domenica 31 luglio 2011

La liturgia ferita

[ Comunicazione di S.E. mons. Marc Aillet, vescovo di Bayonne, al Convegno Teologico dell'11-12 marzo 2010, sul tema Fedeltà di Cristo, fedeltà del Sacerdote, svoltosi presso l'aula magna della Pontificia Università Lateranense]

All’origine del Movimento liturgico, vi era la volontà del Papa san Pio X, in particolare nel motu proprio Tra le sollecitudini (1903), di restaurare la liturgia e renderne maggiormente accessibili i tesori affinché ridiventasse la fonte di una vita autenticamente cristiana, proprio per rilevare la sfida di una crescente secolarizzazione e incoraggiare i fedeli a consacrare il mondo a Dio. Da qui, la definizione conciliare della liturgia come “culmine e fonte della vita e della missione della Chiesa”. Contro ogni aspettativa, come hanno spesso rilevato Papa Giovanni Paolo II e Papa Benedetto XVI, l’attuazione della Riforma liturgica, a volte, ha portato ad una sorta di desacralizzazione sistematica, mentre la liturgia si è lasciata progressivamente pervadere dalla cultura secolarizzata del mondo circostante perdendo così la sua natura e la sua identità: “Questo Mistero di Cristo la Chiesa annunzia e celebra nella sua Liturgia, affinché i fedeli ne vivano e ne rendano testimonianza nel mondo” (CCC n. 1068).
Senza negare i frutti autentici della riforma liturgica, si può dire tuttavia che la liturgia è stata ferita da ciò che Giovanni Paolo II ha definito “pratiche non accettabili” (Ecclesia de Eucharistia, n. 10) e Benedetto XVI ha denunciato come “deformazioni al limite del sopportabile” (Lettera ai vescovi in occasione della pubblicazione del motu proprio Summorum Pontificum). Così è stata ferita anche l’identità della Chiesa e del sacerdote.
Negli anni postconciliari si assisteva ad una sorta di opposizione dialettica fra i difensori del culto liturgico e i promotori dell’apertura al mondo. Siccome questi ultimi arrivavano a ridurre la vita cristiana al solo impegno sociale, in base a un’interpretazione secolare della fede, i primi, per reazione, si rifugiavano nella pura liturgia fino al “rubricismo”, col rischio di incoraggiare i fedeli a proteggersi eccessivamente dal mondo. Nell’esortazione apostolica Sacramentum Caritatis, Benedetto XVI pone fine a questa polemica e ricompone questa opposizione. L’azione liturgica deve riconciliare la fede e la vita. Proprio in quanto celebrazione del Mistero pasquale di Cristo, reso realmente presente in mezzo al suo popolo, la liturgia dà una forma eucaristica a tutta la vita cristiana per farne un “culto spirituale gradito a Dio”. Così, l’impegno del cristiano nel mondo e il mondo stesso, grazie alla liturgia, sono chiamati ad essere consacrati a Dio. L’impegno del cristiano nella missione della Chiesa e nella società trova, infatti, la sua sorgente e il suo impulso nella liturgia, fino ad essere attirato nel dinamismo dell’offerta d’amore di Cristo che vi è attualizzata.
Il primato che Benedetto XVI intende dare alla liturgia nella vita della Chiesa – “il culto liturgico è l’espressione più alta della vita sacerdotale ed episcopale”, ha detto ai vescovi di Francia riuniti a Lourdes il 14 settembre 2008 in assemblea plenaria straordinaria – vuole mettere di nuovo l’adorazione al centro della vita del sacerdote e dei fedeli. Invece e al posto del “cristianesimo secolare” che ha spesso accompagnato l’attuazione della riforma liturgica, Papa Benedetto XVI intende promuovere un “cristianesimo teologale”, il solo in grado di servire quella che ha definito la priorità che predomina in questa fase della storia, ossia “rendere Dio presente in questo mondo e aprire agli uomini l’accesso a Dio” (Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica, 10 marzo 2009). Dove, infatti, meglio che nella liturgia, il sacerdote approfondisce la propria identità, così ben definita dall’autore della Lettera agli Ebrei: “Ogni sommo sacerdote, preso fra gli uomini, viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati” (Eb 5,1)?
L’apertura al mondo auspicata dal Concilio Vaticano II è stata spesso interpretata, negli anni postconciliari, come una sorta di “conversione alla secolarizzazione”: questo atteggiamento non mancava di generosità, ma portava a trascurare l’importanza della liturgia e a minimizzare la necessità di osservare i riti, ritenuti troppo lontani dalla vita del mondo che bisognava amare e con il quale bisognava essere pienamente solidali, fino a lasciarsi affascinare da esso. Ne è risultata una grave crisi di identità del sacerdote che non riusciva più a percepire l’importanza della salvezza delle anime e la necessità di annunciare al mondo la novità del Vangelo della Salvezza. La liturgia è, senza dubbio, il luogo privilegiato dell’approfondimento dell’identità del sacerdote, chiamato a “combattere la secolarizzazione”; poiché, come dice Gesù, nella sua preghiera sacerdotale: “Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal maligno. Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. Consacrali nella verità. La tua parola è verità” (Gv 17,15-17).
Questo certamente sarà possibile attraverso una più rigorosa osservazione delle prescrizioni liturgiche che preservano il sacerdote dalla pretesa, pur inconsapevole, di attirare l’attenzione dei fedeli sulla sua persona: il rituale liturgico che il celebrante è chiamato a ricevere filialmente dalla Chiesa permette, infatti, ai fedeli di giungere più facilmente alla presenza di Cristo Signore del quale la celebrazione liturgica deve essere il segno eloquente e che deve avere sempre il primo posto. La liturgia è ferita quando i fedeli sono lasciati all’arbitrio del celebrante, alle sue manie, alle sue idee o opinioni personali, alle sue stesse ferite. Ne consegue anche l’importanza di non banalizzare dei riti che, strappandoci al mondo profano e dunque alla tentazione dell’immanentismo, hanno il dono di immergerci di colpo nel Mistero e di aprirci alla Trascendenza. In questo senso, non si sottolineerà mai abbastanza l’importanza del silenzio che precede la celebrazione liturgica, nartece interiore dove ci si libera delle preoccupazioni, pur legittime, del mondo profano, per entrare nel tempo e nello spazio sacri, dove Dio rivelerà il suo Mistero; del silenzio nella liturgia per aprirsi più sicuramente all’azione di Dio; e la pertinenza di un tempo di azione di grazia, integrato o non nella celebrazione, per prendere la misura interiore della missione che ci attende, una volta ritornati nel mondo. L’obbedienza del sacerdote alle rubriche è anch’essa segno silenzioso ed eloquente del suo amore per la Chiesa di cui non è che il ministro, cioè il servitore.
Ne deriva l’importanza anche della formazione dei futuri sacerdoti alla liturgia e specialmente alla partecipazione interiore, senza la quale la partecipazione esteriore preconizzata dalla riforma sarebbe senz’anima e favorirebbe una concezione parziale della liturgia che si esprimerebbe in termini di teatralizzazione eccessiva dei ruoli, cerebralizzazione riduttiva dei riti e autocelebrazione abusiva dell’assemblea. Se la partecipazione attiva, che è il principio operativo della riforma liturgica, non è l’esercizio del “senso soprannaturale della fede”, la liturgia non è più opera di Cristo, ma degli uomini. Insistendo sull’importanza della formazione liturgica dei sacerdoti, il Concilio Vaticano II fa della liturgia una delle discipline principali degli studi ecclesiastici, evitando di ridurla ad una formazione puramente intellettuale: infatti, prima di essere un oggetto di studio, la liturgia è una vita, o meglio, è “passare la propria vita a passare nella vita di Cristo”. È l’immergersi per eccellenza di ogni vita cristiana: immersione nel senso della fede e nel senso della Chiesa, nella lode e nell’adorazione, come nella missione.
Siamo dunque chiamati ad un autentico “sursum corda”. La frase del prefazio “in alto i nostri cuori” introduce i fedeli al cuore del cuore della liturgia: la Pasqua di Cristo, cioè il suo passaggio da questo mondo al Padre. L’incontro di Gesù Risorto con Maria Maddalena, la mattina della Risurrezione, è in questo senso molto significativo: con il suo “noli me tangere” Gesù invita Maria Maddalena a “guardare alle realtà dell’alto”, facendole notare di non essere ancora salito al Padre nel suo cuore e invitandola appunto ad andare a dire ai discepoli che egli deve salire al suo Dio e nostro Dio, a suo Padre e nostro Padre. La liturgia è esattamente il luogo di questa elevazione, di questa tensione verso Dio che dà alla vita un nuovo orizzonte e, con questo, il suo orientamento decisivo. A patto di non considerarla come materiale disponibile alle nostre manipolazioni troppo umane, ma di osservare, con un’obbedienza filiale, le prescrizioni della Santa Chiesa.
Come affermava Papa Benedetto XVI nella conclusione della sua omelia nella solennità dei Santi Pietro e Paolo del 2008: “Quando il mondo nel suo insieme sarà diventato liturgia di Dio, quando nella sua realtà sarà diventato adorazione, allora avrà raggiunto la sua meta, allora sarà sano e salvo”.

sabato 30 luglio 2011

31 LUGLIO
S. IGNAZIO DI LOYOLA


P. KOLVENBACH
S. IGNAZIO E LA MESSA
OMELIA,
Festa di S. Ignazio
Roma, Chiesa del Gesù,
31 luglio 1985

I nostri occhi vanno al sepolcro di Sant'lgnazio, qui nella Chiesa del Gesù, dove questa sera celebriamo insieme la festa del Santo. Nulla di strano nel fatto che vi si rappresenti Ignazio rivestito della pianeta, perché in lui la celebrazione dell'Eucaristia si trova veramente al centro della sua mistica apostolica.

Prima di celebrare l'Eucaristia Ignazio ne aveva meditato, la vigilia, i testi liturgici e dopo la messa, passava volentieri due ore di ringraziamento. Poco importa degli affari o l'urgenza del lavoro apostolico: nessuno aveva il diritto di disturbarlo durante questo tempo privilegiato. Per rimanere, durante la giornata, unito al sacrificio eucaristico, Ignazio si faceva fare una finestra nella parete per poter vedere sempre l'altare e ricordarsi del mistero pasquale. I testimoni sono unanimi: durante la messa, che durava un po' più d'un'ora, Ignazio riceveva delle grandi consolazioni e un senso straordinario della Trinità all'opera nella storia degli uomini, nella vita della Chiesa, nell'intimità più profonda della sua missione personale. Così l'Eucaristia si imponeva a Ignazio in tutta la sua realtà pasquale, gioiosa e dolorosa, a tal punto che spesso Ignazio ne rimaneva esausto. Negli ultimi anni della sua vita Ignazio non celebrava che alla domenica e nelle feste, per la poca salute che non sopportava più — dicono le fonti — le spossanti visioni che accompagnavano la sua Messa. Nell'Eucaristia Ignazio moriva con il suo Signore per la vita dei suoi fratelli, per "aiutare le anime".

Per dei mesi Ignazio si era preparato prima di celebrare l'Eucaristia per la prima volta nella notte santa del Natale del 1538, davanti alla reliquia del Presèpe a Santa Maria Maggiore. Egli, che aveva tanto desiderato di rimanere in Terra Santa per "aiutarvi le anime" annunciando il mistero dell'incarnazione, celebrava a, Roma la sua messa sul mondo, obbedendo alla volontà di sua Di-vina Maestà. Tre anni più tardi, circondato dai suoi compagni, davanti all'ostia, Ignazio s'impegna a seguire il Signore povero, casto e obbediente, nella Compagnia di Gesù. Ancora oggi i gesuiti che mettono la loro vita esistenzialmente sotto il segno del pane spezzato e del sangue versato per la vita del mondo, ripetono i gesti dei primi compagni, compiuti a San Paolo fuori le mura.

Per dare delle Costituzioni a questa giovane compagnia Ignazio cerca l'ispirazione nelle molte messe che celebra; i passi più importanti hanno sempre ottenuto una conferma divina durante l'Eucaristia celebrata a questa intenzione. Questo amore per l'Eucaristia non poteva non trasmettersi ai compagni di Ignazio, che fanno l'esperienza di una medesima “fame eucaristica”, introducendo la messa quotidiana e la comunione frequente, anzi quotidiana. Fedele a questa tradizione spirituale l'ultima Congregazione Generale ha dichiarato che "la nostra vita, a esempio di quella d'Ignazio, è radicata nell'esperienza di Dio, che per mezzo di Gesù Cristo ci chiama, ci raccoglie in unità e ci invia in missione. L'Eucaristia è il luogo privilegiato in cui celebriamo questa realtà".

Questo amore per l'Eucaristia non poteva mancare negli Esercizi Spirituali. Infatti la contemplazione della Cena sarà chiamata il terzo fondamento degli Esercizi, dopo il Principio e il Regno. L'Eucaristia è posta come il punto centrale dove converge tutto il mio desiderio concreto di essere con il Cristo e da dove fluisce il compimento di questo desiderio nel mio cammino pasquale con il Cristo per mezzo della sua Eucaristia.

Comunicando con l'offerta di Cristo nella Cena la scelta per il cammino di Cristo assume il pieno significato di una conversione personale ed ecclesiale. Come ogni prodotto della natura non diviene nutrimento dell'uomo che per mezzo di una conversione, come il frumento non diviene pane se non è mietuto, trebbiato e macinato; cosi il Signore dicendo nella Cena “questo è il mio corpo" per essere nostro nutrimento di vita si vota alla morte che sola rende fruttuosa e compie una tale conversione. Questa conversione, è la passione pasquale — questo desiderio ardente di mangiare con noi tutti la Pasqua affinchè tutti passino dalla loro morte alla vita. Nessuna meraviglia allora che Ignazio lottasse nell'Eucaristia quando lasciava prendere ciò che aveva e ciò che era per essere convertito, non ai suoi propri progetti e alle sue scelte generose, ma ai sentimenti che furono quelli di Cristo nella sua Passione. Per mezzo dell’ Eucaristia la vita di Ignazio diviene l'esodo di una persona naturalmente egoista e limitata, convertita in nutrimento "per voi e per molti". E nell'Eucaristia che le parole e i pensieri, i desideri e le aspirazioni che gli Esercizi suscitano, divengono esistenzialmente il corpo e il sangue, la cruda realtà delle nostre vite nella realtà crocifiggente e risorgente di Cristo. Comunicarsi significa allora volere che la storia concreta delle nostre vite personali e comunitarie sia afferrata e trasformata dalla storia pasquale del Signore Gesù, che continua la sua passione fino alla fine dei tempi. In questa congiunzione che solo l'Eucaristia compie, Iqnazio ha scoperto la sorgente sua spiritualità e del suo apostolato. Talvolta leggendo il suo Diario il lettore s'accorge che Ignazio è attirato dagli sguardi in alto, dal cielo tutto alto. Ma l'Eucaristia gli ricorda quella parola che gli apostoli ascoltavano il giorno perché guardate in alto, il cielo? È ben giù, nel quotidiano, di tutti i giorni con le sue gioie e le sue pene che il pane e il vino simbolizzano, che la Trinità vuole essere scoperta, adorata e servita, all'opera per noi. Così Ignazio non cerca più l'unione con la Trinità in alto, nel sempre più alto, di un idealismo puro o di un'interiorità tutta pura, ma nella comunione del pane e del vino che la passione del Signore converte in opera della Trinità. Dopo che il Signore Gesù, la vigilia della sua passione, ha preso il pane perché si desse amorosamente in nutrimento di vita per tutti, ogni mistica si compie attraverso il corpo pesante, umiliante e umiliato dell'uomo. C'è una preghiera eucaristica più sublime e più umile di quella del Principio, che osa mettere sulla patena la nostra brama di "non voler più la salute che la malattia, più la ricchezza che la povertà, più l'onore che il disonore, più la vita lunga che quella breve desiderando e scegliendo unicamente il cammino della Passione dei Signore che l'Eucaristia non cessa di compiere tra noi? C'è una preghiera eucaristica che osi "altamente e umilmente" tradurre il "questo è il mio corpo" quale quella della fine degli Esercizi: lasciar prendere dal Signore libertà e memoria, intelligenza e volontà, avere ed essere per ricevere il dono d'amore e di grazia che è tu stesso, il corpo di Cristo, il sangue di Cristo per la vita del mondo? L'Eucaristia, "che questa mi basta".

Un critico d'arte ha notato che le vesti sacerdotali - la pianéta che Ignazio porta sono e devono essere le vesti più belle perché devono nascondere tanta debolezza e povertà umana. A una certa epoca della sua vita lgnazio aveva l'abiludine di far seguite la sua firma da questa misterjosa espressione: “de bontad pobre", povero di bontà, povero in amore. Anche Ignazio non ha che cinque pani e due pesci e ciononostante la missione del Signore di nutrire la folla. Ignazio allora attinge nell'Eucaristia la fede nella lenta conversione eucaristica del mondo, una fede che accetta di camminare lungamente e pazientemente con ogni uomo, perché scopra anche lui questa conversione di tutta la sua libertà in amore eucaristico, vi attinge una speranza che attende malgrado le apparenze l'avvento di Colui che l'Eucaristia celebra finché egli venga; ma soprattutto vi attinge l'amore che "già" e "non ancora" ha preso Ignazio e si è trasformato per mezzo dell'Eucaristia in un ardente desiderio di servire "ovunque nel mondo dove il Vicario di Cristo ci invierà".

venerdì 29 luglio 2011

30 LUGLIO
S. GIUSTINO DE IACOBIS, VESCOVO

Missionario di San Vincenzo De' Paoli, vescovo titolare di Nilopoli e primo vicario apostolico dell'Abbissinia. Paolo VI canonizzandolo il 25 ottobre 1975 disse di lui: "ha un solo torto: quello di essere poco conosciuto». Nacque il 9 ottobre 1800 a San Fele (Potenza); il padre Giovanni Battista e la madre Maria Giuseppina Muccia con i loro quattordici figli, dei quali Giustino fu il settimo, formarono una famiglia ricca di fede cristiana. Nel 1814 tutta la famiglia si trasferì a Napoli, e qui il De Jacobis, scoprì la sua vocazione.

Il 17 ottobre 1818 entrò nella Congregazione delle Missioni fondata da S. Vincenzo De' Paoli.
Questa scelta maturò in lui atteggiamenti segnati da profonda umiltà, da saggia prudenza e da attenta carità.
Un modo di essere che si esprimeva in cortesia, rispetto, ascolto. Fu ordinato sacerdote a Brindisi il 12 giugno 1824 ed esercitò il sue ministero a Oria, a Monopoli, e a Lecce, dove era richiesto per la preparazione dei seminaristi, per la direzione spirituale, l'animazione dei ritiri, nonché per le opere di carità; ma si distinse soprattutto per le missioni al popolo.

Con Donna Elena Antoglietta promosse quella forma di evangelizzazione che si avvaleva del servizio della carità e che venne introdotta sotto forma di "Compagnia della Carità".

Nei quindici anni di ministero nel mezzogiorno d'Italia, una nota tra le altre distinse il De Jacobis: la sua capacità comunicativa, una comunicazione semplice e profonda. Aveva nel suo linguaggio dell'ispirato, ed i suoi pensieri erano sempre adatti a sollevare i cuori. E fu l'apostolo che parla col cuore; la sua parola attirava convinceva e convertiva proprio perché il suo modo di predicare era facile e popolare: tutti lo capivano. Nel 1836 tornò a Napoli come direttore dei novizi a San Nicola da Tolentino e poi come superiore alla casa chiamata "Dei Vergini" e fu angelo di carità nel colera come lo sarà a Massaua in una simile epidemia.

Una luce suprema irradiava i suoi passi, e veri miracoli lo accompagnavano nelle fatiche apostoliche.
Nel 1838 chiese ed ottenne dai Superiori di essere mandato nelle missioni estere ed il Prefetto di Propaganda Fide lo propose come Prefetto Apostolico "Abissiniae et Finitinorum Regionum". Si imbarcò a Civitavecchia il 24 maggio 1839, giorno dedicato alla memoria di Maria Ausiliatrice, e dopo cinque mesi di viaggio arrivò ad Adua, scelta come centro della missione, accolto dal P. Sapeto, il 13 ottobre. A Malta, durante una breve sosta della nave un fatto straordinario attirò su di lui la venerazione del popolo: mentre celebrava la S. Messa dalla Elevazione fino alla Comunione, apparve in alto sul suo capo Gesù Bambino raggiante di luce, che potè essere contemplato da molti fedeli.

In Abissinia il De Jacobis lavorò nel Tigre, ad Adua, e a Guala. E il suo primo pensiero fu quello di aprire un seminario per raccogliere e formare vocazioni per un clero indigeno: il seminario fu denominato "Collegio dell'Immacolata".

Per meglio riuscire nella sua missione volle assicurarsi le condizioni indispensabili per avvicinare il mondo ortodosso etiopico, per rivitalizzare la fede nel popolo. Incominciò con lo studio della lingua e dei costumi locali, si documentò sulla storia religiosa dell'Etiopia, penetrò con rispetto i sentimenti e gli atteggiamenti della gente cogliendo gli aspetti più significativi della psicologia del popolo abissino. Si propose di mantenere buone relazioni con i principi e le corti, evitare le controversie irritanti, coltivare le simpatie del clero, evitare fondazioni vistose e condurre vita modesta, non inserirsi in affari politici. La sua azione pastorale e catechistica poggiava solo sull'amore che lo spingeva a testimoniare Cristo.

E della realtà di questo amore diede prova ad un gruppo di monaci che lo ascoltavano e che egli amava profondamente: «Nel mio paese, egli disse, ho saputo che nell'Etiopia vi erano cristiani ed ho detto a mio padre e alla madre mia: datemi la benedizione, perchè voglio andare; Ma dove? mi dissero; ed io: voglio andare a vedere i miei cari fratelli che sono in Abissinia, voglio andare a dire a quei cristiani che io li amo assai. Il padre mio piangeva, la mia madre piangeva e col pianto mi diedero la benedizione e dissero: Và, figlio, dove Dio ti chiama. Da quel giorno io ho pregato: Signore, fammi prima vedere i miei cari cristiani di Abissinia, e poi fammi morire se ti piace».

I monaci erano per lui bocca, orecchie, mani, piedi ...
Per radicare la fede cattolica in mezzo ai fedeli doveva insegnarla nella lingua locale e perciò tradusse in quella lingua il catechismo del Bellarmino. Col seminario mirò ad educare catechisti e sacerdoti; e per l'educazione delle donne che erano emarginate dall'istruzione religiosa, pensò di far giungere delle suore che si potessero occupare di loro; ma questo desiderio rimase un sogno che si potè realizzare 18 anni dopo la sua morte.

Tutto questo fermento religioso fu turbato dalle ostilità del Vescovo Ordodosso Abuna Selama che prescrisse in una lettera circolare di scacciare dalle loro provincie il De Jacobis. Intanto dalla Propaganda Fide l'Abissinia fu elevata a Prefettura di cui sarebbe stato vicario apostolico il De Jacobis col titolo vescovile di Nilopoli. Il De Jacobis dilazionò a lungo la sua consacrazione episcopale perché non se ne riteneva degno e solo l'8 gennaio 1849 il Cardinal Massaia, Vicario Apostolico dei Galla, dopo aver lottato a lungo contro l'umiltà del De Jacobis lo consacrò vescovo in circostanze tragiche clandestinamente nella più squallida povertà di rito, quando la situazione politica e religiosa stava precipitando per le mene dell'Abuna Selama da una parte per le guerriglie dei vari Ras dall'altra. Sorsero di qui le persecuzioni di ogni genere, che si aggravarono sempre di più. La consacrazione episcopale del De Jacobis inasprì maggiormente l'Abuna Selama, che fece metter in prigione il De Jacobis con i suoi sacerdoti. Nel 1841- 42 accompagnò a Roma dal Papa Gregorio XVI e poi in terra santa un gruppo di notabili Abissini ancora eretici e di questi molti si convertirono. Il primo consacrato dalle sue mani, il convertito Abba Ghebré Michael morì sotto la sferza dei carnefici, altri subirono con lui maltrattamenti di ogni sorta.

Il De Jacobis ebbe la gioia di vedere realizzata la sua profonda aspirazione, quella di trasmettere una fede che diventò testimonianza; essi soffrirono prigionia e torture per la loro fedeltà alla fede fieri di appartenere a Cristo nella Chiesa cattolica.

Una ragazza tredicenne che conosceva molto bene il catechismo fu condotta dal monaco Tembien, fanatico inquisitore contro i cattolici da parte di Abuna Selama. Visto che la giovinetta rispondeva con coraggio e chiarezza a tutte le domande sulla sua fede e non acconsentiva alle promesse di una vita agiata e sicura, né mostrava paura alle minacce di essere precipitata dal monte, le furono legate le mani con catene di ferro fu sospesa in alto e fu lasciata così per un certo tempo; fu costretta a macinare il grano coi piedi legati, poi fu portata in giro per terrorizzare coloro che avrebbero voluto seguire la fede cattolica. I testimoni coraggiosi della fede cattolica erano il segno evidente di una comunità, che sapeva vivere nella preghiera e nella sofferenza, ma anche nella gioia di appartenere al Cristo nella Chiesa cattolica. Dopo poco più di venti anni di indefesso lavoro, di fatiche missionarie sostenute con grande zelo apostolico, consumato dalla fatica Giustino si spense con la testa appoggiata su un duro sasso, nella torrida zona di Eidelé, mentre era in viaggio verso Haleyl il 31 luglio I960. Abbà Emmetu in occasione della morte del De Jacobis scrisse al prefetto di Propaganda Fide: «Eminenza reverentissima si spense il sole che irradiava la nostra povera Abissinia; si seccò la fonte delle nostre speranze e svanì lo specchio delle più belle virtù." Il Cardinal Massaia testimoniò che in tutte le case dove si era fermato e da tutta la gente che aveva incontrato aveva sentito parlare dell'Abuna Jacob, dappertutto si piangeva, come se l'Abissinia avesse perduto "suo Padre".

Lo stesso Massaia disse: «allora compresi maggiormente quanto efficace e fecondo riesce l'apostolato, quando chi l'esercita è pieno di zelo, di carità, di abnegazione, e sa farsi piccolo coi piccoli per guidarli a Cristo».

E presenta così il Massaia la figura del Santo: «Iddio mandò all'Abbissinia nella vita del De Jacobis un libro vivente, una vera copia del vangelo, le inviò un apostolo, vera immagine di Gesù, mite ed umile di cuore, che fece conoscere a questo povero popolo meglio che con tutti gli insegnamenti possibili la vera idea della vita cristiana, che poi partorì alla Chiesa una moltitudine di nuovi fedeli degni dei primi secoli della fede».

In occasione della Canonizzazione del De Jacobis i vescovi Etiopi scrissero a Paolo VI: «Il Beato Giustino de Jacobis è stato padre per la chiesa d'Etiopia ; ha infatti rigenerato l'Etiopia cristiana alla finezza di quella fede cattolica, che aveva ricevuto dal suo primo apostolo: San Frumenzio».

Però la testimonianza più ammirevole l'abbiamo dal suo più acerrimo nemico, l'Abuna Selama che scrisse al re Teodoro: «Scaccia via l’ abuna Jacob, ma non l’ uccidere; è un santo e nessuno osserva meglio di lui la legge del Signore”.

Fu beatificato da Pio XII il 25 giugno 1939 nel 1° centenario della dazione della missione di Etiopia. E fu canonizzato da Paolo VI il 26 ottobre 1975 Caratteristiche: Genialità ardore apostolico slancio missionario d uomo tutto dedito a Dio e ai fratelli. Dottrina cristiana in amarica. Giustino de Jacobis ha scritto con la vita e con le opere una pagina di storia della chiesa tra le più interessanti.

SECONDA LETTURA
Dal discorso dì S. Giustino de lacobis ai cristiani di Adua (S. Pane, Vita del B. Giustino de Jacobis)
Voi siete padroni della mia vita
La porta del cuore è la bocca, la chiave del cuore è la parola. Quando io apro la bocca e parlo, apro la porta del mio cuore. Quando vi parlo vi dò la chiave del mio cuore. Venire e vedete. Nel mio cuore lo Spirito Santo ha piantato un grande amore per gli Etiopi cristiani. Ero nel mio paese. Nel mio paese ho saputo che in Etiopia vi erano dei cristiani, e ho detto al padre mio e alla madre mia: Padre mio, dammi la benedizione; madre mia, dammi la benedizione, perche voglio andare. Figlio mio, hanno risposto, dove? ... Voglio andare a dire a quei cristiani che li amo moltissimo. Dio mi ha esaudito. Dio mi ha fatto la grazia di vedere i cari cristiani di Etiopia. Adesso vi ho veduto, adesso vi ho conosciuto, adesso sono contento, adesso, mio Dio, ti benedico e ti dico, se ti piace, fammi morire, perché ora sono contento. Se Dio mi lascia un giorno, due giorni, quanti giorni vuole della mia vita, li debbo spendere per voi, perché Dio me li ha conservati per voi. Voi siete padroni della mia vita, perché Dio mi ha data questa vita per voi. Se voi volete il mio sangue, venite, aprite le mie vene, fatelo scorrere tutto; è tutto vostro, voi ne siete padroni, per le vostre mani io morirò contento. Se non vi piace di darmi cosi una morte che io bramo, allora tutta la vita che mi resta la voglio spendere per voi. Se siete afflitti, io verrò a consolarvi nel nome di Gesù Cristo. Se siete nudi, io vi darò la mia veste per coprirvi; se siete affamati, io vi darò il mio pane per saziarvi. Se siete ammalati, vi verrò a visitare. Se volete che io vi insegni quel poco che so, lo farò con grande piacere. Su questa terra non ho più padre, non madre, non più patria. Solo Dio mi resta ed il popolo cristiano di Etiopia. Chi possiede questo cuore? Dio ed il popolo cristiano di Etiopia. Voi siete adesso i miei amici, voi i parenti miei, voi i fratelli e le sorelle, voi mio padre e mia madre. Vedano i cristiani di Etiopia quel che c'è in questo cuore; Dio e il popolo cristiano di Etiopia, io farò sempre quello che vi piace. Volete che io stia in questo paese? lo qui starò. Volete che io parta di qui? Io partirò. Volete cbe io parli in questa vostra chiesa? Parlerò. Volete che io stia in silenzio? Vi starò. Io sono prete come voi, confessore come voi, come voi sono predicatore. Volete che dica la Messa? La dirò. Non volete? Non la dirò. Volete che confessi? Io confesserò. Volete che non predichi? Io non predicherò. Adesso che vi ho parlato sapete chi sono io. Adesso che vi ho aperto il cuore, vi ho dato in mano le chiavi del mio cuore. Adesso sapete chi sono io. Se mi domandare, dunque chi sono io? Vi rispondo: un cristiano di Roma, amante dei cristiani di Etiopia. Se qualcuno vi domanda: chi è questo straniero? Rispondete: un cristiano di Roma, che ama i cristiani di Etiopia più di sua madre, più di suo padre, perché ha lasciato gli amici, i parenti, i fratelli, il padre, la madre, per venirci a vedere, per dichiararci il suo amore. Sono quattro mesi che sono nel vostro paese; voi mi avete veduto, mi avete trattato, voi mi avete conosciuto. Ditemi: vi ho dato scandali? Ditemi, vi ho fatto del male? Credo di no. Ma se non vi ho dato scandali, se non vi ho fatto del male, neppure vi ho fatto del bene. Da oggi in poi io voglio mutare. Io sarò non solo come il vostro amico, ma ancora come il vostro servo. Avete bisogno di me? Venite, che farò tutto per voi. Se non volete venire, chiamatemi a tutte le ore, in tutti i tempi. Sono tutto per voi, lo ripeto. Voi Signore, nel cui cospetto io sono, voi sapete che quando parlo così non mentisco!

RESPONSORIO 1 Ts 2, 8; Gal 4, 19
Così affezionari a voi, avremmo desiderato darvi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita,
* perché ci siete diventati cari.
Figlioli miei, io di nuovo vi partorisco nel dolore finché non sia formato Cristo in voi,
perché ci siete diventati cari.

ORAZIONE O Dio, che per evangelizzare i popoli di Etiopia hai reso san Giustino De Jacobis capace di farsi tutto a tutti, concedi anche a noi, per sua intercessione, che la medesima fede ci unisca fraternamente nel servire la predicazione del Vangelo e la pace tra i popoli. Per il nostro Signore.

Paolo VI
Angelus del 20 ottobre 1975
L'apostolo dell'Abissinia
Oggi un santo nuovo: Giustino De Jacobis, «un grande figlio della Lucania, apostolo dell'Abissinia», come è stato ben detto. Già beatificato nel 1939 dal nostro venerato predecessore papa Pio XII. Nacque nel 1800 e morì nel 1860, appunto in Abissinia. Era un figlio di san Vincenzo, cioè un Lazzarista, apparteneva cioè alla Congregazione della Missione; e nel senso ormai specifico della parola fu missionario. Ha un solo torto, quello d'essere troppo poco conosciuto.
Sorge forse in alcuni la domanda: ma dobbiamo conoscerli tutti questi santi? non sono troppi? anche per le prossime domeniche di questo Anno Santo avremo altre simili cerimonie. Risposta: godiamo che la storia della Chiesa si arricchisca di beati e di santi; è la sua gloria, è la nostra gioia. La Chiesa ha sempre bisogno di nuovi santi; ne ha bisogno il mondo.
Perché, innanzi tutto, questo culto della santità umana, come la Chiesa lo concepisce e lo svolge, non solo non detrae alcunché al sommo culto di adorazione e di fonte unica di santità che è dovuto a Dio: si bene lo celebra. Il culto dei santi è un culto riflesso; è la gloria resa a Dio nelle migliori sue creature. Come ammiriamo l'opera di Dio, la sua onnipotenza, la sua grandezza, la sua bellezza nel quadro della natura, così, e tanto più, possiamo e dobbiamo vedere l'immagine di Dio, ricondotta alla sua perfezione, e irradiante la sua opera ed il suo amore, nello specchio di quei nostri più valorosi fratelli che risplendono della santità della grazia. « Mirabile è Dio nei suoi santi », dice un salmo (cf Sal 67, 36): ed è questa meraviglia divina che noi esaltiamo in queste singolari creature che sono i santi.
Diciamo di più. Noi abbiamo bisogno di esempi umani per arrivare alla superiore imitazione di Dio. Lo diceva anche san Paolo proponendo se stesso ad esempio: « siate miei imitatori, come io Io sono di Cristo» (1 Cor 4,16). Non trascuriamo questa pedagogia efficacissima dell'imitazione di modelli più grandi di noi. L'agiografia, cioè la scienza su i santi, può essere una scuola superiore di vita virtuosa, forte e bella.
Cosi sia per noi davanti alla galleria dei nuovi santi che la Chiesa ci espone davanti a nostro stimolo e a nostro contorto.
Die 29 iulii
S. Marthæ
Memoria


Ant. ad introitum Cf. Lc 10,38 Intrávit Iesus in quoddam castéllum, et múlier quaedam Martha nómine excépit illum in domum suam.

Collecta Omnípotens sempitérne Deus, cuius Fílius in domo beátae Marthae dignátus est hospitári, da, quaesumus, ut, eiúsdem intercessióne, Christo in frátribus nostris fidéliter ministrántes, in aede caelésti a te récipi mereámur. Per Dóminum.

Super oblata In beáta Martha te, Dómine, mirábilem praedicántes, maiestátem tuam supplíciter exorámus, ut, sicut eius tibi gratum éxstitit caritátis obséquium, sic nostrae servitútis accépta reddántur offícia. Per Christum.

Ant. ad communionem Jn 11,27 Dixit Martha ad Iesum: Tu es Christus, Fílius Dei vivi, qui in hunc mundum venísti.

Post communionem Córporis et Sánguinis Unigéniti tui sacra percéptio, Dómine, ab ómnibus nos cadúcis rebus avértat, ut, exémplo beátae Marthae, valeámus tibi et sincéra in terris caritáte profícere, et tui perpétua in caelis visióne gaudére. Per Christum.

mercoledì 27 luglio 2011

28 LUGLIO
VOLTO SANTO DI MANOPPELLO


Il Volto Santo é un velo tenue, i fili orizzontali del tessuto sono ondeggianti e di semplice struttura, l'ordito e la trama si intrecciano nella forma di una normale tessitura. E’ l'immagine di un viso maschile con i capelli lunghi e la barba divisa a bande. Caso unico al mondo in cui l'immagine è visibile identicamente da ambedue le parti.
Le tonalità del colore sono sul marrone, le labbra sono di colore leggermente rosse, sembrano annullare ogni aspetto materiale. Non sono riscontrabili residui o pigmenti di colore. Le due guance sono disuguali: l'una, più arrotondata, si mostra considerevolmente rigonfia. Gli occhi guardano molto intensamente da una parte e verso l'alto. Perciò si vede il bianco del globo oculare sotto l'iride. Le pupille sono completamente aperte, ma in modo irregolare. Nel mezzo, sopra la fronte si trova un ciuffo di capelli, corti e mossi a mo' di vortice.

Le varie tappe del Volto Santo prima del suo arrivo a Roma di P. Heinrich Pfeiffer
Prendendo le mosse dalla perfetta sovrapponibilità del volto della Sindone con il volto di Manoppello, si è indotti ad ammettere che sia l’immagine sul velo che quella sulla Sindone si siano formate nello stesso tempo. Ora non c’è altra possibilità di spiegazione delle tracce sulla Sindone, che fanno intravedere il corpo di un uomo crocifisso e morto secondo il racconto dei Vangeli, che non quella di ammettere che queste tracce si siano formate durante il soggiorno di questo corpo nella tomba. Allora anche il Volto Santo di Manoppello si è formato nella tomba di Gesù a Gerusalemme quando esso fu posto con tutta probabilità in fretta sopra la Sindone. Sul sottilissimo sudario con la finissima immagine, conservata oggi nel Santuario presso Manoppello, ritrovato nella tomba ormai vuota nella mattina di Pasqua, possiamo fare due ipotesi. La prima suppone che lo abbia avuto la Madre Maria, cui spettava quasi di diritto; lei, così possiamo pensare, lo portò con sé. Da lei sarebbe passato a Giovanni, quindi prima ad Efeso e poi in qualche altra località dell’Asia Minore. Oppure, seconda ipotesi, sarebbe rimasto unito alla Sindone, separato da essa in un tempo molto posteriore come io ho opinato nel mio libro “Das echte Christusbild”, del 1991. Se si segue la seconda ipotesi, allora, come scrive Giorgio Cedreno, nel 574 un’icona “acheiropoietos” viene trasportata da Camulia in Cappadocia a Costantinopoli. È un oggetto talmente simile che potrebbe trattarsi con grande probabilità dello stesso Velo che si conserva oggi nel Santuario abruzzese. Rimase a Costantinopoli fino al 705, quando l’immagine di Camulia sparì dalla capitale dell’Impero. L’immagine di Camulia è il primo oggetto che viene definita “acheiropoietos”, cioè non fatta da mani umane. In una poesia di lode del poeta Teofilatto Simocatta, scritta per la vittoria delle truppe bizantine nella battaglia presso il fiume Arzamon (586), ottenuta per la presenza dell’immagine, la descrive come “non dipinta, non tessuta, ma prodotta con arte divina”. Giorgio Piside lo chiama “prototipo scritto da Dio”. Ancora dopo la sparizione dell’immagine, Teofane (758-818) afferma che nessuna mano avrebbe disegnato quest’immagine, ma “la Parola creativa e formante tutte le cose ha prodotta la forma” di questa figura divino-umana. Tutte queste descrizioni dei poeti e storiografi bizantini si possono giustificare solo per la presenza di un unico oggetto: il Volto Santo di Manoppello. Anch’esso, come prima impressione, sembra essere una pittura, ma quando si esamina meglio, si scarta subito questa ipotesi. Allora essa potrebbe essere stata prodotta con la tecnica della tessitura, ma anche questa tesi non regge. Così si comprende la descrizione “non dipinta, non tessuta” dei poeti bizantini. Per una immagine come quella di Manoppello, che è totalmente trasparente e sparisce quasi del tutto quando viene posta contro il cielo, si deve escludere qualsiasi tecnica conosciuta per la produzione di un’opera artistica. L’immagine di Camulia, la prima “acheiropoietos” non sarebbe solo sparita da Costantinopoli, ma si sarebbe incamminata, via mare, verso la vecchia capitale dell’Impero, Roma. La gente a Costantinopoli raccontava che il Patriarca Germano avrebbe affidato l’immagine di Cristo alle onde del mare agli inizi dell’iconoclastia ed essa sarebbe giunta a Roma nel tempo del Papa Gregorio II. A Roma si parla di una “Acheropsita” che il Papa Stefano II avrebbe portato in processione quando il re longobardo Aistulfo assedia la città nel 753. Questa “Acheropsita” è il Volto Santo della Cappella Sancta Sanctorum del Palazzo lateranense dei Papi. È una icona sul cui volto si trovava incollata una tela dipinta con il volto di Cristo. L’ipotesi più attendibile è che il primo velo incollato fu proprio il Volto S. di Manoppello. Non si poteva escogitare un miglior nascondiglio per un’immagine su un velo che sovrapporla ad un’icona. Così l’imperatore bizantino non avrebbe potuto mai scoprire il furto della sua “acheiropoietos” ed essa poteva sempre essere venerata nella liturgia pontificia. Quando gli imperatori bizantini persero pian piano il loro potere e il loro influsso sull’Italia, il Velo poté essere staccato di nuovo dalla sua icona, essere sostituito da un velo dipinto e trasportato nella cappella in San Pietro che il Papa Giovanni VII aveva fatto erigere poco dopo che l’immagine di Camulia sparì da Costantinopoli. Il primo Papa che non dovette più temere il potere dell’imperatore bizantino fu Innocenzo III. Egli promosse per la prima volta il culto e la venerazione del velo con l’immagine di Cristo, e questa volta il Velo fu chiamato “Veronica”, la vera icona di Cristo. Il titolo “Volto Santo” rimase all’icona lateranense. Questa è la storia più probabile del Volto Santo di Manoppello secondo le nostre conoscenze dei documenti e delle immagini acheropite. Rimane una questione aperta: come e quando i panni funebri, la Sindone e il velo di Manoppello, furono divisi. Come Mandilion di Edessa, la Sindone ha avuto il suo proprio percorso con il trasporto a Costantinopoli nel 944, il suo temporaneo smarrimento sin dalla crociata del 1204, e il suo riemergere dal buio dei tempi a Lirey, nella metà del Trecento. Il Volto Santo ha fatto il suo viaggio che noi abbiamo cercato di ricostruire da Gerusalemme a Efeso, da Efeso a Camulia in Cappadocia, da Camulia a Costantinopoli, da Costantinopoli alla Cappella Sancta Sanctorum del palazzo lateranense, da qui alla Cappella della Veronica in San Pietro in Vaticano, infine al Santuario di Manoppello. Durante questi viaggi lo stesso, ha cambiato nome diverse volte: da immagine “acheiropoietos” di Camulia, a “prototypos”, a “acheropsita” e “Volto Santo” della Sancta Sanctorum, a “Veronica” e ora di nuovo a “Volto Santo” in Manoppello. Questo percorso è una fondata ipotesi; l’identità del Volto S. di Manoppello con la Veronica romana, è certezza.

BENEDETTO XVI
1 settembre 2007
Signore Gesù,
come già i primi apostoli,
ai quali dicesti: “Che cercate?”,
ed accolsero il tuo invito: “Venite e vedrete”,
riconoscendoti come il Figlio di Dio,
l’atteso e promesso Messia per la redenzione del mondo,
anche noi, discepoli tuoi di questo difficile tempo
vogliamo seguirti ed esserti amici,
attratti dal fulgore del tuo volto desiderato e nascosto.
Mostraci, ti preghiamo, il tuo volto sempre nuovo,
misterioso specchio dell’infinita misericordia di Dio.
Lascia che lo contempliamo
Con gli occhi della mente e del cuore:
volto del Figlio, irradiazione della gloria del Padre
e impronta della sua sostanza (cf. Eb 1, 3),
volto umano di Dio entrato nella storia
per svelare gli orizzonti dell’eternità.
Volto silenzioso di Gesù sofferente e risorto,
che amato ed accolto cambia il cuore e la vita.
“Il tuo volto, Signore, io cerco,
Non nascondermi il tuo volto” (Sal 27, 8s).
Nel corso di secoli e millenni quante volte è risuonata
Tra i credenti questa struggente invocazione del Salmista !
Signore, anche noi la ripetiamo con fede:
“Uomo dei dolori, davanti a cui si copre la faccia” (Is. 53,3),
non nasconderci il tuo volto !
Vogliamo attingere dai tuoi occhi,
che ci guardano con tenerezza e compassione.
La forza di amore e di pace che ci indichi la strada della vita,
ed il coraggio di seguirti senza timori e compromessi,
per diventare testimoni del tuo Vangelo,
con gesti concreti di accoglienza, di amore e di perdono.
Volto Santo di Cristo,
luce che rischiara le tenebre del dubbio e della tristezza,
cita che ha sconfitto per sempre il potere del male e della morte,
sguardo misterioso
che non cessa di posarsi sugli uomini e i popoli,
volto celato nei segni eucaristici
e negli sguardi di coloro che ci vivono accanto,
rendici pellegrini di Dio in questo mondo,
assetati d’infinito e pronti all’incontro dell’ultimo giorno.
Quando ti vedremo, Signore, “faccia a faccia (1Cor, 13,12),
e potremo contemplarti in eterno nella gloria del Cielo.
Maria, Madre del Volto Santo,
aiutaci ad avere “mani innocenti e cuore puro”,
mani illuminate dalla verità dell’amore
e cuori rapiti dalla bellezza divina,
perché, trasformati dall’incontro con Cristo,
ci doniamo ai poveri e ai sofferenti,
nei cui volti riluce l’arcana presenza
del tuo Figlio Gesù,
che vive e regna nei secoli dei secoli. Amen !

INNO

Io vi adoro amabil viso
di Gesù, mio Redentor:
vago Sol del Paradiso,
gioia e pace del mio cor.

Sacro Volto, amato pegno
d’infinito, ardente amor:
sacro Volto, amato segno
d’ogni nobile favor!

Lodi e grazie a quella Mano
che recò si gran tesor:
dono eccelso d’un Sovrano
he ci amò con tanto ardor.

Caro popolo diletto,
d’un tal Bene possessor:
scaccia pure dal tuo petto
ogni pena, ogni timor.

Alza pur l’oppresso ciglio
al bel Volto del Signor:
ecco in ogni tuo periglio
il tuo forte Difensor.

Sacro Volto Onnipotente,
d’ogni grazia donator:
deh! mirate ognor clemente
ed il giusto e il peccator.

Rit. O Volto Santo - di Manoppello
Ti mostra a noi - sempre più bello:
Mi prostro supplice - dinanzi a Te:
o Volto Santo, - pietà di me!

O Santo Volto - del Redentore,
fonte di grazie - fiamma d’amore:

Volto che a tutti - brami parlare,
Volto che vuoi - tutti ascoltare:

Volto che vigili - e notte e giorno;
che chiami gli umili - a Te d’intorno:

Volto dagli uomini - dimenticato
Volto che attendi - d’essere amato:

Volto degli Angeli - supremo amore,
Volto degli uomini - consolatore:

Volto dolcissimo, - che spiri amore
solo rifugio - al peccatore:

Volto adorabile, - dolce, pietoso,
di tutti i miseri - Padre amoroso:

O Santo Volto — dell’Uomo—Dio
Deh! fa’ che in cielo - ti miri anch'io:

Mons. B. Forte
Signore Gesù,
Tu che sei il volto dell’eterno amore,
Tu che hai voluto guardarci con occhi nuovi,
parlarci con labbra nuove,
ascoltarci con orecchie nuove,
Tu che hai voluto effondere lo Spirito Santo
come profumo della Tua grazia e della Tua bellezza nei nostri cuori e nell’universo intero.
Tu che hai voluto toccarci per essere toccato da noi,
e Ti sei fatto gustare nel pane della vita, parla ancora al nostro cuore,
inondalo, e fa’ che l’incontro con Te
in questo luogo santo,
custode del velo nel quale i fedeli venerano
il Tuo Volto di infinita misericordia,
possa essere per tutti quelli che vi
giungeranno pellegrini
(durante questo anno santo,)
il nuovo inizio della storia di salvezza e di amore a cui chiami i nostri cuori...
E Maria, che contemplò il Tuo volto per prima e lo baciò con tenerezza di Madre,
Lei che seguì l’evolversi del Tuo volto,
e lo vide chiudere gli occhi sulle braccia della croce,
Lei che lo contemplò risorto
e ora lo contempla nella gloria,
ci aiuti ad essere quelli che cercano nella verità,
che incontrano nella grazia della santa madre Chiesa,
che riconoscono nei sacramenti, nella carità e nella fede
il tuo Volto di Salvatore, rivelazione dell’infinito amore. Amen!

Dal 'Cantico del Volto Santo'
di S. Teresa del Bambino Gesù

La tua divina immagine ineffabile
è l’astro che mi guida, o mio Gesù:
Tu ben lo sai, il Volto tuo dolcissimo
è per me veramente il ciel quaggiù!
Discopre l’amor mio l’arcano fascino
degli occhi tuoi, più belli nel patir,
e sorrido attraverso le mie lacrime
quando muta contemplo il tuo martir.

Diletto, il tuo Cor per consolar,
viver vò solitaria ed ignorata;
la Tua bellezza che Tu sai velar,
il suo mister mi scopre. O me - beata -
senza indugio, ver Te vorrei volar!
Il Tuo Volto è la sola patria mia,
la mia letizia, il mio regno d’amor,
dei giorni miei la dolce poesia,
il mio sol nel raggiante suo fulgor.

PREGHIERA AL VOLTO SANTO di S. Pio X
O Gesù, che nell’amara vostra passione diventaste l’obbrobrio degli uomini e l’uomo dei dolori, io venero il vostro Volto divino, su cui brillava l’avvenenza e la dolcezza della divinità, ora divenuto per me come quello di un lebbroso! Ma sotto queste deformi sembianze io ravviso l’amore vostro infinito, e mi struggo dal desiderio di amarvi e di farvi amare da ogni uomo.
Le lagrime che sgorgano dai vostro sguardo mi appaiono come graziose perle che io amo di raccogliere, affine di comprare col loro valore infinito le anime dei peccatori. O Gesù, il cui volto è la sola bellezza che rapisce il mio cuore, io accetto di non vedere quaggiù la dolcezza del vostro sguardo, di non sentire l’ineffabile bacio della vostro bocca: ma deh! vi supplico di imprimere in me la vostra divina somiglianza, d’infiammarmi del vostro amore acciocché esso mi consumi rapidamente, ed io giunga ben presto a vedere il vostro Volto glorioso nel Cielo. Amen.

CONSACRAZIONE AL VOLTO SANTO
O Volto adorabile di Gesù, corrispondendo al tuo sguardo di predilezione sulle anime nostre, ecco che ognuno di noi oggi si consacra in modo particolare al tuo servizio.
O Volto Santo, che non hai nascosto il tuo volto ai nostri sguardi e dalle tue labbra fai ancora udire parole di verità, noi raccogliamo il tuo dolce invito: “Voi che siete affaticati, venite a me, ed io vi ristorerò”. Anche noi che siamo affaticati e stanchi ricorriamo a te, o Gesù, per avere sollievo e conforto.
Volto Santo, dalle tue labbra divine risuona alle nostre orecchie la tua soavissima voce ci atti-ra al tuo Cuore: tu solo hai parole di vita eterna, fà che non ci allontaniamo mai dalla retta via.
Gesù amabilissimo, nell’orto del Getsemani hai provato profonda tristezza, e aspettasti invano qualcuno che ti consolasse. Ora noi siamo desiderosi di asciugarti il Volto sfigurato e tergerti il sudore, il sangue e le lacrime che lo rigano, insieme alla polvere e agli sputi che lo deturpano. Volto adorabile di Gesù, piegati a riposare sulle nostre spalle: noi piangeremo con te; facci degni di partecipare in qualche modo alle tue sofferenze.
Volto adorabile di Gesù, che sei davanti ai nostri occhi, con i segni del tuo amore infinito, Tu ci hai amato fino a dare la vita per noi. Grazie, Gesù! Aiutaci a rispondere al tuo amore con il più grande amore. Signore Gesù, imprimi nella nostra anima l’immagine del tuo santo volto perché, con la tua grazia, impariamo ad amare come tu hai amato, a vivere come tu hai vissuto, a pregare come tu hai pregato. Concedici, Gesù, di venire un giorno a contemplare il tuo volto divino splendente di gloria nella gioia senza fine del tuo regno. Amen.

martedì 26 luglio 2011

27 LUGLIO
SAN PANTALEONE
S.
S. Pantaleone è oggetto di venerazione in Oriente, dove viene chiamato il grande martire ed è invocato come taumaturgo. Fiale contenenti una certa quantità del suo sangue (raccolto, secondo la tradizione, da Adamantio, testimone del martirio) sono conservate a Costantinopoli ed a Ravello: altre reliquie del santo si trovano nella basilica di Saint-Denis a Parigi; la sua testa è venerata a Lione. Alcune reliquie sono conservate anche nella chiesa di San Pantalon (così è chiamato dai Veneziani san Pantaleone) a Venezia.
L'ampolla conservata in Ravello presenta il fenomeno dell'annuale liquefazione del sangue nel mese di luglio; San Pantaleone, medico e martire, Patrono di Ravello, rappresenta il cuore della devozione e della tradizione ravellesi. La Cappella dedicata al Santo, voluta sin dal 1617 dal vescovo Michele Bosio, per una più sicura e degna collocazione della Reliquia del sangue del martire, fu realizzata nel 1643 durante il governo del vescovo Bernardino Panicola, che ne fece la traslazione con una solenne processione per la città. Lo stesso fenomeno si verifica anche nell'ampolla custodita a Montauro.

Il Martirologio Romano fissa per la memoria di s. Pantaleone il 27 luglio. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

ANTICA CORONCINA

RlT. Vincitore dell'atro sangue, vivi eterno nel tuo sangue Santo Martire Pantaleone abbi di noi compassione.

I Inclito Martire e nostro speciale Protettore San Pantaleone, Voi che invocando il nome santo di Dio, restituiste la vista ad un misero cieco, otteneteci dall'augusta Trinità la vista interiore per conoscere la vanità delle cose terrene e disprezzarle, per amare solo quelle celesti, che danno beni eterni. Pater, Ave, Gloria

Rit.

II Incomparabile Martire di Gesù Cristo e nostro speciale protettore San Pantaleone, come richiamaste a novella vita, invocando il nome santo di Dio, un fanciullo ucciso da una vipera, così vogliate ottenere a noi dalla beata Trinità di essere sempre immuni dal peccato mortale, che uccide l'anima, e di apprezzare solo la grazia, che ci santifica. Pater, Ave, Gloria

Rit.

Ill Invitto martire della fede e nostro speciale protettore San Pantaleone, voi che, invocando il nome santo di Gesù Cristo, guariste istantaneamente un povero infermo, che non aveva più speranza di vivere, a confusione dell'empio Massimiano e dei sacerdoti idolatri, otteneteci dall'una e individua Trinità di non disperare mai dell'eterna salvezza, a confusione dell'empio nemico dell'anima nostra e di quanti disprezzano la nostra santa religione. Pater, Ave, Gloria

Rit.

PREGHIAMO Gloriosissimo nostro protettore San Pantaleone, eccoci prostrato innanzi al vostro altare umiliati e confusi per chiedervi grazie. Dal trono di gloria ove godete beato, piegate benigno il vostro sguardo ed otteneteci, vi preghiamo, da Dio Uno e Trino, uno spirito di vera fede, una ferma speranza di salvarci per i meriti di Gesù Cristo ed un ardente amore verso Dio con vivo dolore dei nostri peccati. Vogliamo credere, come voi credeste: senza rispetto umano e pronti a professare pubblicamente senza arrossire la medesima vostra fede, vogliamo sperare, come voi speraste: senza timore e senza incertezze. Vogliamo amare, come voi amaste ardentemente e generosamente fino alla morte: vogliamo sempre glorificare Dio, come voi lo glorificaste, con una vita fatta di opere sante e con la fedele osservanza delle promesse nel santo battesimo. Come voi, vogliamo vivere e morire nella divina volontà del padre celeste. Sì, impetrateci il cumulo di tutte le grazie soprannaturali necessarie per la vita dell'anima e quelle temporali per la vita del corpo. Il vostro sangue, che qui gelosamente conserviamo e veneriamo, ci assicura di essere esauditi. Ci è di conferma il suo ininterrotto miracoloso liquefarsi nel giorno vostro natalizio, che la più spiccata prova della vostra perenne protezione. Con la voce di questo vostro sangue, pregate Gesù Salvatore, affinché per i meriti del suo preziosissimo sangue, dopo aver amato e servito in terra, possiamo un giorno possederlo con Voi in cielo e glorificarlo in eterno. Amen.


INNO:
Ravelli pignus optimum,
Nicomediensis incola,
Cleri plebisque clypeus,
Pater pupilli et orphani.

Ad hanc Cruoris incliti
Fideles aram pergimus,
Pantaleonis gloriam,
Opem fidemque pangimus.

Artem fallacem deserens
Hyppocratis, signaculo
Crucis, ad vitam parvulum,
Perempto vocas aspide.

Patrem gentilem dogmata
Religionis edocens,
Paris Olympo et gratiae
Qui mundo te produxerat.

Nam fides saxum sublevat
Plumba liquata denegant
Athletam Christi tangere;
Nec audet unda merger.

Mox viret arbor arida,
In qua tu e vita tolleris,
Et quem fudisti sanguinem
Nos hic bullientem cernimus.

Te protegente, defuit
Numquam Ravello quidpiam;
Cives, te duce, et advenae
Coelorum sedes occupent.

Sit Trinitati gloria,
Et laus per omne saeculum,
Quae contuendum credidit
Tanto Ravellum Martiri. Amen.

Ora prò nobis, sancte Pantaleon.
Ut digni effìciamur promissisonibus Christi

OREMUS Deus, qui beatum Pantaleonem martyrem tuum varia tormenta superare fecisti, et prò persecutoribus exorare, concede propitius, ut qui ejus imploramus auxilium, misericordia tuae sentiamus effectum. Per Christum Dominum nostrum. Amen.

PREGHIERA O glorioso medico e martire San Pantaleone, con tutta umiltà e fiducia io ricorro a te, per chiederti grazie ed aiuti. Da Dio, uno e trino, ottienimi uno spirito di viva fede, una ferma speranza di salvarmi per i meriti di Gesù Cristo ed un ardente amore verso Dio con profondo dolore dei miei peccati. Tu, che restituisti la vista ad un misero cieco, ridesti la vita ad un fanciullo ucciso da una vipera e guaristi istantaneamente un povero infermo, rivolgi anche a me il tuo sguardo misericordioso e prega Gesù, perché mi conceda di guarire da tante infermità dell'anima e dalla malattia del corpo e soprattutto mi ottenga di poter vivere in eterno, insieme con te, la vita della gloria eterna in Paradiso. Amen.

lunedì 25 luglio 2011

Si fa presto a dire "cristiano fondamentalista"


Nell'espressione "cristiano fondamentalista", il primo termine è evidentemente di troppo, se applicato al pluriomicida norvegese che, ossessionato dall'invasione islamica dell'Europa, ha reso all'islam il più prezioso servizio di immagine che mille militanti di Al-Quaeda non sarebbero mai riusciti ad ottenere. Di per sé è del tutto improprio definire 'cristiano', sia pure in senso pervertito e fanatico, chi si mette a sparare contro decine di vittime innocenti. Ma la definizione è doppiamente errata, ed anzi subdola, se consideriamo più da vicino l'ideologia del sig. Breivik (nella foto). A cominciare dalla sua rivendicata affiliazione frammassonica. Che non sarà di per sé incompatibile con il proteiforme credo protestantico, a differenza di quanto avviene per il cattolicesimo; ma di sicuro nessun fondamento ha di cristiano.
 
fonte: Messainlatino
Enrico

di M. Introvigne

L’orribile tragedia di Oslo chiede anzitutto rispetto e preghiera per le vittime, quindi una riflessione sulle misure di vigilanza che anche società, come quelle scandinave, che tengono al loro carattere «aperto», oggi non possono mancare di adottare a fronte delle numerose e molteplici forme di terrorismo. Tra queste misure, però, non ci può e non ci dev’essere una stigmatizzazione dei «fondamentalisti cristiani», dipinti come criminali e potenziali terroristi. È veramente sfortunato che la polizia norvegese, subito ripresa dai media di tutto il mondo, abbia inizialmente presentato l’attentatore, Anders Behring Breivik, come un cristiano fondamentalista, e che in Italia alcuni media lo abbiano definito perfino – falsamente – un cattolico.

L’incidente mostra semplicemente come oggi «fondamentalista» sia una parola usata in modo generico e impreciso per indicare chiunque abbia idee estremiste o genericamente «di destra», e un riferimento, anche se vago, al cristianesimo. Ne nasce facilmente il fenomeno sociale della «colpevolezza per associazione», per cui qualunque cristiano che sia, per esempio, contro l’aborto o il riconoscimento delle unioni omosessuali diventa un fondamentalista e, dal momento che l’attentato di Oslo è stato attribuito a un adepto del fondamentalismo, anche un potenziale terrorista. Proprio pochi giorni prima dell’attentato di Oslo l’Osservatorio sull’Intolleranza e la Discriminazione contro i Cristiani di Vienna aveva inviato ai responsabili del progetto RELIGARE, un’indagine sull’Europa multireligiosa finanziata dalla Commissione Europea, un corposo memorandum sui pericoli di un uso del termine «fondamentalismo» che diventa strumento di discriminazione anticristiana.

L’espressione «cristiano fondamentalista», beninteso, ha un significato preciso. Risale alla pubblicazione negli Stati Uniti tra il 1910 e il 1915degli opuscoli The Fundamentals, una critica militante delle teologie protestanti liberali, del metodo storico-critico nell’interpretazione della Bibbia e dell’evoluzionismo biologico. Un fondamentalista è un protestante – di solito, tra l’altro, molto anti-cattolico – che insiste sull’interpretazione letterale e tradizionale della Bibbia, rifiutando qualunque approccio ermeneutico che tenga conto delle scienze umane moderne, e da questa interpretazione deduce principi teologici e morali ultra-conservatori.

Anders Behring Breivik non è un fondamentalista. Possiamo sapere parecchie cose delle sue idee dal suo profilo su Facebook – cancellato, ma non prima che qualcuno lo avesse salvato e messo online –, da oltre sessanta pagine d’interventi sul sito anti-islamico norvegese document.no, disponibili anche in lingua inglese e soprattutto dal suo libro di 1.500 pagine 2083 - Una dichiarazione d’indipendenza europea, firmato «Andrew Berwick», mandato a una serie di amici e di giornali il 22 luglio, a poche ore dalla strage, e postato su Internet il 23 luglio da Kevin Slaughter, un ministro ordinato nella Chiesa di Satana fondata in California da Anton Szandor LaVey (1930-1997), che ha oggi nel mondo il numero maggiore di adepti in Scandinavia.

Già dalla sua pagina di Facebook, emerge come un interesse principale di Breivik sia costituito dalla massoneria. Chi visitava il profilo di Breivik su Facebook era colpito da una fotografia che lo rappresenta con tanto di grembiulino massonico come un membro di una loggia di San Giovanni, cioè di una delle logge che amministrano i primi tre gradi nell’Ordine Norvegese dei Massoni, la massoneria regolare della Norvegia. Breivik fa parte della Søilene, una delle logge di San Giovanni di Oslo di questo Ordine, che naturalmente non ha di per sé niente a che fare con l’attentato. Queste logge praticano il cosiddetto rito svedese, che richiede ai membri la fede cristiana. Ma nessun fondamentalista protestante diffonderebbe sue fotografie in tenuta massonica: il fondamentalismo, al contrario, è fortemente ostile alla massoneria. Né si tratta di un interesse del passato: la fotografia è stata postata nel 2011 e ancora nel 2009 su document.no Breivik proponeva una raccolta di fondi «nella mia loggia».

Aggiungiamo che anche la passione di Breivik per il gioco di ruolo online World of Warcraft e per una serie televisiva di vampiri piuttosto scollacciata, Blood Ties, nonché la dichiarata amicizia per il gestore del principale sito pornografico norvegese, «nonostante la sua morale sfilacciata» – per non parlare del fatto che uno dei destinatari del suo memoriale è un satanista –, sono tutti tratti che sarebbero assurdi per un cristiano fondamentalista. I toni ricordano semmai Pim Fortuyn (1948-2002), l’uomo politico omosessuale olandese fondatore di un movimento populista anti-islamico. Se una parte del libro apprezza la famiglia tradizionale, altrove Breivik dichiara di considerare ammissibile l’aborto – sia pure in un numero limitato di casi – e rivela anche di «avere messo da parte duemila euro che intendo spendere per una escort di alta qualità, una vera modella, una settimana prima dell’esecuzione della mia missione [terroristica]».

I testi – che rivelano ampie anche se disordinate letture – non appaiono quelli di un semplice folle, anche se ci sono tratti di megalomania e contraddizioni evidenti. L’interesse principale di Breivik non è la religione, ma la lotta all’islam che rischia, a suo dire, di sommergere l’Europa – e tanto più un Paese piccolo come la Norvegia – con l’immigrazione. Queste idee non sono, naturalmente, particolarmente originali – e alcuni degli autori che Breivik cita, e di cui propone nel libro 2083 una sorta di lunga antologia, sono del tutto rispettabili –, ma la tesi è declinata con toni che talora diventano razzisti e paranoici.

Lo scopo primo di Breivik è fermare l’islam – di qui la sua avversione per il governo norvegese, percepito come favorevole a un’indiscriminata immigrazione islamica –, e per questo cerca alleati dovunque. Racconta di avere scelto volontariamente di essere battezzato e cresimato nella Chiesa Luterana norvegese a quindici anni – la famiglia, ricca e agnostica, gli aveva lasciato libera scelta – ma  di essersi convinto che le comunità protestanti sono ormai morte e hanno ceduto alle ideologie multiculturaliste e filo-islamiche. In un primo momento, scrive, i protestanti dovrebbero confluire nella Chiesa Cattolica. Ma anche la Chiesa Cattolica si è ormai venduta all’islam quando l’attuale Pontefice ha deciso di continuare il dialogo interreligioso con i musulmani. Breivik minaccia Benedetto XVI, scrivendo che «ha abbandonato il cristianesimo e i cristiani europei e dev’essere considerato un Papa codardo, incompetente, corrotto e illegittimo». Una volta eliminati i protestanti e il Papa, potrà essere organizzato un «Grande Congresso Cristiano Europeo» da cui nascerà una «Chiesa Europea» completamente nuova, identitaria e anti-islamica.

Se Breivik ha un nemico, l’islam, ha anche un amico – immaginario, perché non sembra ci siano stati grandi contatti diretti –: il mondo ebraico, che considera il più sicuro baluardo anti-musulmano. Il terrorista mostra un vero culto per lo Stato d’Israele e per le sue forze militari, cui corrisponde una viva avversione per il nazismo. «Se c’è una figura che odio – scrive – è Adolf Hitler [1889-1945»: e fantastica di viaggi nel tempo per andare nel passato e ucciderlo. È vero che s’iscrive a un forum Internet di neo-nazisti, ma lo fa per cercare di convincerli che, se alcune idee del führer sul primato etnico degli occidentali erano giuste, l’errore clamoroso è stato non capire che gli occidentali più puri e nobili sono gli ebrei, e che se avesse voluto sterminare qualcuno il nazismo avrebbe dovuto piuttosto andare a prendere i musulmani nel Medio Oriente. 

Un riferimento frequente è del resto all’inglese English Defence League – con cui sembra ci siano stati anche contatti diretti –, un movimento anti-islamico «di strada» che è regolarmente accusato di essere razzista e altrettanto regolarmente contesta questa accusa e critica il neo-nazismo. Breivik scrive che il multiculturalismo è una forma di razzismo e che «non si può combattere il razzismo con il razzismo». Il nazismo, il comunismo e l’islam sono per Breivik tre volti della stessa dottrina anti-occidentale, e tutti e tre andrebbero messi fuorilegge. Ma l’enfasi è sempre sulla lotta all’islam. Chiunque sia nemico, attuale o potenziale, dei musulmani diventa un possibile alleato: così gli atei militanti, piuttosto diffusi in Norvegia, che Breivik invita a combattere l’islam e non solo il cristianesimo; così gli omosessuali, cui fa presente che in un mondo dominato dai musulmani saranno perseguitati.

Non è sorprendente neppure il contatto con la Chiesa di Satana, che predica una forma di satanismo «razionalista» che inneggia al predominio dei forti sui deboli e alle virtù del capitalismo selvaggio secondo le teorie della scrittrice americana Ayn Rand (1905-1982), citata spesso anche dal terrorista, e che in Scandinavia se la prende volentieri con gli immigrati. Perfino i rom, secondo Breivik, sarebbero stati resi schiavi in India e ridotti alla loro attuale misera condizione non da popolazioni indù – come insegna la storiografia maggioritaria – ma da musulmani. Pertanto – un altro tratto che lo distingue da molta estrema destra europea – Breivik si mostra piuttosto favorevole ai rom, li incita a combattere l’islam e promette loro nella sua nuova Europa perfino uno Stato libero e indipendente.

Un tono «religioso» si può ritrovare semmai nelle sue ferventi difese degli ebrei e dello Stato d’Israele. Questo è un tema che emerge anche in qualche gruppo protestante fondamentalista – sulla base dell’idea che Israele sia uno Stato voluto da Dio in vista della fine del mondo – ma gli accenti di Breivik sono diversi. Anche se mancano riferimenti diretti, ricordano irresistibilmente l’ideologia anglo-israelita, nata nel secolo XIX in Gran Bretagna e molto diffusa in Scandinavia, specie negli ambienti massonici, secondo cui gli abitanti del Nord Europa sono anche loro «ebrei», discendenti delle tribù perdute d’Israle: il nome «danesi», per esempio, indicherebbe la tribù di Dan. Il movimento anglo-israelita si è scisso nel secolo XX in due tronconi. Quello maggioritario, talora violento e responsabile di attentati negli Stati Uniti, sostiene che gli europei del Nord sono oggi i soli «ebrei» autentici. Quelli che si fanno chiamare ebrei, in Israele e altrove, non sono tali etnicamente, giacché sarebbero in maggioranza khazari, membri di una tribù centro-asiatica convertita all’ebraismo nei secoli VIII e IX. Di qui un’avversione del «movimento dell’identità» di origini anglo-israelite contro Israele e i suoi legami con gruppi antisemiti e neo-nazisti.

Ma – se questo filone dell’anglo-israelismo domina negli Stati Uniti – nel Nord Europa è ancora presente un filone più antico, per cui gli ebrei così come oggi li conosciamo sono veri eredi della tribù di Giuda, in attesa di ricongiungersi con i fratelli anglosassoni e scandinavi delle tribù perdute. Chi mantiene questa visione considera dunque i nord-europei fratelli degli ebrei e, ben lungi dall’essere antisemita, difende in modo molto acceso l’ebraismo e lo Stato d’Israele.

Secondo il suo libro, il terrorista nel 2002 avrebbe fondato con altri a Londra un ordine neo-templare che si affianca ai tanti che già esistono, i Poveri Commilitoni di Cristo del Tempio di Salomone (PCCTS), ispirato non solo ai templari cattolici del Medioevo ma soprattutto ai gradi templari della massoneria – un’organizzazione di cui Breivik cui loda il «ruolo essenziale nella società», pur considerandola incapace di passare alla necessaria azione militare – e aperto a «cristiani, cristiani agnostici e atei cristiani», cioè a tutti coloro che riconoscono l’importanza delle radici culturali cristiane, «ma anche di quelle ebraiche e illuministe» nonché «nordiche e pagane», per opporsi ai veri nemici che sono l’islam e l’immigrazione.

Tra questi riferimenti eclettici, il cristianesimo non è dominante. Cita moltissimi autori, ma il suo padre spirituale è l’anonimo blogger norvegese anti-islamico «Fjordman», che nel 2005 aveva un milione di lettori ma che chiuse il suo blog senza essere mai identificato. Breivik ripubblica un suo scritto secondo cui dopo il Medioevo il cristianesimo – i cui unici aspetti positivi erano di origine pagana –  è diventato per l’Europa «una minaccia peggiore del marxismo».

I «giustizieri templari» di Breivik dovrebbero operare in tre fasi di «guerra civile europea». Nella prima (1999-2030) dovrebbero risvegliare la coscienza addormentata degli europei mediante «attacchi shock di cellule clandestine», scatenando «gruppi di individui che usano il terrore»: gruppi piccoli, anche di una o due persone. Nella seconda (2030-2070) si dovrebbe passare alla guerriglia armata e ai colpi di Stato. Nella terza (2070-2083), alla vera guerra contro gli immigrati musulmani. Breivik è consapevole che gli attacchi della prima fase trasformeranno coloro che li compiranno in terroristi odiati da tutti: ma questa è la forma di «martirio templare» cui si dice disposto.

Obiettivi degli «attacchi shock» sono i partiti politici: i laburisti norvegesi anzitutto, ma sono segnalati anche quattro partiti italiani (PDL, PD, IDV, UDC) che boicotterebbero in modo diverso la guerra all’islam e all’immigrazione. In Italia ci sarebbero sessantamila «traditori» da colpire, anche attraverso attacchi alle raffinerie per sconvolgere l’assetto energetico italiano. Sedici raffinerie italiane, da Trecate (Novara) a Milazzo, sono indicate come obiettivi strategici. Anche su Papa Benedetto XVI ci sono frasi minacciose. Sempre secondo il libro 2083, il numero di potenziali simpatizzanti italiani sarebbe pure di sessantamila: ma questi non si troverebbero né nella Lega né ne La Destra, che Breivik ha esaminato ritenendo le loro critiche anti-immigrazione troppo timide e dunque alla fine «controproducenti». Poiché ne sono uno dei Rappresentanti, mi inquieta anche la riproduzione di un articolo che indica l’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) come un organismo internazionale particolarmente filo-islamico e pericoloso.

La domanda forse più importante è se quando Breivik riferisce che il suo ordine di giustizieri templari conta membri in vari Paesi europei ed è in contatto con quelli che il mondo chiama «criminali di guerra» serbi seguaci di Radovan Karadzic, che per lui invece sono eroi che hanno cercato di liberare i Balcani dall’islam, sta scrivendo un romanzo nello stile dello svedese Stieg Larsson (1954-2004) o descrivendo una realtà. Altri particolari autobiografici del libro che sembravano improbabili – la presenza nella sua famiglia di diplomatici, la frequentazione da ragazzo di scuole di élite – sono stati confermati dalla polizia norvegese. La stessa polizia dovrà verificare se la nascita dell’ordine neo-templare, i contatti con i criminali di guerra serbi e un viaggio in Liberia per farsi addestrare da  uno di loro, «uno dei più grandi eroi europei», prima di fondare l’ordine con otto compagni a Londra nel 2002 sono frammenti dell’immaginazione di Breivik o episodi realmente accaduti. Quello che è certo è che un buon terzo del suo libro – un vero e proprio manuale del terrorista, corredato da un diario sulla preparazione dell’attentato – rivela dettagliate conoscenze in materia di armi, esplosivi, la nuova tecnica terroristica chiamata «open source warfare», che può essere messa in opera anche da gruppi piccolissimi, e l’abbigliamento antiproiettile – calzini compresi, dettaglio spesso trascurato e cui Breivik dedica parecchie pagine – difficili da ottenere, anche se Internet fa miracoli, da parte di qualcuno che non ha fatto neppure il servizio militare.

Breivik scrive sempre in tono paranoico. Ma – se vogliamo, come si dice, trovare un metodo nella sua follia – dobbiamo cercarne il filo conduttore principale in un populismo anti-islamico che finora aveva conosciuto raramente forme violente, e uno secondario in una solidarietà pressoché mistica fra l’identità nordica e quella ebraica e israeliana, che ha le sue radici in antiche teorie esoteriche e massoniche di cui Breivik è un cultore. L’unica cosa certa è che il cristianesimo – «fondamentalista» o no – c’entra ben poco, se non come uno fra i tanti improbabili alleati che il terrorista immaginava di reclutare per la sua battaglia violenta contro l’immigrazione islamica.

Fonte: Cesnur
25 LUGLIO
SAN GIACOMO
Apostolo

J. Radermakers, La bonne nouvelle de Jésus ..., pp. 209-271.
Il calice che io devo bere
La richiesta di Giacomo e Giovanni assume la forma di una rivendicazione a mala pena velata: «Maestro, noi vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiederemo» (Mc 10,36). Anch'essi hanno lasciato tutto per seguire Gesù; vogliono assicurarsi un posto privilegiato nel regno messianico, quando verrà nella sua gloria (Mc 8,38). Ma hanno sufficientemente riconosciuto il cammino di umiliazione e di sofferenza che vi conduce? Certo, chiedono un favore, ma questo favore è ancora percepito come un privilegio e non come un servizio. Gesù comincia ad approfondire la domanda che gli è rivolta, perché non abbiano dubbi che i posti a destra e a sinistra del crocifisso sono delle croci ove pendono dei ladroni (Mc 15,27). Sondando la loro disponibilità, li invita a condividere dapprima la realtà concreta della sua obbedienza al Padre, simbolizzata dalla coppa e dal battesimo. Nell'Antico Testamento la coppa può essere segno di benedizione (cf. Sal 16,5; 23,5; 116,13) ma essa rappresenta più frequentemente l'amarezza del castigo divino e la prova che purifica il peccatore (Sal 75,9; h 51,17-22; Ger 25,15-18; Ez 23,32-34). Nell'evangelo si intravede già la coppa eucaristica (Mc 14,24-25) e quella dell'agonia (Mc 14,36). Marco vi unisce il battesimo per sottolineare che il battesimo del Cristo, e quello del cristiano dopo di lui, è un impegno fino alla morte nel disegno salvatore di Dio. La risposta dei figli di Zebedeo non è presuntuosa; sanno che con il maestro e con la sua forza potranno condividere la sua sofferenza e la sua morte. La missione del Cristo si inscrive in questa condivisione; non dispone del regno in cui ciascuno incontra il Padre in modo unico e personale. Invece di paragonare e valutare i destini immaginando la gerarchia di posti nel regno, gli altri dieci apostoli sono invitati da Gesù a spogliarsi da ogni ambizione di tipo politico. Il mondo delle nazioni è caratterizzato dalla corsa al potere e dall'oppressione degli uni sugli altri. «Ma tra voi non è così» (Mc 10,43). Gesù esclude per i suoi questo modello di società, perché nella comunità dei discepoli ciascuno deve cercare di servire. Questa è l'opzione fondamentale cui impegna la sequela di Gesù. I valori sono di nuovo rovesciati (cf. Mc 9,34-35) poiché la situazione più invidiabile è di offrirsi al servizio di tutti, senza distinzione alcuna. Questo servizio è partecipazione alla missione del Figlio dell'uomo, che ne è il fondamento e la misura; impegnarsi a servire è rischiare la propria vita, accettare di perderla (cf. Mc 8,37) con il Cristo servo (cf.Is 53,11-12) che consegna la sua vita in riscatto per molti (cf. Mc 14,24). L'esistenza dell'uomo assume così il suo senso decisivo alla luce del destino di Gesù. L'insegnamento cominciato dopo il primo annuncio della passione raggiunge il suo punto culminante. La vita umana vale in quanto essa è integralmente assunta da colui che si chiama il Figlio dell'uomo, perché egli ne sposa tutta la realtà e le dona la forza dell'amore: vivere è accogliere, accogliere è unire, farsi piccoli, donare i propri beni e seguire, seguire è servire, e servire è amare con l'amore stesso di Dio.
Orazione O Dio onnipotente ed eterno, tu hai voluto che san Giacomo, primo fra gli apostoli, sacrificasse la sua vita per il Vangelo: per la sua gloriosa testimonianza conferma la tua Chiesa e sostienila sempre con la tua protezione. Per il nostro Signore.

Omnípotens sempitérne Deus, qui Apostolórum tuórum primítias beáti Iacóbi sánguine dedicásti, da, quaesumus, Ecclésiae tuae ipsíus confessióne firmári, et iúgiter patrocíniis confovéri. Per Dóminum.

ORÁTIO (1962)
Esto, Dómine, plebi tuæ sanctificátor et custos: ut, Apóstoli tui Jacóbi muníta præsídiis, et conversatióne tibi pláceat, et secúra mente desérviat. Per Dóminum nostrum.