venerdì 30 settembre 2011

Nuovo libro di Agnoli:

"Novecento. Il secolo senza croce"

 
L’ultima fatica del professor Francesco Agnoli è un agile ma densissimo saggio intitolato “Novecento. Il secolo senza croce” (Sugarco Edizioni, Milano 2011, pp. 158). Come precisa lo stesso Autore fin dall’introduzione, la prospettiva con cui il libro guarda al secolo da poco concluso appare decisamente inedita e controcorrente. Scrive infatti Agnoli: “Qualcuno ha definito il Novecento il «secolo breve», forse con la speranza segreta di archiviarne al più presto il doloroso ricordo. Ma c’è una definizione più appropriata per comprendere a fondo cosa è accaduto, da dove provenga davvero una esplosione di male che non ha precedenti, che ha annichilito interi popoli. Potremmo dire allora che il Novecento è stato il «secolo senza croce»: l’epoca in cui si è deciso di creare il «regno dell’uomo», di eliminare definitivamente Dio dalla storia del mondo, dai governi dei potenti, dalla vita degli individui” (ibidem, pp. 7-8).

Ma l’uomo non è in grado di vivere senza un perché: ogni essere umano ha insito in sé un anelito verso l’infinito, l’oltre. E se questo “oltre” non viene riconosciuto nella figura di Dio assumerà altre forme, più o meno ragionevoli o dannose. Proprio a questo proposito, già all’inizio del 1918, Vasilij Rozanov affermava: “Senza dubbio la ragione profonda di quanto sta accadendo risiede nel fatto che nell’umanità europea (tutta intera, quindi anche russa) si sono aperti dei vuoti abissali lasciati dal cristianesimo del tempo passato; in questo vuoto tutto sprofonda: troni, classi, ceti, lavoro, ricchezza. Tutti sono travolti. Tutto e tutti periranno. Ma tutto questo sprofonda nel vuoto di un’anima che è stata privata del contenuto antico”.

Agnoli, nel suo saggio, esemplifica chiaramente come il vuoto lasciato dalla perdita della religione abbia, all’inizio del Novecento, aperto le porte al secolo più violento e sanguinario della storia dell’umanità, caratterizzato dall’affermazione di diverse forme di totalitarismi: quello fascista, quello comunista e quello nazional-socialista.
Cercare di porre queste derive assolutiste secondo una scala di danno è impossibile, visti i tanti fattori che sarebbe doveroso tenere in debita considerazione. Quel che è certo e insindacabile, comunque, sono i dieci milioni di morti della Grande Guerra, i milioni di cristiani, ebrei, slavi ecc. uccisi nei Lager nazisti, i cento milioni di morti del comunismo – questo secondo le stime più prudenti, anche se a leggere un qualsiasi manuale di storia in uso nelle scuole italiane questa cifra viene costantemente censurata –, i milioni di feriti, vedove, orfani provocati dalle due guerre mondiali, l’altissimo tasso di suicidi ancora oggi presente negli ex paesi dell’ateismo comunista… Per non dimenticare, evidenzia con particolare lucidità il professor Agnoli, il costante attacco mosso dalle ideologie atee novecentesche alla religione, alla famiglia, alla vita (aborto, eutanasia, controllo programmatico delle nascite etc.), alla dignità umana, alla morale, alla libertà di pensare in modo diverso dal regime...

Le moderne idolatrie, scriveva all’inizio del Novecento don Luigi Sturzo, si chiamano Stato, Nazione, Razza, Partito, e chiedono molte più vittime delle idolatrie del passato” (ibidem, p. 89). E Mussolini, Stalin, Hitler, Mao, Castro, Saddam, etc. sono solo alcuni dei Cesari degli ultimi cent’anni che hanno innalzato la propria figura fino a divinizzarla, persuasi dall’idea che all’uomo nulla sia proibito.
Principio della superbia umana è allontanarsi dal Signore, tenere il proprio cuore lontano da chi l’ha creato. Principio della superbia è infatti il peccato; chi vi si abbandona diffonde attorno a sé l’abominio. Per questo il Signore rende incredibili i suoi castighi e lo flagella sino a finirlo” (Siracide 10, 12-13). Tutto era già scritto, verrebbe quasi da dire.

E non si pensi che le nefandezze novecentesche siano eventi oramai superati, afferma Agnoli; in molte realtà tutt’oggi comuniste (Cina, Cuba…) la libertà di praticare la fede, di creare una famiglia, di scegliere un lavoro sono ancora lontanissime utopie.
Quando l’uomo è arbitro sull’uomo, a vincere è sempre il più forte, non c’è scampo. E qui, ancora una volta, non possono non venire in mente i due ben noti precetti evangelici “Ogni autorità viene da Dio” e “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”, che concorrono a costituire – sostiene l’Autore – il fondamento della dottrina politica cattolica.

In conclusione, l’impressione che si ha una volta terminato il lavoro di Agnoli, è che si tratti di un libro molto coraggioso, che svela senza censure di sorta – come fanno purtroppo pochi altri testi sul tema, nonostante l’innumerevole inchiostro che si è sprecato per descrivere il Novecento – la realtà dei fatti: un susseguirsi di eventi drammatici, crudi, terribili, di cui però si è spesso voluta ignorare l’origine più profonda: la pretesa ateistica ed anticristica.
Non mancano però nel libro, le pagine intrise di speranza, di coraggio, di eroismo, valori incarnati dalle figure di uomini grandi, di eroi, di santi (da Solgenitsyn ad Armando Valladares, da Fritz Gerlich ad Oscar Elias Biscet ecc.), che, in mezzo alla disumanità dei loro tempi ,hanno saputo reagire con vigore, dedizione e carità, dimostrando che è sempre possibile, in ogni epoca e sotto ogni mostruosa dittatura, vivere una vita grande e pienamente umana.

di Giulia Tanel
 30 SETTEMBRE

SAN GIROLAMO 


Pellegrinaggio a Betlemme 2007
tomba di san Girolamo

Hai dimenticato una cosa!
Ben prima di diventare un sapiente e stimato esegeta, brillante consigliere di nobildonne dell'alta società romana, Girolamo aveva tentato per un periodo di vivere da eremita in una grotta del deserto di Giuda. Con la presunzione tipica dell'età, il giovane Girolamo si era dedicato con ardore alle molteplici forme di ascesi allora in uso tra i monaci. Ma i risultati si facevano attendere: il tempo gli avrebbe fatto presto capire che la sua vera vocazione era altrove nella Chiesa e che il suo soggiorno tra i monaci della Palestina ne costituiva solo il preludio. Tuttavia Girolamo doveva ancora imparare molte cose e intanto, da giovane novizio, si trovava immerso nella disperazione: nonostante tutti i suoi sforzi generosi, non riceveva alcuna risposta del cielo. Andava alla deriva, senza timone, in mezzo a tempeste interiori, al punto che le vecchie tentazioni, già cosi familiari, non tardarono a rialzare la cresta. Girolamo era scoraggiato: cosa aveva fatto di male? Do v'era la causa di questo cortocircuito tra Dio e lui? Come ristabilire il contatto con la grazia?
Mentre Girolamo si arrovellava il cervello, notò all'improvviso un crocifisso che era comparso tra i rami secchi di un albero. Girolamo si gettò a terra e si percosse il petto con gesto solenne e vigoroso. E in questa posizione umile e supplicante che lo raffigura la maggior parte dei pittori. Subito Gesù rompe il silenzio e si rivolge a Girolamo dall'alto della croce: «Girolamo - gli dice - cos'hai da darmi? Cosa riceverò da te?».
La semplice voce di Gesù bastava già a ridare coraggio a Girolamo che si mette subito a pensare a qualche regalo da poter offrire all'amico crocifisso. «La solitudine nella quale mi dibatto, Signore», gli risponde. «Ottimo, Girolamo - replica Gesù - ti ringrazio. Hai fatto davvero del tuo meglio. Ma non hai qualcosa di più da offrirmi?».


Girolamo non esita un attimo. Certo che aveva un sacco di cose da offrire a Gesù: «Naturalmente, Signore: i miei digiuni, la fame, la sete. Mangio solo al tramonto del sole!». Di nuovo Gesù risponde: «Ottimo Girolamo, ti ringrazio. Lo so, hai fatto del tuo meglio. Ma hai ancora qualcos'altro da darmi?». Girolamo ripensa a cosa potrebbe ancora offrire a Gesù. Ecco allora che ricorda le veglie, la lunga recita dei salmi, lo studio assiduo, giorno e notte, della Bibbia, il celibato nel quale si impegnava con più o meno successo, la mancanza di comodità, la povertà, gli ospiti più imprevisti che si sforzava di accogliere senza brontolare e con una faccia non troppo burbera, infine il caldo di giorno e il freddo di notte. Ad ogni offerta, Gesù si complimenta e lo ringrazia. Lo sapeva da tempo: Girolamo ci tiene così tanto a fare del suo meglio! Ma ad ogni offerta, Gesù, con un sorriso astuto sulle labbra, lo incalza ancora e gli chiede: «Girolamo, hai qualcos'altro da darmi?».
Alla fine, dopo che Girolamo ha enumerato tutte le opere buone che ricorda e siccome Gesù gli pone per l'ennesima volta la stessa domanda, un po' scoraggiato e non sapendo più a che santo votarsi, finisce per balbettare: «Signore, ti ho già dato tutto, non mi resta davvero più niente!». Allora un grande silenzio piomba nella grotta e fino alle estremità del deserto di Giuda e Gesù replica un'ultima volta: «Sì, Girolamo, hai dimenticato una cosa: dammi anche i tuoi peccati, affinchè possa perdonarteli». A. Louf, Sotto la guida dello Spirito, pp. 154-155.

giovedì 29 settembre 2011

Convegno sulla Sacra Liturgia a Silvi (Te)


La Parrocchia del SS.mo Salvatore di Silvi (Te)
e
L'organizzazione Ordo Christianus Miles
sabato 22 ottobre 2011
ore 16:00

I convegno d’Abruzzo
“LA SACRA LITURGIA PER IL RINNOVAMENTO DELLA VITA CRISTIANA”
a Silvi (Teramo)
presso l'Hotel Hermitage

Domenica 23 ottobre 2011 - ore 10:00
SOLENNE PONTIFICALE AL TRONO
nella forma Extraordinaria del Rito Romano
celebrato da Sua Eminenza, il Sig. Cardinale Dario Castrillon Hoyos
chiesa Madre di Silvi paese SS.mo Salvatore.
*
per vedere la locandina, e scoprire i relatori e gli argomenti dei loro interventi,
si vada qui

IL CARDINAL BAGNASCO INAUGURA IL CICLO PITTORICO DELLA CATTEDRALE DI BOJANO


Da sinistra: don Rocco Di Filippo, Mons. Spina, Rodolfo Papa, Card. Bagnasco, Mons. Bregantini
di Francesco Colafemmina

L'arte sacra, quella vera, nonostante i sabotaggi e le pretese di una certa ideologia estetica dominante, compie in silenzio grandi passi avanti. In pochi hanno parlato di quanto è accaduto a Bojano il 25 settembre scorso, eppure oggi ben altre parole del Cardinal Bagnasco vengono riprese qua e là da siti cattolici e non. Domenica scorsa il Cardinale ha inaugurato infatti il ciclo pittorico della cattedrale di Bojano, realizzato dal maestro Rodolfo Papa. Un'opera di altissimo valore tecnico e spirituale terminata dopo 12 lunghi anni, perché la vera arte ha bisogno di tempo, di amore e soprattutto di fiducia da parte dei committenti. Così è stato per Papa che ha avuto il supporto prima di Monsignor Angelo Spina, divenuto intanto vescovo di Sulmona (dove ha invitato il maestro a realizzare altre magnifiche opere all'interno della cattedrale)  e poi di Monsignor Giancarlo Bregantini.


La cattedrale di Bojano (CB)

Il Cardinal Bagnasco nel suo splendido discorso ha sottolineato un punto fondamentale per chi voglia accostarsi all'arte sacra autentica e attraverso essa trovare ispirazione per la propria fede: l'umiltà e la povertà di spirito sono le chiavi di accesso alla salvezza. Leggiamo insieme in particolare questo passaggio: 
Anche laddove, nella historia salutis, si manifesta la potenza e la gloria tutto accade nell'obbedienza a quel Mistero sempre presente che conduce la creazione e il tempo verso il punto omega di Cristo, quando Dio sarà tutto in tutti. Sì, per vivere dentro questa storia di salvezza qui mirabilmente raffigurata dal Maestro Rodolfo Papa, è necessario essere dei poveri che, consapevoli della propria povertà stendono le mani verso l'alto dove incontriamo la mano salvatrice di Cristo. E' sufficiente aprire le labbra all'invocazione e alla supplica per udire la voce dal cielo che ripete all'uomo pellegrino e spesso smarrito: "non temere, io sono con te!". Oggi, questa nobile cattedrale di Boiano, con quest'opera veramente insigne si completa: qui ogni credente, ogni visitatore attento, troverà questo motivo di fondo che, come un cantus firmus, ispira colori e forme, figure antiche e allusioni odierne, e si propone non solo come motivo ispiratore ma come messaggio e invito: la fede cristiana – possiamo dire – è l'intreccio di due "sì" quello di Dio all'uomo e quello dell'uomo a Dio. Un intreccio che genera una storia di salvezza e quindi sempre una storia d'amore.

Il Giudizio Universale
Peraltro, a mio avviso, il richiamo del presidente della C.E.I. è anche una profonda meditazione sulla natura del vero artista. Soltanto attraverso questa magnifica apertura agli umili e ai poveri di spirito l'artista avvalora la sua opera. Un'opera che non può dunque essere plasmata col linguaggio esclusivo degli intellettuali sterili e narcisi, che non può trasmettere la mera "visione del mondo" dell'individuo in contrapposizione con la natura e la storia, arroccato sulla sua assoluta novità e invaghito della sua stessa capacità demiurgica (ricrea la natura e le forme e in questo suo ricreare inorgoglisce e perde di vista il Creatore). Al contrario l'esempio di Rodolfo è mirabile proprio per l'umiltà che parla a tutti e la sapienza che non è intellettualismo o ermetismo, bensì capacità di fondere, nelle forme e nei colori, teologia, storia dell'arte, caratteri, virtù e valori condivisi da ogni cattolico. Insomma, un'arte comprensibile e saggia perché parla la lingua della fede e non meramente quella del mondo.


La barca della Chiesa - Cattedrale di Sulmona
Significativi poi i commenti, a margine dell'evento, di Monsignor Spina che ha ricordato come il ciclo pittorico di Papa costituisca uno strumento catechetico e pastorale:
"Bisogna comprendere l’importanza nelle chiese delle immagini, che un tempo erano la Bibbia dei poveri. Ad esse dà valenza proprio il fatto che Dio si sia incarnato facendosi uomo. Oggi c’è una povertà legata alla mancanza di un linguaggio evangelico/biblico. Pertanto diventa determinante riportare le scene del Vangelo in pittura, ovviamente con l’arte contemporanea. Concretamente prima di iniziare un nuovo dipinto c’era un “annuncio” con cui si spiegava alla comunità l’opera. Poi essa sarebbe stata benedetta, vivendo anche un momento celebrativo. Il tutto per avvicinarsi sempre più al Mistero di Dio. I dipinti non servivano a riempire degli spazi vuoti, bensì a dare spazio ad una particolare funzione dell’arte: la Fede ispira l’arte, l’arte esprime la Fede... attraverso colori, forme e simboli. Nell’epoca dell’immagine, le immagini pittoriche ritornano con prepotenza ad essere strumento di evangelizzazione e di catechesi."

Volta della Nvata Centrale
Monsignor Bregantini ha invece sottolineato come il ciclo di Papa si iscriva nella tradizione artistica molisana:
"In Molise c’è una tradizione di profonda sensibilità artistica. Molte sono le chiese che contengono importanti e bellissime opere. Poco conosciute e non adeguatamente valorizzate, ma di grande pregio artistico. Non possiamo trascurare che questa è la terra di Amedeo Trivisonno. La sua maestria ha mantenuto vivo il gusto verso le chiese affrescate. C’è quindi una continuità: arte antica-Trivisonno-Rodolfo Papa che è in continuità con esse nella contemporaneità."
Si coglie così un altro elemento a volte sottovalutato o del tutto ignorato dalla maggior parte dei committenti ecclesiastici: le opere d'arte sacra devono manifestare un legame col territorio, con la storia dell'arte che la fede ha fatto fiorire in ogni singolo luogo. Troppo spesso, infatti, vediamo nelle nostre chiese opere che non solo non hanno alcun legame stilistico con le chiese nelle quali vengono realizzate, ma che non possono neppure inserirsi in una tradizione artistica pre-esistente. Si tagliano i legami, mentre la fede vive proprio di legami!

Amedeo Trivisonno (1904-1995) - Ultima Cena - Cattedrale SS. Trinità - Campobasso
Auguri dunque a Rodolfo Papa, e un grazie al Cardinal Bagnasco, ai vescovi che hanno commissionato e seguito la realizzazione del ciclo, e al parroco della Cattedrale, don Rocco De Filippo, che ho avuto peraltro il piacere di conoscere qualche anno fa e di cui ho fortemente apprezzato l'amore per questa splendida opera d'arte e di fede.

Per ammirare altre foto del ciclo pittorico visita l'album di Rodolfo Papa.
DE MARIA NUMQUAM SATIS



VESPRI MARIANI ALLA WALLFAHRTSKAPELLE DI ETZELSBACH

OMELIA DEL SANTO PADRE

Cari fratelli e sorelle!

Ora si realizza il mio desiderio di visitare l’Eichsfeld e di ringraziare, assieme con voi, la Vergine Maria qui a Etzelsbach.
“Qui, nell’amata vallata tranquilla” - come dice un canto di pellegrini - e “sotto i vecchi tigli”, Maria ci dona sicurezza e nuova forza. In due dittature empie, che hanno mirato a togliere agli uomini la loro fede tradizionale, la gente dell’Eichsfeld era sicura di trovare qui, nel santuario di Etzelsbach, una porta aperta e un luogo di pace interiore.

L’amicizia particolare con Maria, amicizia che è cresciuta da tutto questo, la vogliamo continuare, anche con la celebrazione dei Vespri mariani di oggi.

Quando i cristiani in tutti i tempi e in tutti i luoghi si rivolgono a Maria, si fanno guidare dalla certezza spontanea che Gesù non può rifiutare le richieste che gli presenta sua Madre; e si poggiano sulla fiducia incrollabile che Maria è al tempo stesso anche Madre nostra – una Madre che ha sperimentato la sofferenza più grande di tutte, che percepisce insieme con noi tutte le nostre difficoltà e pensa in modo materno al loro superamento.

Quante persone nel corso dei secoli sono andate in pellegrinaggio a Maria per trovare davanti all’immagine dell’Addolorata – come qui ad Etzelsbach – consolazione e conforto!
Guardiamo la sua immagine! Una donna di mezza età con le palpebre appesantite dal molto pianto e al contempo lo sguardo trasognato rivolto lontano, come se stesse meditando nel suo cuore su tutto ciò che era accaduto. Sulle sue ginocchia riposa il corpo esanime del Figlio; Ella lo stringe delicatamente e con amore, come un dono prezioso.

Sul corpo denudato del Figlio vediamo i segni della crocifissione. Il braccio sinistro del Crocifisso cade verticalmente verso il basso. Forse questa scultura della Pietà – come spesso si usava – era originariamente collocata sopra un altare. Così il Crocifisso rimanda con il suo braccio disteso a quanto accade sull’altare dove il santo sacrificio da Lui compiuto è reso presente nell’Eucaristia.

Una particolarità dell’immagine miracolosa di Etzelsbach è la posizione del Crocifisso.
Nella maggior parte delle rappresentazioni della Pietà, Gesù morto giace con il capo verso sinistra. Così l’osservatore può vedere la ferita del costato del Crocifisso. Qui a Etzelsbach, invece, la ferita del costato è nascosta, perché la salma, appunto, è orientata verso l’altro lato.

A me sembra che in tale rappresentazione si nasconda un profondo significato, che si svela solo ad un’attenta contemplazione: nell’immagine miracolosa di Etzelsbach i cuori di Gesù e di sua Madre sono rivolti l’uno verso l’altro; s’avvicinano l’uno all’altro. Si scambiano a vicenda il loro amore.

Sappiamo che il cuore è anche l’organo della sensibilità più delicata per l’altro, come pure l’organo dell’intima compassione. Nel cuore di Maria c’è lo spazio per l’amore che il suo Figlio divino vuole donare al mondo.

La devozione mariana si concentra nella contemplazione del rapporto tra la Madre e il suo Figlio divino. I fedeli hanno trovato sempre nuovi aspetti e titoli che possono meglio dischiudere a noi questo mistero, per esempio l’immagine del Cuore immacolato di Maria come simbolo dell’unità profonda e senza riserve con Cristo nell’amore. Non è l’autorealizzazione a compiere il vero sviluppo della persona, cosa che oggi viene proposta come modello della vita moderna, ma che può facilmente mutarsi in una forma di egoismo raffinato.
È piuttosto l’atteggiamento del dono di sé, che si orienta verso il cuore di Maria e con ciò anche verso il cuore del Redentore.

“Noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio, per coloro che sono stati chiamati secondo il suo disegno” (Rm 8,28): è quanto abbiamo appena sentito nella lettura.
In Maria, Dio ha fatto concorrere tutto al bene e non cessa di far sì che, attraverso Maria, il bene si diffonda ulteriormente nel mondo. Dalla Croce, dal trono della grazia e della redenzione, Gesù ha dato agli uomini come Madre la propria Madre Maria. Nel momento del suo sacrificio per l’umanità, Egli rende Maria in certo modo mediatrice del flusso di grazia che deriva dalla Croce.

Sotto la Croce, Maria diventa compagna e protettrice degli uomini nel loro cammino di vita.
“Con la sua materna carità si prende cura dei fratelli del Figlio suo ancora peregrinanti e posti in mezzo a pericoli e affanni, fino a che non siano condotti nella patria beata” (Lumen gentium, 62). Sì, nella vita noi attraversiamo alterne vicende, ma Maria intercede per noi presso il Figlio suo e ci comunica la forza dell’amore divino.

La nostra fiducia nell’intercessione efficace della Madre di Dio e la nostra gratitudine per l’aiuto sempre nuovamente sperimentato portano in sé in qualche modo l’impulso a spingere la riflessione al di là delle necessità del momento.

Che cosa vuol dirci veramente Maria, quando ci salva dal pericolo? Vuole aiutarci a comprendere l’ampiezza e la profondità della nostra vocazione cristiana. Con delicatezza materna vuole farci capire che tutta la nostra vita deve essere una risposta all’amore ricco di misericordia del nostro Dio.

Come se dicesse a noi: comprendi che Dio, il quale è la fonte di ogni bene e non vuole nient’altro che la tua vera felicità, ha il diritto di esigere da te una vita che si abbandoni senza riserve e con gioia alla sua volontà e si adoperi perché anche gli altri facciano altrettanto. “Dove c’è Dio, là c’è futuro”. In effetti: dove lasciamo che l’amore di Dio agisca totalmente sulla nostra vita, là è aperto il cielo. Là è possibile plasmare il presente così che corrisponda sempre di più alla Buona Novella del nostro Signore Gesù Cristo. Là le piccole cose della vita quotidiana hanno il loro senso e là i grandi problemi trovano la loro soluzione.
Amen.

lunedì 26 settembre 2011

27 SETTEMBRE
San Vincenzo de’ Paoli



Biografia
Gli anni giovanili
Vincenzo Depaul, in italiano De’ Paoli, nacque il 24 aprile del 1581 a Pouy in Guascogna (oggi Saint-Vincent-de-Paul); benché dotato di acuta intelligenza, fino ai 15 anni non fece altro che lavorare nei campi e badare ai porci, per aiutare la modestissima famiglia contadina.
Nel 1595 lasciò Pouy per andare a studiare nel collegio francescano di Dax, sostenuto finanziariamente da un avvocato della regione, che colpito dal suo acume, convinse i genitori a lasciarlo studiare; che allora equivaleva avviarsi alla carriera ecclesiastica.
Dopo un breve tempo in collegio, visto l’ottimo risultato negli studi, il suo mecenate, giudice e avvocato de Comet senior, lo accolse in casa sua affidandogli l’educazione dei figli.
Vincenzo ricevette la tonsura e gli Ordini minori il 20 dicembre 1596, poi con l’aiuto del suo patrono, poté iscriversi all’Università di Tolosa per i corsi di teologia; il 23 settembre 1600 a soli 19 anni, riuscì a farsi ordinare sacerdote dall’anziano vescovo di Périgueux (in Francia non erano ancora attive le disposizioni in materia del Concilio di Trento), poi continuò gli studi di teologia a Tolosa, laureandosi nell’ottobre 1604.
Sperò inutilmente di ottenere una rendita come parroco, nel frattempo perse il padre e la famiglia finì ancora di più in ristrettezze economiche; per aiutarla Vincent aprì una scuola privata senza grande successo, anzi si ritrovò carico di debiti.Fu di questo periodo la strabiliante e controversa avventura che gli capitò; verso la fine di luglio 1605, mentre viaggiava per mare da Marsiglia a Narbona, la nave fu attaccata da pirati turchi ed i passeggeri, compreso Vincenzo de’ Paoli, furono fatti prigionieri e venduti a Tunisi come schiavi.Vincenzo fu venduto successivamente a tre diversi padroni, dei quali l’ultimo, era un frate rinnegato che per amore del denaro si era fatto musulmano.
La schiavitù durò due anni, finché riacquistò la libertà fuggendo su una barca insieme al suo ultimo padrone da lui convertito; attraversando avventurosamente il Mediterraneo, giunsero il 28 giugno 1607 ad Aigues-Mortes in Provenza.
Ad Avignone il rinnegato si riconciliò con la Chiesa, nelle mani del vicedelegato pontificio Pietro Montorio, il quale ritornando a Roma, condusse con sé i due uomini.
Vincenzo rimase a Roma per un intero anno, poi ritornò a Parigi a cercare una sistemazione; certamente negli anni giovanili Vincenzo de’ Paoli non fu uno stinco di santo, tanto che alcuni studiosi affermano, che i due anni di schiavitù da lui narrati, in realtà servirono a nascondere una sua fuga dai debitori, per la sua fallimentare conduzione della scuola e pensionato privati.
Riuscì a farsi assumere tra i cappellani di corte, ma con uno stipendio di fame
, che a stento gli permetteva di sopravvivere, senza poter aiutare la sua mamma rimasta vedova.

Parroco e precettore
Finalmente nel 1612 fu nominato parroco di Clichy, alla periferia di Parigi; in questo periodo della sua vita, avvenne l’incontro decisivo con Pierre de Bérulle, che accogliendolo nel suo Oratorio, lo formò a una profonda spiritualità; nel contempo, colpito dalla vita di preghiera di alcuni parrocchiani, padre Vincenzo ormai di 31 anni, lasciò da parte le preoccupazioni materiali e di carriera e prese ad insegnare il catechismo, visitare gli infermi ed aiutare i poveri.
Lo stesso de Brulle, gli consigliò di accettare l’incarico di precettore del primogenito di Filippo Emanuele Gondi,
governatore generale delle galere.
Nei quattro anni di permanenza nel castello dei signori Gondi, Vincenzo poté constatare le condizioni di vita che caratterizzavano le due componenti della società francese dell’epoca, i ricchi ed i poveri.
I ricchi a cui non mancava niente, erano altresì speranzosi di godere nell’altra vita dei beni celesti, ed i poveri che dopo una vita stentata e disgraziata, credevano di trovare la porta del cielo chiusa, a causa della loro ignoranza e dei vizi in cui la miseria li condannava.
Anche la signora Gondi condivideva le preoccupazioni del suo cappellano, pertanto mise a disposizione una somma di denaro, per quei religiosi che avessero voluto predicare una missione ogni cinque anni, alla massa di contadini delle sue terre; ma nessuna Congregazione si presentò e il cappellano de’ Paoli, intimorito da un compito così grande per un solo prete, abbandonò il castello senza avvisare nessuno.

Gli inizi delle sue fondazioni – Le “Serve dei poveri”
Le fondazioni di Vincenzo de’ Paoli, non scaturirono mai da piani prestabiliti o da considerazioni, ma bensì da necessità contingenti, in un clima di perfetta aderenza alla realtà.
Lasciato momentaneamente il castello della famiglia Gondi, Vincenzo fu invitato dagli oratoriani di de Bérulle, ad esercitare il suo ministero in una parrocchia di campagna a Chatillon-le-Dombez; il contatto con la realtà povera dei contadini, che specie se ammalati erano lasciati nell’abbandono e nella miseria, scosse il nuovo parroco.Dopo appena un mese dal suo arrivo, fu informato che un’intera famiglia del vicinato, era ammalata e senza un minimo di assistenza, allora lui fece un appello ai parrocchiani che si attivassero per aiutarli, appello che fu accolto subito e ampiamente.
Allora don Vincenzo fece questa considerazione: “Oggi questi poveretti avranno più del necessario, tra qualche giorno essi saranno di nuovo nel bisogno!”. Da ciò scaturì l’idea di una confraternita di pie persone, impegnate a turno ad assistere tutti gli ammalati bisognosi della parrocchia; così il 20 agosto 1617 nasceva la prima ‘Carità’, le cui associate presero il nome di “Serve dei poveri”; in tre mesi l’Istituzione ebbe un suo regolamento approvato dal vescovo di Lione.
La Carità organizzata, si basava sul concetto che tutto deve partire da quell’amore, che in ogni povero fa vedere la viva presenza di Gesù e dall’organizzazione, perché i cristiani sono tali solo se si muovono coscienti di essere un sol corpo, come già avvenne nella prima comunità di Gerusalemme.
La signora Gondi riuscì a convincerlo a tornare nelle sue terre e così dopo la parentesi di sei mesi come parroco a Chatillon-les-Dombes, Vincenzo tornò, non più come precettore, ma come cappellano della massa di contadini, circa 8.000, delle numerose terre dei Gondi.Prese così a predicare le Missioni nelle zone rurali, fondando le ‘Carità’ nei numerosi villaggi; s. Vincenzo avrebbe voluto che anche gli uomini, collaborassero insieme alle donne nelle ‘Carità’, ma la cosa non funzionò per la mentalità dell’epoca, quindi in seguito si occupò solo di ‘Carità’ femminili.
Quelle maschili verranno riprese un paio di secoli dopo, nel 1833, da Emanuele Bailly a Parigi, con un gruppo di sette giovani universitari, tra cui la vera anima fu il beato Federico Ozanam
(1813-1853); esse presero il nome di “Conferenze di S. Vincenzo de’ Paoli”.
Intanto nel 1623 Vincenzo de’ Paoli, si laureò in diritto canonico a Parigi e restò con i Gondi fino al 1625.

Le “Dame della Carità”
Vincenzo de’ Paoli, vivendo a Parigi si rese conto che la povertà era presente, in forma ancora più dolorosa, anche nelle città e quindi fondò anche a Parigi le ‘Carità’; qui nel 1629 le “Suore dei poveri” presero il nome di “Dame della Carità”.
Nell’associazione confluirono anche le nobildonne, che poterono dare un valore aggiunto alla loro vita spesso piena di vanità; ciò permise alla nobiltà parigina di contribuire economicamente alle iniziative fondate da “monsieur Vincent”.
L’istituzione cittadina più importante fu quella detta dell’”Hotel Dieu” (Ospedale), che s. Vincenzo organizzò nel 1634, essa fu il più concreto aiuto al santo nelle molteplici attività caritative, che man mano lo vedevano impegnato; trovatelli, galeotti, schiavi, popolazioni affamate per la guerra e nelle Missioni rurali.
Fra le centinaia di associate a questa meravigliosa ‘Carità’, vi furono la futura regina di Polonia Luisa Maria Gonzaga e la duchessa d’Auguillon, nipote del Primo Ministro, cardinale Richelieu.
Le prime ‘Carità’ vincenziane sorsero in Italia a Roma (1652), Genova (1654), Torino (1656).

I “Preti della Missione” o “Lazzaristi”
Anche in questa fondazione ci fu l’intervento munifico dei signori Gondi; la sua origine si fa risalire alla fortunata predicazione che il fondatore tenne a Folleville il 25 gennaio 1617; le sue parole furono tanto efficaci che non bastarono i confessori.
Il bene ottenuto in quel villaggio, indusse la signora Gondi ad offrire una somma di denaro a quella comunità che si fosse impegnata a predicare periodicamente ai contadini; come già detto non si presentò nessuno, per cui dopo il suo ritorno a Parigi, Vincenzo de’ Paoli prese su di sé l’impegno, aggregandosi con alcuni zelanti sacerdoti e cominciò dal 1618 a predicare nei villaggi.
Il risultato fu ottimo, ed altri sacerdoti si unirono a lui, i signori Gondi aumentarono il finanziamento e anche l’arcivescovo di Parigi diede il suo appoggio, assegnando a Vincenzo ed ai suoi missionari rurali, una casa nell’antico Collegio dei Bons-Enfants in via S. Vittore; il contratto fra Vincenzo de’ Paoli ed i signori Gondi porta la data del 17 aprile 1625.
La nuova comunità, si legge nel contratto, doveva fare vita comune, rinunziare alle cariche ecclesiastiche, e predicare nei villaggi di campagna; inoltre occuparsi dell’assistenza spirituale dei forzati e insegnare il catechismo nelle parrocchie nei mesi estivi.
La “Congregazione della Missione” come si chiamò, fu approvata il 24 aprile 1626 dall’arcivescovo di Parigi, dal re di Francia nel maggio 1627 e da papa Urbano VIII il 12 gennaio 1632.
Intanto i missionari si erano spostati nel priorato di San Lazzaro, da cui prenderanno anche il nome di “Lazzaristi”.
In seguito Vincenzo accettò che i suoi Preti della Missione o Lazzaristi, riuniti in una Congregazione senza voti, si dedicassero alla formazione dei sacerdoti, con Esercizi Spirituali, dirigendo Seminari e impegnandosi nelle Missioni all’estero come in Madagascar, nell’assistenza agli schiavi d’Africa.
Quando morì nel 1660, la sola Casa di San Lazzaro, aveva già dato 840 missioni e un migliaio di persone si erano avvicendate in essa, per turni di Esercizi Spirituali.

Le “Figlie della Carità”
La feconda predicazione nei villaggi, suscitò la vocazione all’apostolato attivo, prima nelle numerose ragazze delle campagne poi in quelle della città; desiderose di lavorare nelle ‘Carità’ a servizio dei bisognosi, ma anche consacrandosi totalmente.
Vincenzo de’ Paoli intuì la grande opportunità di estendere la sua opera assistenziale, lì dove le “Dame della Carità” per la loro posizione sociale, non potevano arrivare personalmente.
Affidò il primo gruppo per la loro formazione, ad una donna eccezionale s. Luisa de Marillac (1591-1660) vedova Le Gras, era il 29 novembre 1633; Luisa de Marillac le accolse in casa sua e nel luglio dell’anno successivo le postulanti erano già dodici.
La nuova Congregazione prese il nome di “Figlie della Carità”; i voti erano permessi ma solo privati ed annuali, perché tutte svolgessero la loro missione nella più piena libertà e per puro amore; l’approvazione fu data nel 1646 dall’arcivescovo di Parigi e nel 1668 dalla Santa Sede.
Nel 1660, anno della morte del fondatore e della stessa cofondatrice, le “Figlie della Carità” avevano già una cinquantina di Case.
Con il loro caratteristico copricapo, che le faceva assomigliare a degli angeli, e a cui le suore hanno dovuto rinunciare nel 1964 per un velo più pratico, esse allargarono la loro benefica attività d’assistenza ai malati negli ospedali, ai trovatelli, agli orfani, ai forzati, ai vecchi, ai feriti di guerra, agli invalidi e ad ogni sorta di miseria umana.
Ancora oggi le Figlie della Carità, costituiscono la Famiglia religiosa femminile più numerosa della Chiesa.

La formazione del clero
Attraverso l’Opera degli Esercizi Spirituali, i Preti della Missione divennero di fatto, i più prestigiosi e qualificati formatori dei futuri sacerdoti, al punto che l’arcivescovo di Parigi dispose che i nuovi ordinandi, trascorressero quindici giorni di preparazione nelle Case dei Lazzaristi, in particolare nel Collegio dei Bons-Enfants di cui Vincenzo de’ Paoli era superiore.
Più tardi, nel priorato di San Lazzaro, l’Opera degli Esercizi Spirituali si estese a tutti gli ecclesiastici che avessero voluto fare un ritiro annuale e anche a folti gruppi di laici.
Da ciò scaturì nei sacerdoti il desiderio di riunirsi settimanalmente, per esortarsi a vicenda nel cammino di una santa vita sacerdotale; così a partire dal 1633, un folto gruppo di ecclesiastici, con la guida di Vincenzo de’ Paoli, prese a riunirsi il martedì, dando vita appunto alle “Conferenze del martedì”.
Tale meritoria opera di formazione non sfuggì al potente cardinale Richelieu, il quale volle essere informato sulla loro attività e chiese pure al fondatore, una lista di nomi degni di essere elevati all’episcopato.
Lo stesso re Luigi XIII, chiese a ‘monsieur Vincent’, una seconda lista di degni ecclesiastici adatti a reggere diocesi francesi; il sovrano poi lo volle accanto al suo letto di morte, per ricevere gli ultimi conforti spirituali.
Anche la direzione dei costituendi Seminari delle diocesi francesi, voluti dal Concilio di Trento, vide sempre nel 1660, ben dodici rettori appartenenti ai Preti della Missione

Alla corte di Francia
Nel 1643, Vincenzo de’ Paoli fu chiamato a far parte del Consiglio della Coscienza o Congregazione degli Affari Ecclesiastici, dalla reggente Anna d’Austria; presieduto dal card. Giulio Mazzarino, il compito del Consiglio era la scelta dei vescovi ed il rilascio di benefici ecclesiastici.
Il potente Primo Ministro faceva scelte di opportunità politica, soprassedendo sulle qualità morali e religiose; era inevitabile lo scontro fra i due, Vincenzo gli si oppose apertamente, anche criticandolo nelle sue scelte di politica interna, specie nei giorni oscuri della Fronda, quando Mazzarino tentò di mettere alla fame Parigi in rivolta, Vincenzo allora organizzò una mensa popolare a San Lazzaro, dando da mangiare a 2000 affamati al giorno.
Nel 1649 giunse a chiedere alla regina, l’allontanamento del Mazzarino per il bene della Francia; la richiesta non poté aver seguito e quindi Vincenzo de’ Paoli cadde in disgrazia e definitivamente allontanato dal Consiglio di Coscienza nel 1652.La reggente Anna d’Austria gli concesse l’incarico di Ministro della Carità, per organizzare su scala nazionale gli aiuti ai poveri; si disse che dalle sue mani passasse più denaro che in quelle del ministro delle Finanze.

Altri aspetti della sua opera
Vincenzo de’ Paoli divenne il maggiore oppositore alle idee gianseniste propugnate in Francia dal suo amico Giovanni du Vergier, detto San Cirano († 1642) e poi da Antonio Arnauld; dopo la condanna del giansenismo da parte dei papi Innocenzo X nel 1653 e Alessandro VIII nel 1656, Vincenzo si adoperò, affinché la decisione pontificia fosse accettata con sottomissione da tutti gli aderenti alle idee del vescovo olandese Giansenio (1585-1638).Il movimento eterodosso del giansenismo affermava, che per la salvezza dell’uomo, a causa della profonda corruzione scaturita dal peccato originale, occorreva l’assoluta necessità della Grazia, la quale sarebbe stata concessa solo ad alcuni, per imperscrutabile disegno di Dio.
Fu riformatore della predicazione, fino allora barocca, introducendo una semplice tecnica oratoria: della virtù scelta per argomento, ricercare la natura, i motivi di praticarla, ed i mezzi più opportuniPer lui apostolo della carità fra i prigionieri ed i forzati, re Luigi XIII, su suggerimento di Filippo Emanuele Gondi, istituì la carica di Cappellano capo delle galere (8 febbraio 1619), questo gli facilitò il compito e l’accesso nei luoghi di pena e di partenza dei galeotti rematori; dal 1640 il compito passò anche ai suoi Missionari e alle Dame e Figlie della Carità.
Inoltre si calcola che tra il 1645 e il 1661, Vincenzo de’ Paoli e i suoi Missionari, liberarono non meno di 1200 schiavi cristiani in mano ai Turchi musulmani.
Monsieur Vincent fu fin dai primi anni, membro attivo della potente “Compagnia del SS. Sacramento”, sorta a Parigi nel 1630, composta da ecclesiastici e laici insigni e dedita ad “ogni forma di bene”.
Vincenzo de’ Paoli fu spesso ispiratore della benefica attività della Compagnia e da essa ricevé aiuto e collaborazione, per le sue tante opere assistenziali.

Il pensiero spirituale
Le virtù caratteristiche dello spirito vincenziano, secondo la Regola dei Missionari, sono le “cinque pietre di Davide”, cioè la semplicità, l’umiltà, la mansuetudine, la mortificazione e lo zelo per la salvezza delle anime.

La morte, patronati
Il grande apostolo della Carità, si spense a Parigi la mattina del 27 settembre 1660 a 79 anni; ai suoi funerali partecipò una folla immensa di tutti i ceti sociali; fu proclamato Beato da papa Benedetto XIII il 13 agosto 1729 e canonizzato da Clemente XII il 16 giugno 1737.
I suoi resti mortali, rivestiti dai paramenti sacerdotali, sono venerati nella Cappella della Casa Madre dei Vincenziani a Parigi.

È patrono:
  • del Madagascar,
  • dei bambini abbandonati,
  • degli orfani,
  • degli infermieri,
  • degli schiavi,
  • dei forzati,
  • dei prigionieri.
  • Leone XIII il 12 maggio 1885 lo proclamò patrono delle Associazioni cattoliche di carità.
In San Pietro in Vaticano, una gigantesca statua, opera dello scultore Pietro Bracci, è collocata nella basilica dal 1754, rappresentante il “padre dei poveri“.


Dire san Vincenzo è dire carità. I poveri sono al santo, come il santo ai poveri. Non dimentichiamo che nel momento in cui Vin­cenzo si affacciò alla vita, la chiesa di Francia usciva da una delle pagine più cupe della sua storia: la guerre di religione. Ci si combatteva in nome di Dio. In quel momento la chiesa cattoli­ca soffriva per una continua emorragia. Molti se ne andavano. Quando finì lo scontro fisico c'erano macerie. Si dovevano rico­struire le chiese, ma si doveva rifare la chiesa. Un gruppo di sa­cerdoti s'impegnò: Bérulle, Duval, Bourgoing, Condren e Vin­cenzo. Non si chiese l'intervento dello Stato. Questi preti, prima di cambiare il mondo, cambiarono se stessi.

In un suo testo, il santo diceva: «È scritto di cercare il regno di Dio. Si cerchi, non è che una parola, ma mi sembra racchiuda molte cose. C'insegna ad aspirar sempre a quello che ci è rac­comandato, ad affaticarci continuamente per il regno di Dio e non rimanere in uno stato di inerzia e d'indolenza, a riflettere al­la propria vita intima per ben regolarla e non alle cose esterne per trovarvi difetto. Cercate, cercate, significa aver cura, signifi­ca azione. Cercate Dio in voi, perché sant'Agostino confessa che finché egli lo cercò fuori di sé non lo trovò; cercatelo nell'intimo dell'anima vostra, come nella sua gradita dimora; è questo il luogo dove i suoi servi che procurano di mettere in pratica tut­te le virtù, le stabiliscono. È necessaria la vita interiore, e ad es­sa devono convergere tutti i nostri sforzi: se si manca in questo, si manca a tutto e quelli che vi hanno già mancato devono umi­liarsene, implorare la misericordia di Dio ed emendarsene. Se c'è uomo al mondo che ne abbia bisogno, è questo miserabile che vi parla; io cado, ricado, esco spesso fuori di me e vi rientro raramente; accumulo colpe su colpe; questa la vita miserabile che conduco e il cattivo esempio che do».

orazione O Dio, che per il servizio dei poveri e la formazione dei tuoi ministri hai donato al tuo sacerdote san Vincenzo de' Paoli lo spirito degli Apostoli, fa' che, animati dallo stesso fervore, amiamo ciò che egli ha amato e mettiamo in pratica i suoi insegnamenti. Per il nostro Signore

Deus, qui ad salútem páuperum et cleri institutiónem beátum Vincéntium presbyterum virtútibus apostólicis imbuísti, præsta, quæsumus, ut, eódem spíritu fervéntes, et amémus quod amávit, et quod dócuit operémur. Per Dóminum

Oppure:                  O Dio, per l'evangelizzazione dei poveri e la formazione del clero hai arricchito di spirito apostolico san Vincenzo de' Paoli: fa' che noi, imitandolo come maestro, ci sentiamo sospinti dalla carità a continuare nel mondo la mis-sione del Figlio tuo. Egli è Dio e vive e regna

domenica 25 settembre 2011

I nomi di Satana
del card. Jorge Mediila Estévez, tratto da Radici cristiane n.66 luglio 2011



L'influsso e la presenza di Satana nella realtà quotidiana è uno degli aspetti oggi più trascurati. Bisogna ricordare le nozioni su chi sia e come agisca con noi. Alcuni dei qualificativi con cui la Sacra Scrittura ce lo segnala ci servono a questo scopo.

Spesso nell'uso biblico il nome dato a una persona ha a che fare con le sue caratteristiche e il suo agire. Nel Nuovo Testamento si trovano almeno 160 riferimenti a Satana sotto diverse denominazioni. Quella più impiegata è demonio, che risulta all'incirca un centinaio di volte. Il nome diavolo appare non meno di 36 volte e altrettante volte appare quello di Satana.
L'abbondanza di questi "nomi" significa che il tema non è banale e che lo Spirito Santo, nell'ispirare i libri sacri, volle che i cristiani di ogni tempo avessero presente tanto la realtà come l'azione, entrambe nefaste, del Maligno. [...]

Il grande avversario della salvezza umana Prendiamo ad esempio alcuni di questi "nomi" di Satana. "Satana" stesso significa "avversario", "nemico", "accusatore". Il Maligno è avversario perché si oppone ai progetti di Dio, perché è colui che cerca di sovvertire il buon ordine posto dal Creatore nella sua opera, in specie per quanto riguarda i disegni di salvezza per l'umanità caduta col peccato ma redenta dall'azione salvifica di Dio fattosi uomo, Gesù Cristo Nostro Signore. Nel libro di Giobbe, Satana scatena contro di lui ogni sorta di disgrazie con l'intenzione di indurlo a ribellarsi contro Dio e i suoi disegni, senza riuscirvi (Gb. 1,6 ss).

"Diavolo" è una parola dal contenuto simile a Satana, cioè, "accusatore", "detrattore", uno che "si mette di traverso", che "disturba", che ci fa inciampare. La Sacra Scrittura gli attribuisce guai e malattie, alcune delle quali oggi si identificano con malattie psichiche o neurologiche.


Legione è il nome che davano a se stessi i diavoli che possedevano l'indemoniato di Gerasa e così volevano dire che erano molti (Mc. 5,9). Anche in altri testi del Nuovo Testamento si fa riferimento alla pluralità degli spiriti maligni.

Principe e dio di questo mondo «Principe di questo mondo», citato in Marco, Luca e Matteo, è un'espressione allusiva al potere che il demonio esercita sulla società, permeandola con antivalori e ottenendo che gli uomini rigettino i disegni divini e costruiscano i rapporti sociali prescindendo da Dio e anche contrariando la sua volontà.

Questo "nome" si relaziona all'affermazione di san Giovanni che «tutto il mondo giace sotto il potere del Maligno» (1 Gv. 5,19) ed è vicina all'espressione «dio di questo mondo» (2 Cor. 4,4), la quale vuoi dire che Satana riesce a trovare uomini che sostituiscono Dio per altre realtà, donde le diverse forme di idolatria che schiavizzano l'umanità.

Questa espressione usata da san Paolo, "dio di questo mondo", suggerisce l'altissimo grado di nefasta influenza che Satana esercita sulla comunità umana, la quale in diverse forme accetta e rende culto ad antivalori, cioè, a condotte contrastanti con la verità della natura umana e con la volontà di Dio.

Questa influenza può giungere, e difatti è giunta, fino a scatenare la persecuzione violenta ai cristiani esigendo loro l'apostasia come prezzo per poter conservare la vita corporale. Oggidì, col pretesto di evitare ogni discriminazione, si pretende che la Chiesa riconosca come legittime e morali, condotte che contraddicono il Vangelo. [...]

Le strategie diaboliche fanno sì che questa sottomissione non si manifesti sempre in modo esplicito ma frequentemente con opzioni antievangeliche giustificate con argomenti speciosi in cui, ovviamente, sono assentì sia Dio che la sua divina volontà. [...] Tuttavia Satana continua a pretendere adorazione per via dell'adesione a quanto rappresenta disprezzo e rifiuto di Dio stesso e della sua volontà. E giunge persino a indurre alcuni all'estrema perversione di rendergli omaggio come se fosse Dio, nei culti satanici.

Menzognero e tentatore Menzognero, "nome" presente in Gv. 8,44 e 1 Gv. 2,22, si riferisce, si può ben dire, alla caratteristica più tipica dell'agire del diavolo. Ed è sottolineata in forma enfatica dal "nome" «Padre della Menzogna» (Gv. 8,44).

Ci sono due occasioni in cui Satana agisce come il grande mentitore: quando tenta i primi padri nel giardino dell'Eden, suggerendo loro che Dio è un abbindolatore e un invidioso (cfr. Gn. 3,1 ss) e quando tenta proprio Gesù, offrendogli ciò che non gli appartiene a cambio di un tributo di omaggio e adorazione (cfr. Mt. 4,1 ss; Me. 1,12ss; Le. 4,1-13)
Questa caratteristica del diavolo (e dei diavoli) spiega la ragione profonda della sua avversione a Gesù Cristo: il Signore della Verità (Gv. 14,6). La menzogna è vicina alla confusione, all'inganno, al culto delle apparenze.


Tentatore, (presente in Mt. 4,3 e 1 Ts. 3,5), è un qualificativo che descrive l'azione permanente degli spiriti maligni, cioè, indurre gli uomini, in genere tramite l'inganno e la bugia, ad allontanarsi dalla strada di Dio. In una maniera o nell'altra, il demonio offre felicità laddove non la si può trovare. [...]

Due testi del Nuovo Testamento sono istruttivi sul "tentatore": quello in cui san Pietro lo presenta «come leone ruggente che va in giro, cercando chi divorare» e quello di san Paolo, quando descrive nella Lettera agli Efesini la vita cristiana come una lotta contro le insidie del diavolo (6,10ss).

Anche se la tentazione è un fatto frequente nella esistenza umana e proviene direttamente o indirettamente dal Maligno, «Dio è fedele - ci dice s. Paolo - e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d'uscita e la forza per sopportarla» (1 Cor. 10,13).

[...] Nel caso di Satana, la tentazione è il tentativo di indurci al peccato, cioè, far sì che l'uomo si ribelli a Dio. L'audacia incredibile di Satana lo portò a tentare Gesù Cristo stesso. Ma non tutte le tentazioni provengono direttamente dal demonio. Alcune procedono dall'ambiente circondante, di ciò che in diversi passi del Nuovo Testamento viene denominato "il mondo", nella misura che è sotto l'influsso di Satana. Altre provengono dalla nostra propria natura ferita e indebolita dal peccato; altre ancora traggono la loro origine da persone che, con maggiore o minore consapevolezza, ci inducono a peccare con i loro cattivi esempi o servono di complici alle nostre attività peccaminose.

«Io ho vinto il mondo» Questo percorso per alcuni dei "nomi" che la Parola di Dio da al demonio è istruttivo perché ci permette di scoprire le caratteristiche dell'essere diabolico e del suo agire. Chi, dopo leggere questi testi della Sacra Scrittura, potrebbe mettere in dubbio l'esistenza degli spiriti maligni e della loro nefasta azione sugli uomini?

Teniamo conto delle parole di Gesù Stesso: «Simone, Simone! Ecco, Satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli» (Lc. 22,31-32). Parole di severo monito ma, allo stesso tempo, di fiducia nella definitiva vittoria del Signore e della sua grazia.

Completiamo queste parole con quelle di san Pietro sopraccennate: «Siate temperanti, vigilate. Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro cercando chi divorare! Resistetegli saldi nella fede, sapendo che i vostri fratelli sparsi per il mondo subiscono le stesse sofferenze di voi. E il Dio di ogni grazia, il quale vi ha chiamati alla sua gloria eterna in Cristo, egli stesso vi ristabilirà, dopo una breve sofferenza vi confermerà e vi renderà forti e saldi» (1 Pt. 5,8ss.)

Non dimentichiamoci poi le parole dell'Apocalisse che ci insegnano che il demonio, dopo l'infruttuoso attacco contro la misteriosa Donna e il suo Bambino, «se ne andò a far guerra contro il resto della sua discendenza, contro quelli che osservano i comandamenti di Dio e sono in possesso della testimonianza di Gesù» (Ap. 12,17). Tuttavia il trionfo appartiene a Gesù: «Ma abbiate fiducia, io ho vinto il mondo!» (Gv. 16,33).