mercoledì 29 aprile 2015

A MESSA NON SI “PARTECIPA”


Alla Messa non si “partecipa”. 

E non si deve “capire”.




ALLA MESSA NON SI “PARTECIPA”
E NON SI DEVE “CAPIRE”
Il silenzio e la solitudine intorno al Golgota intorno all’altare 

Quel vecchio che si sentiva “giovane” davanti al suo Dio. Il silenzio e la solitudine dell’altare. Il Mistero sacrificato alla “comunicazione”… finta. La “gente” non deve “capire”, ma adorare; la “gente” non deve “partecipare”, ma assistere.

Cristo in un attimo di dolore veramente umano, grida a squarciagola al suo Dio, al Padre, il baratro di sventura e solitudine in cui sprofonda inerte. La “solitudine”. La stessa solitudine che in quel momento sull’altare del Sacrificio Supremo, nuovo Golgota, dove davvero e di nuovo irrompe la Passione di Cristo, sperimenta il sacerdote, “Alter Christus”. Il sacerdote è solo sull’altare. E a questa solitudine si aggiunge l’ombra propria della solitudine: il “silenzio”. Sulla collina desolata del Golgota, e prima, nell’Orto, e dopo ancora, nel sepolcro, Cristo è solo e nel silenzio. Il silenzio della sua obbedienza, del calice dell’amarezza, del sudore sanguinolento. È il silenzio dell’impotenza, che per un attimo sembra persino di Dio. “Padre mio, perché mi hai abbandonato?”. Il “silenzio” di Dio, in quel frangente, sembra quasi l’inabissarsi della Divinità.
di  Antonio Margheriti Mastino

QUEL VECCHIO CHE SI SENTIVA GIOVANE DAVANTI AL SUO DIO
Salirò all’altare di Dio,
a Dio che allieta la mia giovinezza …
irraggia la tua luce e la tua verità,
esse mi guidino e mi conducano al tuo santo monte, 
e ai tuoi tabernacoli.
Ti loderò sulla mia cetra, o Dio, Dio mio;
Perchè sei triste, anima mia?
Perchè mi turbi?
E ancora: “Nello stesso modo, dopo aver cenato, prese anche questo glorioso calice nelle sue sante e venerabili mani… Questo è il Calice del mio Sangue, della nuova ed eterna alleanza: mistero di fede: che per voi e per molti sarà sparso…
Il canone antico è di una bellezza che ferisce anche tradotto in italiano, ti fa venire voglia davvero di salire tu sull’altare ad avere il privilegio di rivolgerti con queste parole sublimi ed eterne all’Onnipotente. Ripetere tu ciò che nei secoli hanno ripetuto tutti i santi sacerdoti, i martiri, i confessori, i mistici, i dottori della Chiesa, i pontefici salendo sull’altare del Sacrificio Supremo. Ripetere ciò che tutti i nostri avi hanno udito per secoli, confermandoli nella fede.
 E’ bello divagare, è umano. Adesso per esempio mi balenano davanti agli occhi due episodi. Uno antico e l’altro moderno; uno fa ridere e l’altro piangere, giusto per rispettare il copione della tv generalista. Si sa che la testa della medusa di tutte le eresie moderniste è quel fenomeno chiamato giansenismo, che cominciò velenosamente a fluttuare nella chiesa già dal Seicento. Quel che venne dopo ne furono soltanto i tentacoli pieni di tossine. I giansenisti una cosa l’avevano capita bene: colpire la liturgia significava aprire il vaso di pandora, cavare via la pietra angolare: tutto il Santo Edificio sarebbe venuto giù collassando fulmineo . Ebbene, nel ’700 l’eresia giansenista era entrata nel vivo e si tenne a proposito un “conciliabolo” di prelati infedeli a Pistoia, appunto il “Conciliabolo di Pistoia”. Che approvò motu proprio diverse riforme illecite, fra cui l’introduzione del volgare anche nella liturgia. Allora un prete filo-giansenista iniziò la sua prima messa in italiano (peraltro sbagliando la traduzione) così:
PRETE:”Mi introduco all’altare di Dio“.
FEDELE RISPONDE: (livornese e toscanaccio maledetto): “Oh te tu basta che ‘un t’introduci ‘a nel mi (c)ulo!!”.
Il popolo, quello vero, non quello “sociologico” di cui discettano con sufficienza i teologi modaioli, è sempre reazionario.
L’esempio moderno è meno mordace, ma più struggente. E riguarda la commozione di un giornalista che in piena sarabanda creativa post-conciliare, assiste per caso a una messa antica celebrata quasi clandestinamente da un vecchio e malato francescano. Ne rimase sconvolto: fu l’incontro col Mistero: ne fu convertito. Era il 1969, mentre molti, applauditi da un mondo allora avvelenato di ideologie, celebravano la loro apostasia, un uomo ritornava alla fede davanti alla celebrazione di una messa antica, che era diventata la cosa più bandita della storia della chiesa, dai suoi uomini stessi. Lasciamo a lui la parola, ad Antonello Cannarozzo, parole che mi hanno commosso:
<san Girolamo della Carità, qui a Roma, dove un anziano francescano, padre Coccia, davanti a pochissimi fedeli, celebrava l’antico rito. Rimasi subito colpito dall’atmosfera di mistico silenzio, di partecipazione dei presenti e dalla frase pronunciata dal vecchio sacerdote all’inizio della liturgia, “…et  introìbo ad altare Dei: ad Deum qui laetificat juventutem meam”. Quell’uomo stanco e malato per il mondo, davanti all’altare del suo Signore diventava giovane.
Un atto di fede enorme ed un significato metafisico che mi fece capovolgere in pochi minuti tutto il mio bagaglio mentale, le mie idee, le mie certezze e da quel momento, ogni domenica ed ogni festa religiosa, per quanto mi è stato possibile, sono stato presente alla liturgia di sempre nella ricerca, anche per me, oggi alla soglia dei sessant’anni, di essere sempre “giovane” davanti al Signore>>
IL SILENZIO E LA SOLITUDINE DELL’ALTARE
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Superata la commozione, torniamo a noi. Posso io ogni volta, davanti un bambino dell’asilo che si crede un gigante spirituale, e che discetta della “comprensione” (di tutto quanto ti passa sotto gli occhi nel Tempio) quale primo e unico definitivo dogma, infallibile e incancellabile come il peccato originale, tirare fuori la “barzelletta” di Sant’Agostino? Del bambino (che poi si scoprì essere un angelo) che sulla spiaggia cerca di mettere con una conchiglia nella buchetta che ha scavato nella sabbia l’immensità dell’acqua del mare? E che quindi, morale della favola, solo un pazzo e un cretino può credere che la sua piccola testolina di… rapa, può contenere da sola l’infinito, indicibile, incontenibile, eterno MISTERO? Mistero di Dio, Mistero di fede!
 Ci sono due aspetti in particolare che ci rendono il senso profondo della Messa di sempre: il silenzio e la solitudine. L’altare, prima e durante e dopo il Sacrificio, è avvolto dal silenzio. E dalla solitudine, del celebrante, “Alter Christus”. Ma come, si dirà, la Pasqua e dunque la celebrazione sono “anche un trionfo!”. Certo, sì. Ma è anche il perpetuarsi della passione e morte di Cristo. Che si svolgono nel silenzio, nella solitudine, nel tradimento, nel rinnegamento, nella fuga dei discepoli. Nell’ultima cena Cristo è tradito e venduto da Giuda; nell’Orto degli Ulivi, nella notte che precede il supplizio Cristo è lasciato solo a sudare sangue mentre i discepoli s’addormentano invece di pregare con lui; Pietro nella stessa notte lo rinnega tre volte; nessuno cerca di salvarlo, nessuno gli si offre a sorreggere per un po’ la sua croce (il Cireneo ne è costretto). Nessuno sembra più conoscerlo o riconoscerlo.
Cristo in un attimo di dolore veramente umano, grida a squarciagola al suo Dio, al Padre, il baratro di sventura e solitudine in cui sprofonda inerte. La solitudine. La stessa solitudine che in quel momento sull’altare del Sacrificio Supremo, nuovo Golgota, dove davvero e di nuovo irrompe la Passione di Cristo, sperimenta il sacerdote, “Alter Christus”. Il sacerdote è solo sull’altare. E a questa solitudine si aggiunge l’ombra propria di essa: il “silenzio”. Sulla collina desolata del Golgota, e prima, nell’Orto, e dopo ancora, nel sepolcro, Cristo è solo e nel silenzio. Il silenzio della sua obbedienza, del calice dell’amarezza, del sudore sanguinolento. È il silenzio dell’impotenza, che per un attimo sembra persino di Dio. “Padre mio, perché mi hai abbandonato?”. Il “silenzio” di Dio, in quel frangente, sembra quasi l’inabissarsi della Divinità. Ma è anche l’impotenza e la desolazione che deriva dal primo ed eterno “sì” in obbedienza di Maria, accettando questo Figlio che non era per lei: “Stabat Mater Dolorosa…”, sotto la croce. E’ quel silenzio tremendo che avverte sul letto di morte anche la piccola enorme Teresina di Lisieux, quando si lamenta, in quel momento estremo dell’agonia, della “non presenza di Dio”.
 Silenzio. Come stettero zitti i discepoli, Maria, chi volle bene al Cristo uomo e già Messia, tutti quanti: tacquero, si nascosero, impotenti per obbedienza e per viltà, persino impietriti dal dolore e dalla confusione, o perché in definitiva così “dovevano” andare le cose… tutti stettero in silenzio. ASSISTETTERO SOLTANTO, alla passione e morte del figlio di Dio. La stessa ragione per cui alla messa del Sacrificio, i fedeli NON DEVONO PARTECIPARE, MA ASSISTERE. In silenzio. Il silenzio che ammanta il sacerdote mentre compie il Sacrificio di Cristo. E di se stesso.
Ma allora la Resurrezione? E’ un trionfo. Ma è un trionfo vissuto nel nascondimento, da un Dio senza arroganza. Avviene ancora una volta nel silenzio e nella solitudine. Dentro un sepolcro di pietre, di notte, assenti tutti, tranne i soldati chiamati a vegliare l’esterno dell’avello. Alla stessa maniera, nel silenzioso, quasi segreto e oscuro, formulare del sacerdote “Alter Christus” sull’altare del Sacrificio, avverrà la Resurrezione. Nel silenzio e nella solitudine.
Ecco spiegato il perché e il come si sta, si assiste al Santo Sacrificio della Messa. La Messa di sempre. Lontana dal clamore e dal chiasso, dalla frenesia e dalle sindromi di protagonismo, dai microfoni mal regolati gracchianti e stordenti, dal profluvio di fraseologia frigida e dai battimani della Messa riformata in stile anni ’70, gli anni più stancamente declamatori, populistici, inutili mai vissuti sulla faccia della terra.
IL MISTERO SACRIFICATO ALLA COMUNICAZIONE. FINTA.

Talora dove è stata celebrata la Messa gregoriana per la prima volta, ho avuto nettissima l’impressione che i molti presenti, fra curiosi e interessati, si siano accostati a questo culto divino, altamente spirituale, drammatico, con lo stesso animo con cui si accostavano alla maggiore liberalità (e pure licenza) della Messa riformata. Non ci si può assistere alla Messa gregoriana come si assiste a quella riformata. E’ successo in qualche prima Messa antica in qualche provincia del Sud.
Io sinceramente mi sono scandalizzato. Ho visto roba che mai e poi mai, nemmeno per un secondo, ho osservata a Roma durante le Messe gregoriane. Ma solo nelle messe ordinarie. Sbadigli no, ma parlucchiare in continuo anche durante i momenti salienti del rito, questo sì, anche al cellulare; ma è il meno peggio. Infatti una cosa regolarmente registrata nella messa ordinaria, ma mai a Roma in quella antica: gente, uomini specialmente, che non risponde alle preghiere liturgiche le volte (poche, nella Messa antica) che è richiesto, figurarsi se si batte il petto al “Confiteor”; che non si inginocchia mai (è previsto molteplici volte nel rito antico), manco a spezzargli le gambe, nemmeno durante la consacrazione. Mentre alla Trinità a Roma (chiesa dei cattolici che celebrano solo in rito antico) ho visto con i miei occhi gente inginocchiata ovunque, tutti nessuno escluso, anche sul pavimento per chi non aveva il banco, almeno durante la consacrazione; qualcuno si è spinto fino all’eccesso di osare prostrarsi con la fronte a terra, senza che nessuno, del resto, trovasse ridicola la cosa.
Due cose sono certe. La prima cosa che si è smarrita nel più dei casi, negli ultimi tempi, è proprio l’educazione al Culto Divino. E all’Essenziale. A forza di annacquare l’ufficio sacro e lo stesso messaggio cristiano, si è annegato il senso del sacro, del divino, del Mistero nella liturgia. Tutto è stanchezza e sbadiglio, ogni cosa scontata. Si è sacrificato il “significato” alla “comunicazione”; il simbolo evocativo ed esoterico al gesto amicale e sdrammatizzante; l’insondabile al “comprensibile”. Insomma si è umanizzato tutto, come se il culto fosse diretto agli uomini e non ascendente verso Dio solo.
Il “comprensibile”. Ma la stessa maestà di Dio è solo in minima parte svelata e “comprensibile”: volendo “capire” tutto, non si capisce più niente, ed è così che si sminuisce e stempera all’orizzonte la divinità, il cui mistero, ci spiegava Agostino, mai per intero la nostra mente avrà tanta capienza per accoglierlo totalmente.
La stessa Messa del Sacrificio supremo è diventata la messa della parola, degli sproloqui “sociali”, quando non proprio socialisti, dal pulpito: prova ne sia il fatto che spesso, nella Messa riformata, le omelie durano anche 35 minuti, la consacrazione anche solo 2 minuti. Si è smarrito il senso delle cose importanti, non si conosce più cosa è al centro e cosa accanto o sotto; si sono rovesciate anzi le posizioni. Nella Messa antica, il centro era e resta il Sacrificio. L’omelia può esserci o no, e se c’è dura 5 minuti, e non va oltre le Scritture del giorno.
L’altra cosa chiara, è che occorre davvero ricominciare anche con gli ottantenni il catechismo da capo, dalla prima elementare, ma quello vero, duro, scandaloso, che spacca le pietre e gli uomini. Bisogna ricapitolare tutto, reinsegnare tutto, perché tutto è andato smarrito nella nostra memoria di cattolici romani. A volte crediamo che siano la Chiesa, la dottrina, il deposito della Fede ad essere mutati. E non ci accorgiamo invece che qualcuno ha fatto un foro nel nostro cranio da cui son colati via secoli di sapienza cristiana. E siamo noi che non riconosciamo più Cristo nel culto, che abbiamo dimenticato chi era, cosa ha detto veramente, cosa è la Messa. Con questo abbiamo scordato pure chi siamo e chi erano i nostri padri, e cosa per due millenni ha legato una generazione all’altra: la Pietà.
Nella Messa come Sacrificio restiamo legati alla memoria della preghiera di chi ci ha preceduti nella vita terrena, di coloro che per secoli hanno adorato Dio in quel solo modo; abbiamo perduto anche la memoria dei santi e dei martiri, che si sono santificati in essa e per essa si sono sacrificati. La comunione dei santi. Abbiamo smarrito l’idea di Messa come irruzione del Divino ora e subito sull’altare. Abbiamo scordato il Dio potente, eterno e quotidiano. Occorre ricatechizzare. Quando di nuovo qualcuno risulterà scandalizzato dal messaggio di frattura di Cristo, allora vorrà dire che il seme è stato un’altra volta gettato nella terra. Presto darà frutto. Riempendo di germogli intere distese aride come la morte del culto nel cuore dell’uomo.
 Che a dirla tutta, qua il problema non è manco più la liturgia antica e la liturgia nuova, perché ormai è un dato che la liturgia nuova, come corpo omogeneo, non esiste più. Semmai ci sono tantissime liturgie, a secondo della nazione, della regione, della sensibilità del vescovo, dell’ideologia del parroco, dall’ignoranza tirannica dei gruppi laicali sindacalizzati, a secondo dell’umore, del tempo, del telegiornale del giorno, dell’età dei presenti, a secondo di tutto meno che di Dio. E talora si ha l’impressione che, per liturgia “riformata”, molti intendano quel termine proprio nel senso di riforma luterana. Qui c’è la liturgia di sempre, quella gregoriana, contro il tutto e il nulla, contro l’arcipelago creativo semper reformandum est, dove la liturgia oltre ad essere sempre in fieri è anche l’ultimo pensiero del clero socialmente utile.
 LA GENTE NON DEVE CAPIRE, MA ADORARE
LA GENTE NON DEVE PARTECIPARE, MA ASSISTERE

Dopo una prima Messa gregoriana, un signore piuttosto informato, di sicuro tradizionalista, comizia a un gruppo di fedeli un po’ smarriti: spiega loro cose che dovrebbero essere normali da almeno 1.300 anni, ma che dalle facce inebetite dalla novità della scoperta dell’acqua calda, ti rendi conto non lo sono più. Questo rigoroso cattolico è preciso, spiega ineccepibilmente e con passione e mimica tutta meridionale l’evento Sacrificio della Messa. Soprattutto, si sofferma sulla figura del sacerdote rivolto di spalle, quale Alter Christus. “Il sacedote è rivolto di spalle ai fedeli, perché pone il cuore e l’attenzione ad Oriente, verso Dio. Ha quasi quasi il compito, quale mediator Dei, di introdurre, guidandolo, il popolo alle sue spalle verso la Divinità… Sia mai si pensasse che il sacerdote si deve rivolgere al popolo durante la messa come fosse il destinatario delle formule… come di fatto sembra avvenire nella messa nuova”. A quel punto interviene un suo interlocutore, con la barba e l’aria un po’ sofferta da insegnante ulivista, che non lo contraddice, ma introduce un concetto pericoloso, che nasce più dall’ignoranza che non da influenze protestanti. Dice: “Ma se vogliamo il prete e il popolo sono un tutt’uno, sono un unico popolo di Dio che condivide e concelebra il culto… c’è come un sacerdozio di tutto il popolo di Dio”. Lo dice inconsapevolmente, ed eccettuata la logica del sacerdozio d’ogni cattolico col battesimo (che nulla ha a che fare con la Messa del Sacrificio), introduce concetti che prima ancora d’essere protestanti e luterani, demoliscono e rendono inutile, uno spreco, la figura del sacerdote consacrato.
Due anziane signore: “La messa in latino [sic!] è bella, ma io non scambierei la messa in italiano con niente. La gente deve capire quello che si dice, e qui io non capisco. Io non ci ritornerò più a questa messa!”. Volevo domandare cosa veramente capiscono della formulazione italianissima della messa anni ’70. Se veramente capiscono quella asettica talora sospetta fraseologia che nasce non da secoli di sapienza cristiana, ma dalle nebbie delle menti di teologi luterani senza più speranza cristiana, e come dimostreranno di lì a poco con veri dubbi di fede.
La “gente deve capire”, dice. No, la gente non deve “capire” una mazza durante la Messa. La gente deve stare zitta e ferma. La gente non deve “partecipare” o addirittura “concelebrare”. La gente in chiesa non è “gente” ma fedeli! E questi fedeli devono solo ASSISTERE. E assistendo muti, devono solo adorare. E’ la ragione per cui, nella Messa antica, era consentito al fedele, nelle parti orali del rito che spettano solo all’Alter Christus, di recitare silenziosamente il rosario. Zitto, il fedele ASSISTE: anzitutto perché le formule di consacrazione che il sacerdote recita, “submissa voce”, sono scambiate solo fra il Mediator Dei, che solo si carica il peso del popolo fedele (ecco anche uno dei significati del manipolo) e Dio, anzi fra l’Alter Christus e Dio. Solo, il sacerdote solo, perché solo Gesù parla e istituisce l’eucarestia nell’ultima cena. Solo vive il terrore, la passione, la morte e la resurrezione. Solo, perché solo a ciascuno dei discepoli, singolarmente, concede dopo la sua morte che vince la morte, d’essere Alter Christus, davanti l’altare di ogni ultima mistica cena e di immolazione.
Capire”, mi si dice. Non si può capire, non si deve osare capire. Il cuore soltanto deve comprendere essendo in quei momenti rivolto a Dio, “coram Deo”. O comunque vi si deve partecipare (visto che insistete!) con tutti e cinque i sensi, non solo con il cervello. Chi assiste al Sacrificio Supremo non deve “capire”, deve anzi restare ammutolito e fermo, ASSISTERE inerte, sbigottito, col tumulto nel cuore. Deve credere e adorare. Si ASSISTE soltanto: perché neppure alle ore di passione di Cristo, alcuno “partecipò”; neanche davanti al Golgota in diretta, allora, nessuno del tutto capì; neppure trascorsi gli eventi ancora “capirono” e anzi la loro fede vacillò di più. Il terrore prese lo stesso posto della “comprensione”. Neppure Pietro capì di cosa sino ad allora si era parlato, cosa veramente Cristo aveva detto. Nessuno capì, popolo di peccatori, umanità decadente senza cognizione della propria redenzione.
E infatti, fu, quella, notte oscura di tradimenti, di silenzi assordanti, di solitudine, di sudore di sangue, di indifferenza, di fughe, di viltà, di rinnegamento, di peccato e di pentimento, di suicidi. Di impotenza e di oscurità. Di solitudine. Nessuno stette al suo posto, nessuno si fece avanti, nessuno capì davvero. Tommaso volle metterci anche dopo il dito, perché non aveva capito manco lui. Tutti, i discepoli in primis, e Giovanni e Maria e gli amici di Gesù, chi insomma gli era vicino, nessuno “partecipò”; ognuno invece “assistette”. Inerte, muto, impotente. ASSISTONO. Non “capiscono”, non completamente almeno.
Il Sacrificio stesso fu sì fatto da altri, dagli infedeli, ma paradossalmente sembrò (e così era) che Cristo stesso se ne incaricasse, e difatti egli stesso lo annuncia: quasi un consapevole auto-sacrificio. Sì, perché Egli accetta consapevolmente, va incontro da solo alla volontà del Padre sapendo qual è. Si carica da solo, sulla viva carne, il peso di una umanità ancora irredenta, del “popolo”, che fin lì non ha “capito”: ha visto e non ha “capito”. Come non potranno “capire” (mai!) veramente il Sacrificio della Messa. È lo stesso motivo della solitudine e del silenzio (submissa voce) del sacerdote sull’altare, dell’Alter Christus che sacrifica se stesso nell’eucarestia. E’ la ragione del Mediator Dei che nella messa di sempre da solo e silenziosamente, si rivolge al Padre, assumendosi da solo il peso del popolo di Dio, che non potrà aiutarlo in alcun modo. Assisteranno soltanto i fedeli, come i discepoli assistettero senza partecipare, alla passione. Col manipolo l’Alter Christus asciugherà il sudore di sangue della lacerante fatica della sequela di Cristo, d’essere Lui fino alla morte e alla morte di croce, sino alla resurrezione silenziosa e segreta, discreta come il Dio dei cristiani, il nostro silenzioso Dio. Tutto è Mistero. Tutto è Grazia.
Per tutte queste cose i fedeli non devono “capire” né “partecipare”. Avranno invece l’obbligo solo di assistere, stando in silenzio, coram Deo, adoranti, impotenti. Salvi! Ma occorre si affidino cuore e intelletto, tutti, al Mediator Dei, all’Alter Christus. Non tentino di “capire”: non capirebbero comunque. In ognuno di noi c’è sempre un po’ di Giuda il traditore, del Pietro rinnegatore che non aveva capito niente, del Tommaso che non crede se non vede anche se ha assistito al compiersi della profezia. In tutto questo la Messa di sempre è altamente istruttiva, profondamente spirituale, immensamente fedele allo svolgersi dei fatti nei dintorni del Golgota. Perché è principalmente Sacrificio. Qualità che la declamatoria e chiassosa, logorroica e “svelata” messa anni ’70 non ha più. E anzi, devia il fedele più che indirizzarlo rettamente.

martedì 28 aprile 2015

Prima dov’era, a bagasce?

La Chiesa plastilina. O della mistica del “dialogo” come armistizio tra bene e male


Un disordine autoritario, dove tutto è concesso meno che essere “integralisti”, l’unico peccato rimasto, il solo peccato originale possibile. Tutto si può pensare, dire e fare, meno che cose da “integralisti”. Visti come agenti di disturbo della clericale concordia conviviale, del rilassamento morale universale, del patto scellerato tra chiesa e mondo, dell’“unità” come armistizio tra bene e male sul cui altare unto d’ipocrisia tutto è sacrificato. È l’appiattimento che si vuole, la piallatura intellettuale, il conformismo più tetragono sotto parvenze festaiole e sentimentali. Lo si vuole e lo si impone con la violenza dissimulata, sul popolo cattolico non ancora allineato, e perciò sospetto di “integralismo”. Ossia di anticonformismo.

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1001458_10200579178534774_422173223_ndi Antonio Margheriti Mastino

Io sono un osservatore attento, mi interessano i tipi umani. Li osservo con spirito laicissimo anche dentro le chiese, ché benché io sia cattolico convinto, nulla ho di clericale, niente di bigotto, rinunciando alla mia militanza a sinistra e progressista ho rinunciato pure al clericalismo. Per cui non ho remore a descrivere le cose per come laicamente mi appaiono. E quasi sempre sono.
Ecco.

Il “dialogo” è la minaccia che precede l’aggressione

Osservo con attenzione un tipo umano che conosco bene: il cattolico “dialogante”, sorridente, conviviale, buono e buonista, carico di dichiarazioni ecumeniche, pacifico in tutto. Apparentemente. Lo conosco bene perché da quell’ambiente provengo quantunque nulla di pacifico, lì pure, io avessi: sono sangue bollente. In ogni contesto. Questi tipi qui non basta osservarli, occorre anche ascoltarli, e poi fare comparazione. E porsi delle domande, anzi no: trarne le somme.
Dialoganti davvero, visto che citano la parola “dialogo” più di quella “Gesù”?
Sì, ma fino a un certo punto: tu prova a contraddirli nelle loro certezze, presentate come “sensibilità” personali, “secondo me” elevati al rango di ecclesiologia, prova a contraddirli e vedi come viene fuori la loro forza. Prova a questi qui a dare un posto di comando dentro i luoghi clericali, e vedi come questa forza trasmuta in brutalità: il loro tollerantismo ostentato si trasforma in dispotismo dissimulato, sino a sfociare nella vera repressione violenta. Di ogni variante al loro pensiero unico. E meno di tutti tollerano l’eccesso di zelo devoto, ammettono, anzi perorano il clericalismo, la divinizzazione di esseri umani appartenenti al clero, ma non accettano il prostrarsi disarmato dinanzi a ciò che Divino è davvero.
Ma allora che razza di pacifismo, di tolleranza è  la loro? In cosa consiste la “pace” che predicano?
Ve lo spiego, pescando dai miei ricordi liberal.
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Sindrome di Peter Pan clericale

È la pace della morte. Della morte delle passioni. Della narcolessia ontologica del cattolico. Cedimento nella reattività del cattolico medio agli stimoli esterni: è anzi un riflesso condizionato interno alla Chiesa, che promana dal pensiero unico dominante esterno, e spinge il cattolico a ripiegare nell’intimismo i contenuti forti della sua fede, senza più manifestarli pubblicamente, men che meno difenderli, non in società. Nemmeno in chiesa, infine. Scinde la vita dalla religione, il pensiero dalla fede.
L’unica cosa socialmente ammissibile, come manifestazione esterna, è l’aspetto conviviale, giovanilistico, schitarrante, tutto sommato – agli occhi del mondo – inoffensivo appunto perché patetico, nella sua “apertura allo stile” del mondo, che si riduce in una grottesca e, qui pure, anacronistica, farsa della mondanità. Serve a tenere dentro… più che dentro la Chiesa… dentro le sacrestie quelli che già ci stanno, quelli con il complesso dei “papaboys” anche a 40 anni suonati, che all’incirca, laicamente, dovrebbe corrispondere alla sindrome di Peter Pan.
Naturale che un simile atteggiamento clericale, non incameri “nuovi ingressi” dentro gli oratori, e per mascherare il loro fallimento, cercano di mimetizzarsi andando loro “altrove” e confondendosi con la folla amorfa. A confermarla… nei suoi usi e costumi, a infastidirla dicendo che “pure Gesù e la nuova Chiesa” benedicono le loro sodomie, i loro aborti, le fornicazioni, la promiscuità, ogni sorta di corruttela. Tanto c’è la misericordia. E man mano, invece che far entrare altri in chiesa, ad uno ad uno ne escono loro pure. Ci restano se riescono a farne il loro centro sociale.

Dal cristiano anonimo, alla Chiesa plastilina

Questo intendono per “dialogo”, “pacifismo”: un cattolico medio e anonimo, che dell’omissione fa la sua missione, che supinamente accetta tutti i diktat del mondo e le etiche civili mutevoli, puntualmente adeguandovisi. E dove di fatto tutto il sistema etico e dottrinale della Chiesa, pur riconosciuto, come pura teoria, legittimo, nella pratica è considerato inapplicabile al contesto quotidiano e fuori dalla realtà, e dopo un processo sommario di luoghi comuni, è condannato da subito ad essere inincidente nella vita del fedele.
A questa morte sociale e civile del cristiano, ci si riferisce subliminalmente. Nell’attesa della svolta tanto agognata, sulla scia dei pur falliti protestantesimi europei: il dissolversi nella religione civile. Pur nell’illusione di preservare l’una e l’altra cosa, cristianesimo e secolarizzazione, reputate non solo affini, ma sviluppo logico e coerente ciascuna dell’altra. Non è la Chiesa che informa il mondo, ma il mondo che modella la Chiesa, a secondo delle sue esigenze. Più che di cristianesimo anonimo qui bisognerebbe parlare di cristianesimo plastilina: è l’antica tentazione di far modellare la religione dalle mani della casta al potere. È un riflesso condizionato, se vogliamo, dei trascorsi imperiali dell’Europa, dove il cattolicesimo sussisteva e mutuava la sua forza non dal suo essere testimone di Cristo, ma religione dell’imperatore “cattolicissimo”… “cristianissimo”. Con i risultati finali di dissoluzione che sappiamo, al venir meno degli imperatori.

Evirare il cristianesimo. Decapitare gli “integralisti”

Ecco, questa sindrome tutta politica, dovuta a certe cattive seppur necessarie (in quel frangente storico) abitudini della Chiesa europea, ossia la “cristianità” al posto del cristianesimo, oggi sopravvivono trasmutate non nei cosiddetti “integristi” – sovente accusati di essere nostalgici della vecchia potenza sociale della Chiesa e della sua alleanza col potere civile –  ma proprio nei loro accusatori numero uno: i progressisti, i liberal, i clericali che man mano si presentano come pacifisti, dialoganti, democratici, propagatori di un cattolicesimo (che mai chiamano così, parlano genericamente di “cristianesimo”) di un cattolicesimo morbido, smussato, con le unghie tagliate, soft,  moraleggiante, dolciastro ed edulcorato in tutto, sottomesso alla sfera civile soprattutto, possibilmente reticente e quando apre bocca è per rimarcare le parole d’ordine delle aleatorie etiche civili, reputate assolutamente adattabili alla Chiesa, e alle quali comunque adattarsi “riformandosi” di continuo. Questo cattolicesimo qui intendono. In una parola: accomodante. E’ un cristianesimo evirato: per non avere noie, che non sconvolge esistenze. E dove man mano si perde memoria di ciò che si era, si è, si dovrebbe essere. Per rimanere cristiani. “Scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani”.
È la morte della religione che propugnano, talora in buona fede. Accontentandosi, paradossalmente, di un’ecclesiologia inconcludente e querula, parolaia e superficiale, perché la Chiesa vogliono tenersela, ma come chiesa plastilina, appunto. Dove la stessa fede non è un fatto determinante, e se c’è non può che essere in un autoassolutorio dio indistinto, diffuso, né maschio né femmina, né carne né pesce, che si limita solo ad assecondare senza intervenire il percorso di vita scelto da ciascuno, ratificandolo, perché tutto in sé è “buono” e “meritevole” di benedizione divina se solo “a me va bene”. E’ quella che, in altri termini, Ratzinger chiamava la “dittatura delle voglie”. E noi la “religione fai da te” che dall’interno delle facoltà teologiche, delle chiese, delle sacrestie propalano come dottrina del “nuovo corso” che starebbe inaugurandosi.
Un disordine autoritario, dove tutto è concesso meno che essere “integralisti”, l’unico peccato rimasto, il solo peccato originale possibile. Tutto si può pensare, dire e fare, meno che cose da “integralisti”. Visti come agenti di disturbo della clericale concordia conviviale, del rilassamento morale universale, del patto scellerato tra chiesa e mondo, della mistica dell“unità” come armistizio tra bene e male sul cui altare unto d’ipocrisia tutto è sacrificato. È l’appiattimento che si vuole, la piallatura intellettuale, il conformismo più tetragono sotto parvenze festaiole e sentimentali,. Lo si vuole e lo si impone con la violenza dissimulata, sul popolo cattolico non ancora allineato, sospetto di “integralismo”. Ossia di anticonformismo.

L’ossessione dei numeri

La grande giustificante di massa a tutto questo, a questo uscire “fuori” per andare “tra la gente” che in genere si riduce a un uscire fuori dalla Chiesa e basta, è la questione dei numeri.
È la grande ossessione clericale delle chiese “vuote” – e rendono la pariglia agli ecologisti con l’ossessione del mondo “troppo pieno”, per cui si pensa a strategie per spopolarlo di umani e ripopolarlo di animali in via d’estinzione – l’ossessione, dicevo, delle chiese o semi-vuote o semi-piene. Questa smania smodata di riempire di presenze, giacché è la presenza che ormai conta, non la qualità e il senso della presenza. Come, appunto, per il pubblico di un qualsiasi cabaret: conta si vendano tutti i biglietti. Onde tutto bisogna sacrificare al “tutto esaurito”. Spesso riuscendoci.
In cosa consista infine questo “tutto esaurito” l’abbiamo sotto gli occhi. Ma la chiesa piena, piena di chiesaiuoli non vuol dir proprio nulla: spesso è un sacrilegio la loro stessa presenza. Se appena usciti, come un politico “cattolico” qualsiasi, si mettono a capofila di abortisti, omosessualisti, se divorziano, si risposano, affittano uteri, pretendono l’eutanasia. Se non rendono la loro casa una chiesa domestica, la loro vita degna di dirsi cristiana. Se non sono coerenti. Ma al massimo bigotti, clericali, e, va da sé, terminali del politicamente corretto ecclesialese. Il solo “numero” spesso nient’altro è che una bestemmia centuplicata che dal basso sale verso l’alto e sfida Dio.

Il disastro dei corsi di teologia ridotti a ufficio di collocamento

L’ossessione dei numeri, dunque.
Proprio l’altro giorno, un ragazzo, un bravo ragazzo in fondo (credo, almeno), mosso sicuramente dalle migliori intenzioni, e che glielo leggi in faccia che è un soggetto da sacrestie,  a commento di un post su una monaca che canta, così scrive:
«Assolutamente in disaccordo con questo articolo di stampo farisaico; la Chiesa ha bisogno di rinnovarsi, non può restare ingessata dietro schemi preconciliari che incitano i lontani a scappare completamente!! Bisogna muoversi e adottare nuove strategie di evangelizzazione. Non deve essere la gente ad andare in chiesa ma la chiesa ad andare tra la gente!!! Stare chiusi nelle mura dei conventi e delle parrocchie non serve a niente e a nessuno… Gesù Cristo non sa che farsene dei fondamentalisti !! BRAVA SUOR CRISTINA, lo Spirito Santo ti guida».
Le sentiamo spesso questo cose. Nulla da aggiungere, a prescindere da questo caso, che è solo un pretesto per parlare in generale, è il disastro degli scadentissimi corsi diocesani di teologia, che sfornano piccoli Rahner dei poveri, all’amatriciana della trattoria accanto.  Specie al Sud, specialmente in Sicilia, questi corsi di cattiva (ma per dire proprio sgrammaticata) teologia altro non sono che un rimedio alla disoccupazione giovanile, dove qualche cortigiano di preti e vescovi del luogo, gira gira, lecca lecca, trova finalmente il posto fisso. Senza badare a spese e qualità, alla formazione. Nemmeno se veramente aderiscono alla religione cattolica, prima di far finta di insegnarla. E quasi mai vi aderiscono, aderiscono ad astrattismi, intellettualismi, formulette da manuale mandate a memoria in questi corsi qui, ma senza davvero metabolizzarli, senza profondità e capacità di decodificare quell’universo simbolico, raccordandolo con gli altri elementi gnoseologici che tutti insieme concorrono a formare un concetto complesso ma esemplificatore, logicamente fondato.
Sì, perché questo ragazzo qui che in termini tanto poveri concettualmente, e disarmanti teologicamente, per chi un minimo conosca almeno la sintassi ecclesiologica, così prosegue: «Ho solo esposto un parere, se permette posso benissimo farlo, visto e considerato che sono un docente e che mi sto specializzando in Ecclesiologia, (quindi qualcosa ne saprò non trova?)».
Non trovo per niente, in effetti. Suor Cristina… il preconcilio… l’ecclesiologia… i numeri… la chiesa che esce fuori da se stessa: madonnasanta che confusione! A lanciare slogan dalle logge di San Pietro è rischioso: rischi che la gente si fermi a quelli. Fraintendendo tutto il resto. È la logica che gli manca, purtroppo, mancando la conoscenza degli elementi fondamentali su un argomento, gli strumenti per connettere tra loro fenomeni culturali eterogenei. Ma come si può far teologia (un problema che parecchi oggi stanno ponendosi) con ragazzi che spesso vengono fuori da istituti tecnici? Che passano dal commerciale a manuali di teologia, essendo privi di ogni formazione classica, umanistica. filosofica: la logica gli manca, che impari sugli autori dell’Antica Grecia.
A questo bravo ragazzo dalle idee arruffate spiego alcune cose, a commento delle sue sconsiderate dichiarazioni che debbono essergli sembrate un conato di scienza, essendo che la teologia, che pure era il vertice e la summa dei saperi, perché tutte le altre scienze speculative in sé contemplava, oggi è decaduta a opinionismo dozzinale, a mistica del luogo comune, a “secondo me” da rotocalchi popolari; pure i giornalisti, da tempo, fanno teologia caciarona sui media.

“La Chiesa deve andare tra la gente”. Prima dov’era, a bagasce?

A costui, dunque, contesto quel modaiolo “non è la gente che deve andare in chiesa ma la chiesa che deve andare tra la gente”. Queste sono le cose tipiche che dicono i progressisti spoltronati in cattedra da anni, nelle loro torri d’avorio teologiche decadute a fortezza della loro baronia, a postribolo per i loro pruriti narcisistici: gente che da anni si rimira alla specchio, parla al suo stesso riflesso e s’applaude. “Deve andare tra la gente”. Come se la Chiesa se ne fosse mai andata dai luoghi dove la gente sta, come se per secoli la salute, l’istruzione, il conforto, il vitto, l’ospitalità alla “gggente” non li abbia forniti sempre (e solo, talora) la Chiesa, recandosi sotto ogni latitudine e longitudine del globo terraqueo. E in Italia supplendo alle carenze assistenziali dello Stato.
Ma no, figurati se siano mai premurati di studiare la storia della Chiesa quelli con la puzzetta sotto il naso, che si guardano intorno nei templi di Dio e ne provano ribrezzo. Ed è così che dalla cattedra di para-teologia del giorno dopo, dicono come e dove la chiesa “deve andare”. E dopo averle dato, nel loro giovanilismo arruffone, della “vecchia decrepita” e aver  licenziato in blocco come “non adeguato ai tempi” tutto ciò che la Chiesa è ed è sempre stata,  dopo aver bollato tutti quanti quelli che la pensano diversamente (e che magari “tra la gente” ci stanno da un pezzo) come “integralisti”, tirano fuori la parola totem solita: “dialogo”.

“Fuori le suore dai conventi!”

Ma a patto che a parlare siano solo loro. Ma tutto questo non è affatto indice di “dialogo”, qualunque cosa voglia dire. Il sottofondo del discorso che fanno mira altrove, anche se non osano ammetterlo apertamente… e magari sono in buonafede: si inizia a rimarcare l’aspetto conviviale dell’essere “dentro” la Chiesa, si pone come meta fittizia quella dialogica, si perora un “fuori tutti” dall’edificio sacro, si arriva a dire che “non serve a niente” che ci siano delle suore “chiuse dentro quattro mura”, ossia nei conventi, e dunque “non serve a niente pregare” (ché questa è la funzione principale della vita religiosa, qui sta anche il suo aspetto sacrificale, di olocausto personale innalzato a Dio per la salute spirituale dell’uomo e in riparazione dei peccati collettivi), quindi “fuori tutti” anche dai conventi, andando “incontro alla gggente”.
Ma a fare che di preciso? Convivio, “agape”, e altri cazzeggi para-ellenici (va per la maggiore, tra i progressisti, il greco caricaturale in sfregio al latino, lingua ufficiale della Chiesa). Intrattenimento. Sentimentalismo. Animazione. Tante cose si possono fare andando “verso la gente”, fuori da conventi e chiese. Tutto meno che evangelizzare, va da sé. Tutto meno che riportarle in chiesa, quelle figure ormai mitologiche dei “lontani”. Ossia di tanti che dall’alto in basso, secolarizzati da un orgoglio bestiale, giudicano la Chiesa non all’altezza delle proprie consuetudini, etica, moralità, convinzioni, pur in assenza di ogni etica, e moralità che  non sia quella degli edonisti e dei satrapi. Alle anime dovrebbero pensare, non all’animazione.

L’importante è esserci, non convertirsi. La Chiesa-intrattenimento

Tutti quanti… l’importante è esserci tutti, essere tanti.
Ma mica è obbligatorio andarci in chiesa, mica conta il numero, mica è necessario trabocchi di gente la messa: è nell’interesse di ciascuno salvarsi… Che poi la Chiesa al pari dei partiti ormai sia ossessionata dai numeri, dalla quantità, dalle statistiche è altro discorso, e semmai è un ulteriore dato di mondanità spirituale. Ma Cristo non ha mai parlato di numeri, e non ha mai promesso un rapporto sereno col mondo. La Chiesa deve contestare il mondo e il suo spirito. Il destino della vera Chiesa sarà sempre infine il martirio. Dopo aver traversato infiniti deserti di solitudine, costellati di scorpioni. Così vorrei non fosse, ma così è perché così ha promesso il Messia. Essendo non in questo mondo la nostra “ricompensa”. E quando qualcuno cerca la ricompensa qui, dice Gesù, e l’ottiene, non se ne aspetti un’altra altrove.
Questo ho detto al nostro ragazzo. E così ho concluso:
«Quindi, per piacere, non mi venga a fare quello che da altezze incommensurabili, pur con pochi decenni di vita sulle spalle, d’improvviso arriva e urbi et orbi dichiara “la chiesa deve andare dalla gente” come se poco prima andava solo a bagasce, come non fosse sempre stata la sola e unica religione missionaria, perché ha nel suo DNA la necessità di comunicarsi e trasmettersi».
La risposta?
«Gentile Mastino, trovo i suoi toni poco gentili ed aperti al dialogo…».