decenni, c’è stato una sorta di «sviluppo del dogma» di cui il Catechismo deve assolutamente tenere conto?
R.: «Non c’è dubbio che in questo punto siamo di fronte a una profonda evoluzione del dogma. Mentre i Padri e i teologi del medioevo potevano ancora essere del parere che nella sostanza tutto il genere umano era diventato cattolico e che il paganesimo esistesse ormai soltanto ai margini, la scoperta del nuovo mondo all’inizio dell’era moderna ha cambiato in maniera radicale le prospettive.
 
Nella seconda metà del secolo scorso si è completamente affermata la consapevolezza che Dio non può lasciare andare in perdizione tutti i non battezzati e che anche una felicità puramente naturale per essi non rappresenta una reale risposta alla questione dell’esistenza umana.

Se è vero che i grandi missionari del XVI secolo erano ancora convinti che chi non è battezzato è per sempre perduto, e ciò spiega il loro impegno missionario, nella Chiesa cattolica dopo il Concilio Vaticano II tale convinzione è stata definitivamente abbandonata. Da ciò derivò una doppia profonda crisi. Per un verso ciò sembra togliere ogni motivazione a un futuro impegno missionario. Perché mai si dovrebbe cercare di convincere delle persone ad accettare la fede cristiana quando possono salvarsi anche senza di essa? Ma pure per i cristiani emerse una questione: diventò incerta e problematica l’obbligatorietà della fede e della sua forma di vita.

Se c’è chi si può salvare anche in altre maniere non è più evidente, alla fin fine, perché il cristiano stesso sia legato alle esigenze dalla fede cristiana e alla sua morale. Ma se fede e salvezza non sono più interdipendenti, anche la fede diventa immotivata. Negli ultimi tempi sono stati formulati diversi tentativi allo scopo di conciliare la necessità universale della fede cristiana con la possibilità di salvarsi senza di essa.

Ne ricordo qui due: innanzitutto la ben nota tesi dei cristiani anonimi di Karl Rahner. In essa si sostiene che l’atto-base essenziale dell’esistenza cristiana, che risulta decisivo in ordine alla salvezza, nella struttura trascendentale della nostra coscienza consiste nell’apertura al tutt’altro, verso l’unità con Dio. La fede cristiana avrebbe fatto emergere alla coscienza ciò che è strutturale nell’uomo in quanto tale. Perciò quando l’uomo si accetta nel suo essere essenziale, egli adempie l’essenziale dell’essere cristiano pur senza conoscerlo in modo concettuale.

Il cristiano coincide dunque con l’umano e in questo senso è cristiano ogni uomo che accetta se stesso anche se egli non lo sa. È vero che questa teoria è affascinante, ma riduce il cristianesimo stesso a una pura conscia presentazione di ciò che l’essere umano è in sé e quindi trascura il dramma del cambiamento e del rinnovamento che è centrale nel cristianesimo.

Ancor meno accettabile è la soluzione proposta dalle teorie pluralistiche della religione, per le quali tutte le religioni, ognuna a suo modo, sarebbero vie di salvezza e in questo senso nei loro effetti devono essere considerate equivalenti. La critica della religione del tipo di quella esercitata dall’Antico Testamento, dal Nuovo Testamento e dalla Chiesa primitiva è essenzialmente più realistica, più concreta e più vera nella sua disamina delle varie religioni. Una ricezione così semplicistica non è proporzionata alla grandezza della questione.

Ricordiamo da ultimo soprattutto Henri de Lubac e con lui alcuni altri teologi che hanno fatto forza sul concetto di sostituzione vicaria. Per essi la proesistenza di Cristo sarebbe espressione della figura fondamentale dell’esistenza cristiana e della Chiesa in quanto tale. È vero che così il problema non è del tutto risolto, ma a me pare che questa sia in realtà l’intuizione essenziale che così tocca l’esistenza del singolo cristiano.

Cristo, in quanto unico, era ed è per tutti e i cristiani, che nella grandiosa immagine di Paolo costituiscono il suo corpo in questo mondo, partecipano di tale essere-per. Cristiani, per così dire, non si è per se stessi, bensì, con Cristo, per gli altri. Ciò non significa una specie di biglietto speciale per entrare nella beatitudine eterna, bensì la vocazione a costruire l’insieme, il tutto.

Quello di cui la persona umana ha bisogno in ordine alla salvezza è l’intima apertura nei confronti di Dio, l’intima aspettativa e adesione a Lui, e ciò viceversa significa che noi assieme al Signore che abbiamo incontrato andiamo verso gli altri e cerchiamo di render loro visibile l’avvento di Dio in Cristo. È chiaro che dobbiamo riflettere sull’intera questione».

qualcuno uccida la chiesa

Come muore una religioneLe fedi possono ammalarsi, ma non scompaiono da sole: serve qualcuno che le uccida. La fine del cristianesimo globale e i falsi miti sull'islam tollerante
 




Anticipiamo alcuni estratti de “La storia perduta del cristianesimo”, di Philip Jenkins. Il volume, edito da Emi (352 pp., 20 euro), da pochi giorni in libreria. Jenkins, professore emerito alla Penn State University in Pennsylvania, è ora docente di Storia e Scienze religiose alla Baylor University, in Texas.


Le religioni muoiono. Nel corso della storia, alcune religioni svaniscono del tutto, altre si riducono da grandi religioni mondiali a una manciata di seguaci.
Il manicheismo, una religione che un tempo attirava adepti dalla Francia alla Cina, non esiste più in alcuna forma organizzata o funzionale; né esistono più le fedi che, mezzo millennio fa, dominavano il Messico e l’America Centrale. In alcuni casi le religioni possono sopravvivere in qualche parte del mondo, ma si estinguono nei territori che un tempo erano considerati le loro patrie naturali. Per mille anni l’India è stata prevalentemente buddhista, fede che ora risulta marginale in quella terra. Una volta la Persia era zoroastriana, la maggior parte della Spagna musulmana. Non è difficile trovare paesi o addirittura continenti che un tempo furono visti come le terre natali di una determinata fede, in cui tale credo è oggi estinto; e queste catastrofi non riguardano solo credenze primordiali o “primitive”. I sistemi che noi consideriamo grandi religioni mondiali sono vulnerabili alla distruzione quanto la fede degli aztechi o dei maya nelle loro particolari divinità.

In diverse occasioni anche il cristianesimo è stato distrutto in regioni dove un tempo aveva prosperato. Nella maggior parte dei casi, l’eliminazione è stata tanto meticolosa da cancellare ogni memoria dei cristiani sul territorio, al punto che oggi qualsiasi presenza cristiana da quelle parti è guardata come una sorta di specie invasiva arrivata dall’Occidente. Questa osservazione sulla distruzione delle chiese, però, appare in contrasto con la visione che molti popoli hanno della storia del cristianesimo. Di solito, tale storia viene presentata come il racconto di una costante espansione, dal Medio Oriente all’Europa e infine sulla scena mondiale. Il cristianesimo sembra essersi diffuso liberamente e inesorabilmente, tanto che di rado si ricordano grandi sconfitte e battute d’arresto.
 
I disastri e le persecuzioni sono rammentati, di solito, come il preludio ad ancora maggiori progressi, come opportunità per offrire una resistenza eroica all’oppressione. I protestanti sanno che la loro fede è sopravvissuta a tutte le persecuzioni e stragi delle guerre di religione; i cattolici ricordano che le peggiori atrocità loro inflitte da regimi protestanti e atei non sono riuscite a far tacere la vera fede. Osservatori più recenti testimoniano la sopravvivenza delle chiese sotto il comunismo, e il trionfo finale simboleggiato da papa Giovanni Paolo II. Come insegna l’inno, la verità durerà, nonostante la prigione, il fuoco e la spada. Chi si interessa alla storia del cristianesimo conosce la fondazione, la crescita e lo sviluppo delle chiese, ma quanti hanno letto i racconti del declino o dell’estinzione di comunità e istituzioni cristiane? Sembra che la maggior parte dei cristiani trovi inquietante la sola idea. Eppure tali eventi si sono sicuramente verificati, e molto più spesso di quanto non si pensi.

Nel tardo Medioevo, defezioni di massa e persecuzioni in tutta l’Asia e il Medio Oriente sradicarono alcune comunità cristiane che erano tra le maggiori del mondo di allora: chiese che avevano un legame diretto, in termini di discendenza e di cultura, con il primo movimento di Gesù in Siria e in Palestina.

Nel XVII secolo il Giappone eliminò una presenza cristiana che era sul punto di acquisire un reale potere all’interno del paese, e forse di ottenere la conversione dell’intera nazione.

Più volte, nel corso della sua storia, l’albero della Chiesa è stato potato e tagliato, spesso selvaggiamente. Questi episodi di espulsione o distruzione di massa hanno plasmato in profondità il carattere della fede cristiana.

Oggi siamo abituati a pensare al cristianesimo come a una fede tradizionalmente ambientata in Europa e nel Nord America, e solo gradualmente apprendiamo lo strano concetto che quella religione si propaga su scala globale, poiché il numero dei cristiani sta aumentando velocemente in Africa, in Asia e in America Latina.

Il cristianesimo è talmente radicato nel patrimonio culturale dell’Occidente da far sembrare quasi rivoluzionaria una simile globalizzazione, con tutte le influenze che essa può esercitare sulla teologia, l’arte e la liturgia. Una fede associata principalmente con l’Europa deve in qualche modo adattarsi a questo mondo più vasto, ridimensionando molte delle proprie premesse, legate alla cultura europea. Alcuni si chiedono addirittura se questo nuovo cristianesimo globale o mondiale rimarrà pienamente autentico, come se le norme europee rappresentassero una sorta di gold standard. Queste domande, tuttavia, non hanno più senso quando ci si rende conto di quanto sia artificiosa l’accentuazione del carattere euroamericano nel contesto più ampio della storia cristiana.

La particolare forma di cristianesimo a noi familiare costituisce una svolta radicale rispetto a quella che è stata per oltre un millennio la norma storica: una volta esisteva un altro e più antico cristianesimo. Per la maggior parte della sua storia, il cristianesimo è stato una religione tricontinentale, con potenti rappresentanze in Europa, Africa e Asia, e tale è rimasto fino al XIV secolo inoltrato. In seguito è diventato prevalentemente europeo non perché questo continente abbia affinità evidenti con la fede cristiana, ma per un fatto automatico, perché l’Europa era l’unico continente dove non era stato distrutto. Gli eventi avrebbero potuto avere uno sviluppo ben diverso. Offrendo questa descrizione della caduta delle chiese non europee, non intendo lamentare la fine di un’egemonia cristiana mondiale che non è mai esistita, né tantomeno il fallimento di una resistenza a religioni rivali come l’islam.
 
Ciò che si deve rimpiangere, piuttosto, è la distruzione di una cultura un tempo fiorente, così come ci si rammarica per la scomparsa della Spagna musulmana, dell’India buddhista o dei mondi ebraici dell’Europa orientale. Con la possibile eccezione di alcuni credo particolarmente sanguinosi o violenti, la distruzione di qualunque significativa tradizione di fede è una perdita insostituibile per l’esperienza umana e per la cultura. Inoltre, l’esperienza cristiana offre lezioni che si possono applicare più in generale alla sorte di altre religioni che hanno subito persecuzioni o sono state eliminate.

Se una fede vigorosa e pervasiva come quella del cristianesimo mediorientale o asiatico è potuta cadere nell’oblio totale, nessuna religione può sentirsi al sicuro.

E le modalità con cui si è verificata una simile caduta sono di grande interesse per chiunque pensi al futuro di qualsiasi credo o confessione religiosa. Soprattutto, la riscoperta dei mondi cristiani perduti dell’Africa e dell’Asia pone domande che fanno riflettere sulla natura della memoria storica. Come abbiamo fatto a dimenticare una storia così importante? Per quanto riguarda la storia del cristianesimo, che di solito viene strettamente associata alla formazione dell’“Occidente”, molto di ciò che crediamo di sapere è impreciso; mi riferisco ai luoghi e ai momenti in cui gli eventi sono accaduti e a come si sono verificati i cambiamenti in ambito religioso. Inoltre, molti aspetti del cristianesimo che oggi consideriamo tipicamente moderni rappresentavano, in realtà, la norma in un lontano passato: la globalizzazione, l’incontro con altre fedi e i dilemmi della vita sotto regimi ostili. Come è possibile che le nostre mappe mentali del passato si siano così radicalmente distorte? (…)
 
I teologi affrontano raramente gli inquietanti problemi posti dalla distruzione di chiese e comunità cristiane. E’ importante rendersi conto che tali episodi di declino e scomparsa, per quanto poco vengano studiati e discussi, sono abbastanza frequenti. La scristianizzazione è uno degli aspetti meno studiati della storia del cristianesimo. In parte, la mancanza d’interesse nei confronti delle chiese che scompaiono è dovuta a ragioni pratiche, in quanto le organizzazioni sul punto di dissolversi tendono a non documentare la propria estinzione. Quando si trovano nella fase ascendente, i movimenti o le congregazioni producono storici che ricercano con affettuosa cura i documenti di fondazione e registrano tutte le fonti possibili relative agli inizi. Il testo fondante della storia del cristianesimo è la Storia ecclesiastica di Eusebio, che mise insieme ogni frammento di informazione, leggenda o diceria si potesse trovare sulle origini del movimento cristiano nascente del IV secolo. John Foxe, nel XVI secolo, non fu meno scrupoloso nella raccolta di informazioni su tutti gli eroi e martiri i cui sacrifici posero le basi delle nuove chiese protestanti.
 
Ma per contrasto si immagini una Chiesa in via di dissoluzione. Gli edifici di culto cadono in rovina o vengono abbandonati, non si trovano successori per gli episcopati, mentre i comuni fedeli, in preda allo scoraggiamento, si rivolgono ad altre fedi. Forse si dà la caccia ai preti e ai monaci, che temono per la loro vita. A un certo punto diventa possibile identificare l’ultimo prete o pastore cristiano in una determinata città o regione, forse anche l’ultimo credente. In tali condizioni disperate, pochi hanno la voglia o la capacità di scrivere la storia del declino e della caduta della loro comunità, e ancora meno di conservarla per i posteri. Quando una fede viene sostituita da un’altra, i suoi ex membri dedicheranno poca attenzione alla decadente letteratura di una religione che ormai considerano antagonista e sbagliata, se non diabolica. Alcuni “zelatori” potrebbero addirittura considerare lodevole la distruzione di quegli antichi scritti: la pia attitudine al rogo dei libri è la ragione per cui sopravvivono pochi testi delle religioni azteca e maya.
 
Inoltre, nelle epoche che hanno preceduto l’avvento degli attuali mezzi di comunicazione, i compagni di fede in altre terre sapevano o si curavano poco degli eventi lontani. La ragione per cui disponiamo di molte informazioni sulla caduta della Chiesa giapponese è che la sorte dei suoi sacerdoti europei stava moltissimo a cuore ai fratelli cattolici alfabetizzati di Manila e Macao, che conservarono ogni dettaglio sulle loro sofferenze. Una volta che i sacerdoti europei se ne furono andati, nessuno si preoccupò di documentare il destino delle restanti decine di migliaia di umili cristiani nativi. (…)
 
Dal momento che la distruzione del cristianesimo risulta poco studiata, possiamo fare alcune osservazioni di carattere generale, sottolineando in particolare il ruolo degli stati. Sebbene le chiese possano perdere influenza politica sotto stati cristiani o in società a prevalenza cristiana, e possano secolarizzarsi, non svaniscono mai completamente come negli esempi africani e asiatici che abbiamo visto. Nella maggior parte di questi casi le chiese crollarono o scomparvero perché erano incapaci di far fronte alle pressioni esercitate su di loro da regimi ostili, soprattutto musulmani. Le religioni possono ammalarsi e indebolirsi, ma non muoiono spontaneamente: bisogna che qualcuno le uccida.
 
Nel sottolineare il ruolo del conflitto con l’islam, non dobbiamo esagerare la natura intollerante o militarista di quella religione. Alcuni esempi eclatanti di annichilimento di chiese sono stati perpetrati da altre fedi, dai buddhisti, dagli shintoisti o dagli stessi cristiani, particolarmente nel caso dei catari. E l’espansione dell’islam non fu principalmente il risultato di atti di forza e di costrizione da parte di soldati musulmani che imponevano una cruda scelta tra il Corano e la spada. Per molti secoli dopo le conquiste originarie, la grande maggioranza di coloro che accettarono l’islam si convertì volontariamente, per la consueta serie di ragioni che spiegano una simile trasformazione: alcuni cambiarono appartenenza religiosa per convenienza o vantaggio, ma la maggior parte lo fece perché credeva alla nuova religione, che affermava di fornire una rivelazione definitiva della volontà di Dio.
 
Molte persone comuni probabilmente abbracciarono l’islam per lo stesso motivo che aveva spinto i loro antenati a diventare cristiani, cioè per allinearsi al comportamento dei signori locali o di altri notabili. La conversione era facile anche perché l’islam, nei suoi primi secoli, assomigliava al cristianesimo molto più che nelle epoche successive, rendendo la transizione meno radicale. Dal X secolo in poi, molti potenziali convertiti furono attratti dall’esempio di santi e saggi musulmani, i cui poteri carismatici ricordavano quelli dei santi cristiani precedenti. Non c’è niente nelle scritture musulmane che renda la fede islamica più o meno incline ad attuare persecuzioni o conversioni forzate rispetto a qualsiasi altra grande religione.
 
L’islam crebbe anche in seguito perché i regimi musulmani incoraggiavano l’immigrazione di compagni di fede provenienti da altre terre, che rapidamente sorpassavano in numero le più antiche popolazioni autoctone. Il cambiamento religioso è comunemente discusso in termini di conversioni, ma spesso si tratta di trasferimenti di popolazione piuttosto che di cambiamento di convinzioni personali. Come avvenne nelle Americhe dopo la conquista spagnola e portoghese, la conversione di un’area a una nuova fede non significa necessariamente che la fedeltà della sua intera popolazione sia garantita. Piuttosto, i vecchi abitanti possono essere espulsi o ridotti a minoranza e diluiti nella massa della nuova popolazione di origine straniera. Anche nel contesto mediorientale gli immigrati trassero beneficio dal proprio diverso retroterra economico. Gli antropologi rilevano che i popoli dediti alla pastorizia si riproducono per esogamia con i loro vicini agricoltori sedentari, e alla fine ereditano la maggior parte delle terre. Analogamente, l’arabizzazione linguistica e culturale del Medio Oriente fu progressiva, preparando il terreno alla nuova religione dominante. A poco a poco, nel corso di tre o quattro secoli, i musulmani vennero a costituire maggioranze, di solito avvalendosi di mezzi pacifici.
 
E’ altrettanto innegabile, però, che molti cristiani e altri (ebrei e zoroastriani) furono spinti ad accettare la nuova fede per mezzo di persecuzioni o della discriminazione sistematica esercitata nel corso dei secoli. Le terre conquistate dall’islam durante la sua espansione iniziale erano, per la maggior parte, principalmente cristiane, e la maggior parte della popolazione mantenne la propria fede finché pressioni intollerabili non la spinsero ad accettare la conversione. Ma il cristianesimo non si limitò a seguire un lento declino per scivolare nell’oblio. Nei mondi cristiani dell’Africa e dell’Asia, i secoli XII e XIII videro una diffusa rinascita culturale in molti paesi e in molte lingue. Tali movimenti produssero alcuni dei massimi pensatori e scrittori del Medioevo cristiano. Solo intorno al 1300, all’improvviso, si abbatté la scure.
 
Questo accento sulla coercizione sembra contraddire la visione moderna
che attribuisce all’islam, per quasi tutto il corso della sua storia, una natura essenzialmente tollerante; un’immagine spesso associata alle visioni idealizzate dell’amichevole coesistenza che si ritiene abbia prevalso nella Spagna medievale, la convivencia. Ma la coesistenza in alcuni luoghi e tempi non preclude la persecuzione in altri. Proprio come accadeva nell’Europa cristiana nei confronti della propria popolazione ebraica, le buone relazioni sociali tra musulmani e cristiani potevano durare per decenni o addirittura per secoli.
Ciò nonostante, nel mondo islamico come in Europa, la persecuzione quando scoppiava poteva essere selvaggia e devastare la comunità di minoranza; e in entrambi i casi il XIV secolo vide un crescendo di violenza e discriminazione.
I musulmani attaccarono i cristiani accusandoli di sovversione e tradimento,
e persino di complottare spettacolari attentati terroristici alle moschee e ai monumenti pubblici più famosi. Tali teorie divennero plausibili in seguito all’introduzione della nuova super arma: la polvere da sparo.
 
In tutto il mondo, infatti, gli anni intorno al 1300 produssero una fortissima tendenza all’intolleranza religiosa ed etnica, un movimento che va spiegato in relazione a fattori globali, piuttosto che meramente locali. Gli effetti delle invasioni mongole sicuramente fecero la loro parte, terrorizzando i musulmani e altre nazioni con la prospettiva di una minaccia diretta al loro potere sociale e religioso. Anche i fattori climatici divennero critici, perché si verificò un periodo di rapido raffreddamento che provocò cattivi raccolti e una contrazione delle rotte commerciali. Un mondo spaventato e impoverito cercava capri espiatori. In tali circostanze, al minimo pretesto i governi e le folle musulmane sferravano colpi quasi fatali alle chiese cristiane indebolite. Ancora oggi gli estremisti jihadisti si ispirano agli autori musulmani che in quel periodo sostenevano la linea dura e li prendono a modello nella sfida alle nazioni infedeli.
 
Spesso, nel corso della storia, i cristiani africani e asiatici hanno dovuto affrontare la realtà delle guerre di religione. L’islam non tendeva unicamente alla persecuzione, e i regimi musulmani generalmente non si comportavano peggio degli altri. Gli stati cristiani hanno poco di che vantarsi riguardo al trattamento delle minoranze religiose. Per lunghi periodi della storia musulmana, infatti, gli atti di violenza religiosa furono rari e sporadici. Anche quando si considerano incidenti in cui forze musulmane hanno distrutto comunità cristiane, occorre chiedersi se quei gruppi agivano in nome della religione, o se l’islam era solo per caso la fede di popoli o tribù di invasori che applicavano i metodi eccezionalmente distruttivi della guerra nomade. In altre occasioni, invece, si può parlare senza esitazione di jihad a sfondo religioso. Tutte le tradizioni religiose hanno teologie militari loro proprie – indù, cristiani e buddhisti; e non si deve esonerare l’islam da questa categoria. Chi ritiene che per l’islam l’aggressione costante e la tirannia spietata sulle minoranze siano un fatto congenito deve fornire una spiegazione della natura benevola della dominazione musulmana durante i primi sei secoli; ma i sostenitori della tolleranza islamica troveranno altrettanto faticoso spiegare gli anni successivi dell’esperienza storica di quella religione.
 
Così ampie, infatti, furono le persecuzioni e le decimazioni delle minoranze, dal Medioevo fino al XX secolo, che è sorprendente notare quanto poco si siano depositate nella coscienza popolare, o quanto facilmente sia stato accettato il mito della tolleranza musulmana. Fattori di distorsione della memoria sono il totale oblio in cui sono cadute le comunità cristiane non europee, e il presupposto che le realtà dei nostri giorni siano sempre esistite come noi le conosciamo. A chi è abituato a un Medio Oriente quasi totalmente musulmano sembra incredibile che sia esistita una situazione diversa, e che tale situazione potesse svilupparsi in un altro modo.

http://www.ilfoglio.it/gli-inserti-del-foglio/2016/03/26/religione-islam-cristianesimo-oriente-occidente___1-v-139878-rubriche_c294.htm

lunedì 28 marzo 2016

distruggere la chiesa da dentro

La rivoluzione pastorale



 
A quanto è stato riferito, il 19 marzo scorso il Papa avrebbe firmato l’esortazione apostolica post-sinodale contenente i risultati degli ultimi due Sinodi dei Vescovi: la III assemblea generale straordinaria su “Le sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione” (5-19 ottobre 2014) e la XIV assemblea generale ordinaria su “La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo” (4-25 ottobre 2015). La pubblicazione è attesa per la metà di aprile.

Il 14 marzo il Card. Walter Kasper, nel corso di una conferenza tenuta a Lucca, ha annunciato: «Tra pochi giorni uscirà un documento di circa duecento pagine in cui Papa Francesco si esprimerà definitivamente sui temi della famiglia affrontati durante lo scorso sinodo e in particolare sulla partecipazione dei fedeli divorziati e risposati alla vita attiva della comunità cattolica. Questo sarà il primo passo di una riforma che farà voltare pagina alla Chiesa dopo 1700 anni». A leggere questo annuncio bomba del Cardinale tedesco, sembrerebbe di capire che l’esortazione apostolica costituirà uno “strappo” alla tradizione in materia di matrimonio e famiglia.

 
Il 19 marzo, vale a dire il giorno stesso della presunta firma del documento, il Prof. Alberto Melloni ha pubblicato su Repubblica un editoriale sull’argomento. L’esponente della “Scuola di Bologna” sembrerebbe rassicurarci: «Nessuna spaccatura. Ma una sintesi, tra rigoristi e progressisti. Francesco disorienta ancora una volta chi sperava di “incastrarlo” nel dibattito sinodale sulla famiglia e sulla comunione ai divorziati. O chi pensava di mettere in contraddizione, dentro il sinodo e nella platea dei fedeli, la supposta rigidità di una “dottrina” con una “apertura” che il Papa sintetizza nell’espressione “misericordia”. L’Esortazione post-sinodale su cui oggi Francesco apporrà la sua firma, conterrà proprio questa combinazione di elementi. E l’operazione di chi puntava su uno strappo è clamorosamente fallita». Si potrebbe eccepire: ma il Prof. Melloni che ne sa? Ma lasciamo perdere: da che mondo è mondo, c’è sempre stato qualcuno che, senza averne i titoli, risulta piú informato degli altri. Limitiamoci alle sue affermazioni, che sembrano fondarsi su una conoscenza non approssimativa del documento papale: non ci sarà alcuna rottura, ma ci troveremo di fronte a una superiore sintesi fra le diverse posizioni. Ah, beh, beh! Possiamo tirare un sospiro di sollievo: la rivoluzione è rimandata.
Se però proseguiamo nella lettura, il Professore aggiunge: «Il Pontefice, coerentemente con la riforma del linguaggio del pastorale e del dottrinale che è al cuore del concilio Vaticano II, pensa che una dottrina che non includa la misericordia sia solo una ideologia. E che una “apertura” che non abbia la pretesa di dire la verità che è la persona di Gesú Cristo, sia solo una operazione di marketing. Ha allora superato lo scoglio chiamando a responsabilità i vescovi a cui restituisce poteri effettivi, segnando, come ha detto il cardinale Kasper, una vera e propria “rivoluzione”». Sembrava che Melloni prendesse le distanze dalle anticipazioni di Kasper, e invece ecco che le conferma, arrivando al punto di parlare di una vera e propria “rivoluzione”. Sembrerebbe di capire che la rivoluzione consista nel restituire ai Vescovi “poteri effettivi”. Che significa? Che sulla questione dell’ammissione dei divorziati risposati alla comunione saranno i singoli Vescovi a decidere? È possibile; ma ciò non giustifica la frase del Cardinale: «Questo sarà il primo passo di una riforma che farà voltare pagina alla Chiesa dopo 1700 anni». Perché proprio millesettecento anni? Forse che millesettecento anni fa erano stati tolti ai Vescovi “poteri effettivi”? Non mi risulta. Se sottraiamo a 2016 millesettecento, otterremo 316, una data non particolarmente significativa. Nel 313 c’era stato l’Editto di Milano. Ma allora che voleva dire Kasper? Che finalmente è terminata l’era costantiniana? Non vedo che cosa c’entri. O non sarà forse un riferimento al 325, anno in cui si svolse il primo concilio ecumenico, quello di Nicea? Sí, ma che c’entra?
Rileggiamo con attenzione l’inizio del secondo paragrafo dell’editoriale del Prof. Melloni: «Il Pontefice, coerentemente con la riforma del linguaggio del pastorale e del dottrinale che è al cuore del concilio Vaticano II...». Ah, ecco, abbiamo forse trovato il bandolo della matassa: il Professore fa riferimento al Concilio e alla sua pretesa “riforma del linguaggio del pastorale e del dottrinale”. Il Vaticano II è stato il primo concilio pastorale della Chiesa; fino ad allora i concili erano stati o dottrinali o disciplinari. Certamente il primo di essi, il Concilio di Nicea, fu un concilio dottrinale. Ecco allora che si incomincia a capire perché dopo millesettecento anni la Chiesa volterà pagina: perché finalmente abbandonerà l’attitudine dottrinale, assunta a Nicea, per assumerne una nuova, completamente pastorale. Sí, ma questa svolta non era già avvenuta cinquanta anni fa, appunto con la celebrazione del primo concilio pastorale? No, perché quello fu solo un tentativo. Fallito. Si voleva fare un nuovo tipo di concilio, pastorale appunto, per rompere con la tradizione plurisecolare della Chiesa; Papa Giovanni, ingenuamente, senza rendersi conto della manovra, abboccò; ma provvidenza volle che non potesse portare a termine il Concilio; il testimone passò a Paolo VI, il quale, senza sconfessarne l’iniziale fisionomia pastorale, diede al Concilio una chiara impronta dottrinale, seppure un po’ sui generis
La svolta, che doveva avvenire — ma non avvenne — cinquant’anni fa, a quanto pare, si realizzerà con l’esortazione apostolica post-sinodale di Papa Francesco: al centro di essa evidentemente non saranno piú le questioni dottrinali, come era avvenuto finora, ma esclusivamente l’attenzione, tutta pastorale, per la situazione concreta in cui si trovano gli uomini del nostro tempo. Se cosí è, si può parlare di una vera e propria “rivoluzione”? Sarebbe una rivoluzione se si manomettesse la dottrina; ma, visto che la dottrina non viene toccata, che male c’è a fissare l’attenzione sui problemi concreti della vita di ogni giorno?
E invece si tratta proprio di una rivoluzione, perché non tocca questo o quel punto della dottrina (in tal caso sarebbe, semplicemente, un’eresia), ma consiste in un cambio radicale di atteggiamento, di prospettiva: una vera e propria “rivoluzione copernicana”. È vero che la dottrina non viene toccata; ma semplicemente perché non interessa piú: è inutile; peggio, dannosa. Avete sentito il Prof. Melloni: «Il Pontefice … pensa che una dottrina che non includa la misericordia sia solo una ideologia». La dottrina è tendenzialmente ideologica; la dottrina divide, provoca le guerre di religione; la dottrina è l’arma di cui si servono i dottori della legge, gli scribi e i farisei per giudicare e condannare. Meglio dunque preoccuparsi della vita concreta, incontrare le persone nella loro condizione reale, cercare ciò che unisce, collaborare con tutti, a prescindere dalle differenze che ci distinguono. Questo atteggiamento può essere definito, appunto, “pastorale”. 
Bisognerebbe che qualcuno, prima o poi, si decidesse a fare la storia di questo nuovo orientamento della Chiesa. Giustamente Mons. Brunero Gherardini, nella sua conferenza al convegno sul Vaticano II (16-18 dicembre 2010), paragona la pastorale all’Araba Fenice (“che vi sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa”), ma poi non ricostruisce l’origine e il successivo sviluppo storico del nuovo approccio pastorale della Chiesa. A me sembra, ma potrei sbagliarmi, che esso sia in qualche modo connesso con l’influsso della filosofia moderna sulla teologia cattolica, in modo particolare da parte dell’idealismo e del marxismo. Questo è particolarmente evidente nella teologia della liberazione e nella teologia politica, dove viene chiaramente dichiarato il primato dell’ortoprassi sull’ortodossia (su tale contrapposizione si vedano l’istruzione della CDF su alcuni aspetti della “teologia della liberazione” Libertatis nuntius del 6 agosto 1984, parte X, n. 3, e la conferenza del Card. Joseph Ratzinger tenuta in Messico nel maggio 1996, in particolare il quinto paragrafo); ma potrebbe aver determinato anche il nuovo orientamento pastorale. L’argomento, ovviamente, andrebbe approfondito. In ogni caso, un dato è certo: non ci troviamo di fronte a un atteggiamento ideologicamente neutro e spiritualmente innocuo; esso è portatore di una carica fortemente ideologica. La dottrina può, certo, trasformarsi in ideologia (quando, da descrizione oggettiva della realtà, quale dovrebbe essere, si risolve in teoria astratta che tenta di imporsi alla realtà); il primato dell’ortoprassi sull’ortodossia è, in sé, ideologia allo stato puro.
Non sta a me emettere giudizi, ma ho l’impressione che ci troviamo di fronte all’ultimo tentativo di assalto alla Chiesa da parte del modernismo. Finora il modernismo non era riuscito a imporsi, perché si era sempre mosso su un piano dottrinale, e su questo piano risultava relativamente facile alla Chiesa individuare le eresie e condannarle. Ecco allora che, nel corso del Novecento, il modernismo ha cambiato strategia (evolvendosi cosí in “neomodernismo”): se continuiamo ad attaccare la dottrina, non andremo da nessuna parte; la dottrina lasciamola cosí com’è; semplicemente, ignoriamola; perseguiamo i nostri obiettivi percorrendo un’altra strada, la via pastorale. Per motivi pastorali, è possibile fare tutto ciò che la dottrina proibisce. Una volta ammesso ciò che finora era proibito, a poco a poco, diventerà scontato e pacificamente accettato da tutti; la dottrina rimarrà un’anticaglia del passato, da conservare in museo, sotto una campana di vetro. E la rivoluzione è fatta. Senza spargimento di sangue.
 

domenica 27 marzo 2016

Happy Easter and especially Holy Easter

Auguri per una Buona
e soprattutto Santa Pasqua.

Best wishes for a Happy Easter and especially Holy Easter.

"Gesù era venuto a portare non la pace ma la spada,
edificò per tutta l'eternità il suo colossale realismo,
contro l'eterno sentimentalismo del secolarista"

(G.K. Chesterton - Ortodossia)


 

sabato 26 marzo 2016

battaglia tra la luce e le tenebre

 
Luci spente a San Pietro
 
 
San Pietro a luci accese e poi spente


di Riccardo Cascioli
21-03-2016

Sabato sera anche la Basilica di San Pietro è stata oscurata per un’ora, come tanti altri monumenti importanti in tutto il mondo, dalla Torre Eiffel di Parigi al Cristo Redentore di Rio de Janeiro, dal Ponte sul Bosforo all’Opera House di Sidney. Tutti insieme per l’Ora della Terra (The Earth Hour), un evento creato dall’associazione ecologista World Wildlife Fund (WWF) nel 2007 per mobilitare l’opinione pubblica contro i cambiamenti climatici. Il WWF chiede l’abbandono dei combustibili fossili, l’uso dei quali è imputato del riscaldamento globale, ma che continuano necessariamente ad essere la principale fonte energetica mondiale. E per quanto si faccia un gran parlare di energie rinnovabili, la semplice verità è che allo stato attuale esse possono essere aggiuntive, ma non certo sostitutive dei combustibili fossili. Da qui anche l’iniziativa di spegnere le luci, un segno per invitare a fare a meno di tanta energia, magari riscoprendo la bellezza del buio; così in occasione dell’Ora della Terra vengono lanciate iniziative locali per fare apprezzare il piacere di stare senza luce: ristoranti che preparano menù romantici per una cena a lume di candela sono ormai un classico.

Come stanno effettivamente le cose a proposito dei cambiamenti climatici lo abbiamo detto molte volte (e ora c’è anche un libro della Bussola, Il clima che non t'aspetti, che spiega quanto siano deboli le basi scientifiche di questa teoria e quanto forti invece gli interessi ideologici e politici), ma l’iniziativa del WWF è criticata anche all’interno del mondo dei “duri e puri” del cambiamento climatico: le accuse vanno dall’inutilità dell’evento, buono solo a mettere in pace le coscienze delle persone, alla pericolosità di trasmettere un messaggio che sottovaluta l’importanza della disponibilità di energia (clicca qui). Peraltro a spezzare il quadro idilliaco di città senza luce, ci ha pensato una piccola città svedese, Östersund, che quest’anno ha deciso di non partecipare all’evento. Motivo? Ultimamente si sono registrate in città troppe violenze sessuali: l’Ora della Terra è importante, dicono i responsabili della municipalità, ma ci sono problemi di sicurezza che esigono strade illuminate (clicca qui).  

Ma torniamo a San Pietro: la sua partecipazione non è una novità, è da molti anni ormai che la principale basilica della cristianità spegne le luci per un’ora, unendosi al resto del mondo. Non sappiamo da chi sia dipesa la decisione originale di aderire all’iniziativa e da chi dipenda il rinnovarla ogni anno, però non possiamo non guardare con una certa inquietudine a questo buio su San Pietro. A maggior ragione per il fatto che l’iniziativa del WWF è anzitutto simbolica. E ci sono infatti almeno due aspetti simbolici che dovrebbero risvegliare qualcuno in Vaticano.

Il primo è il cedimento della Chiesa alla cultura dominante. La Chiesa si è accodata tristemente a un’iniziativa propagandistica figlia di un neo-paganesimo in pieno sviluppo (il culto della Madre Terra), che sogna il ritorno a mondi ideali mai esistiti, che suggerisce ricette e politiche che porterebbero il mondo alla povertà generalizzata. È il segno di una Chiesa in cui la fede ha smesso di diventare cultura e tende quindi a diventare subalterna a ogni cultura che sia di moda. È successo con il marxismo, che ancora affascina tante fette di clero; succede oggi con l’ecologismo, ed è ancora più pericoloso perché i suoi concetti sembrano così in sintonia con la dottrina della Creazione. Sembrano: in realtà nascono da una concezione dell’uomo radicalmente opposta a quella cattolica. 

Il secondo aspetto, dal punto di vista simbolico è ancora più inquietante.  La battaglia tra la luce e le tenebre è da sempre un modo per raccontare lo scontro tra Cristo e il mondo. Il prologo del vangelo di Giovanni, ma anche tutta la liturgia, descrive Cristo come la luce che viene nel mondo. La luce è un tratto caratteristico anche delle feste cristiane, perché Cristo è la luce. In questi tempi di grande confusione non può dunque non creare una certa inquietudine la decisione di far calare le tenebre sulla basilica che rappresenta il centro della cristianità. Certo si tratta di un’ora, in un anno, una cosa da nulla si potrebbe dire. Ma i simboli sono importanti, e San Pietro che sceglie volontariamente le tenebre, che alla missione di testimoniare la luce preferisce unirsi al coro di chi quella luce vorrebbe spegnere, non può che lasciare perplessi, per usare un eufemismo. Per fortuna a rincuorare c’è ancora il vangelo di Giovanni che comunque promette che, per quanto le tenebre non accettino la luce, non riusciranno a offuscarla.

venerdì 25 marzo 2016

l'Uomo della Sindone

Cos'era l'«orribile flagello» con cui furono torturati Gesù e l'Uomo della Sindone
 
 
L’Uomo della Sindone è Gesù? Per molti studiosi, l’impressionante coincidenza tra i segni di tortura che hanno lasciato un’impronta sul telo e il racconto della Passione che si trova nei Vangeli è sufficiente a dimostrare tale identità. L’Uomo della Sindone, come Gesù, fu incoronato di spine e il suo costato fu trafitto da una lancia. Come il Salvatore, l’Uomo della Sindone fu flagellato abbondantemente – come dimostrato dalla serie di numerosi piccoli segni di forma irregolare impressi sul Lenzuolo, traccia inequivocabile delle ferite provocate dai colpi di sferza -, come se quella fosse l’unica pena cui era stato condannato, mentre in seguito fu anche crocifisso. Ciò concorda pienamente con il Vangelo di Giovanni, che parla delle due condanne inflitte a Gesù da Pilato.
L’ipotesi di una possibile identificazione tra i supplizi subiti dall’Uomo della Sindone e quelli inferti a Gesù comporta la necessità di verificare se effettivamente i segni presenti sul telo siano compatibili con le forme di tortura che erano applicate nel I secolo nel mondo romano.
Per quanto riguarda la flagellazione, in ambito romano essa era codificata secondo un rigido protocollo legislativo, e prevedeva l’utilizzo di un’ampia gamma di strumenti, di cui il più terribile in assoluto - utilizzato per punire i reati più gravi - era l’horribilis flagrum, un flagello dotato di corregge terminanti con estremità contundenti, in grado di battere e lacerare le carni. Secondo gli studiosi, sarebbe stato usato proprio questo strumento per flagellare l’Uomo della Sindone; molti sindonologi ritengono inoltre che questo flagrum fosse del tipo taxillatum, ossia dotato ditaxilli (piccoli ossicini di animale, altrimenti noti come astragali).
È opportuno precisare, però, che il termine taxillatum non è mai usato nelle fonti storiche: è stato infatti coniato solo nel XVI secolo dal filologo e umanista Giusto Lipsio per rendere la parola greca “astragalato”. Meglio quindi, per riferirsi a questo strumento, parlare di flagrum “dotato di astragali”. È inoltre opportuno considerare che questo tipo di flagrum non era usato dai soldati Romani a scopi punitivi, ma veniva utilizzato dai sacerdoti della dea orientale Cibele durante rituali di autoflagellazione. L’associazione tra Gesù, l’Uomo della Sindone e il flagrum “astragalato” è quindi molto improbabile.
Tuttavia, diverse fonti databili all’epoca romana e ai primissimi secoli dell’era cristiana ci parlano di flagra dotati di estremità contundenti, quindi compatibili con le tracce sindoniche: il Codice Teodosiano, così come vari autori - tra cui Zosimo e Prudenzio - descrivono le plumbatae, palline di metallo che erano poste all’estremità degli orribili flagelli per imprimere ancor più orribili punizioni.
Numerosi dizionari di archeologia romana e cristiana, datati tra la fine dell’800 e l’inizio del ’900, ci informano che esemplari di questo tipo di flagrum sarebbero stati rinvenuti a Ercolano e nelle catacombe di Roma, e sarebbero quindi databili a periodi vicinissimi a quello in cui visse Gesù. Ad oggi, non abbiamo notizie in merito ai flagra di Ercolano: essi sono stati probabilmente dispersi in qualche collezione privata, o potrebbero essere stati smembrati in più parti.
Discorso diverso vale per i flagra delle catacombe, di cui quattro esemplari sarebbero oggi conservati presso i Musei Vaticani, dove essi sono catalogati come flagelli bronzei romani (invv. 60564-60567). La comprovata esistenza di questi flagra dalla forma compatibile con le tracce sindoniche sembrerebbe togliere ogni dubbio circa la possibilità che l’Uomo della Sindone sia stato flagellato con strumenti utilizzati in ambito romano nell’epoca in cui visse Gesù.
È però necessario precisare che i quattro flagelli erano esposti insieme ad altri reperti, a loro volta classificati come strumenti di tortura, ma che in realtà avevano ben altri usi: uno di questi, inventariato come “graffione”, è stato in seguito identificato con un porta lucerne etrusco. Da qui il dubbio che anche i flagelli siano in realtà qualcosa di diverso, non legato all’ambito della tortura; tale eventualità è avvalorata dalla somiglianza tra le terminazioni di questi reperti con quelle di alcuni oggetti rinvenuti nella necropoli villanoviana di Verucchio (RN), classificati come pendenti ornamentali o stimoli per cavalli. Il problema circa l’esatta identificazione dei quattro “flagelli” dovrà quindi essere oggetto di ulteriori approfondimenti.
Ciò non toglie che l’uso di flagelli dotati di corregge terminanti con oggetti contundenti, quindi compatibili con i segni visibili sull’impronta sindonica, fosse sicuramente diffuso in un’epoca prossima al periodo in cui visse Gesù: questo dato è attestato da fonti storiche e letterarie, come abbiamo visto.
Inoltre, il fatto che in un’epoca non lontana dal I secolo si facesse uso di flagelli terminanti con estremità contundenti è dimostrato anche da altre testimonianze: all’interno di un numero del Bollettino dell’Instituto di Corrispondenza Archeologica datato al 1859, l’etruscologo Gian Carlo Conestabile della Staffa riporta la notizia del ritrovamento, nella zona di Volterra, di un oggetto identificato con un flagello di bronzo, formato da «sei lunghe catenelle che vanno a riunirsi tutte in un’asta serpeggiante […]; tre di quelle catenelle sono doppie, e tre semplici, formate da anelli e fornite in punta di una pallina».
Gli Etruschi, quindi, usavano flagelli terminanti con estremità contundenti; dagli Etruschi, i Romani avevano mutuato non solo la pratica della flagellazione, ma anche l’uso di alcuni strumenti per flagellare: è ipotizzabile, quindi, che i Romani avessero “ereditato” anche questo oggetto.
Sebbene, quindi, le testimonianze archeologiche ad oggi in nostro possesso non siano totalmente sicure, ciò non toglie che esista compatibilità tra gli strumenti in uso per la flagellazione nei primissimi secoli dell’era cristiana e i segni visibili sull’impronta lasciata dall’Uomo della Sindone.
Ovviamente questo dato, da solo, non rappresenta la prova definitiva del fatto che Gesù e l’Uomo della Sindone siano la stessa persona; tuttavia, l’analisi delle fonti porta ad avvalorare la possibilità che l’Uomo della Sindone abbia subito una tortura tipica dei luoghi e dei tempi in cui Gesù visse, operò e accettò di caricare sulle proprie spalle la croce più grande per la salvezza dell’umanità.