venerdì 31 marzo 2017

presto la guerra civile in Europa

L’ideologo di Putin: in Europa sarà presto caos, guerra civile, distruzione.


di Giulio Meotti



Dugin ideologo PutinRoma. Europa e Stati Uniti hanno spesso ricambiato il favore ad Aleksandr Dugin. Un anno fa, il famoso politologo russo è stato messo alla porta in Grecia. Accompagnato dal patriarca di Mosca Kirill per una conferenza sul Monte Athos, Dugin è stato fermato all’aeroporto di Salonicco e gli è stato comunicato che il suo ingresso all’interno dei territori della Ue gli era interdetto. Un anno prima, il Dipartimento del tesoro degli Stati Uniti lo aveva inserito nella lista dei cittadini russi sotto sanzioni per la crisi ucraina. Un mese dopo è il Canada a mettere sotto embargo Dugin. Di lui hanno scritto tutti, da Foreign Policy, che lo chiama “il cervello di Putin”, al Sole 24 Ore, che la settimana scorsa lo ha definito il “Rasputin di Putin”.

Figlio di un ufficiale sovietico, dissidente negli anni Ottanta, avversario di Eltsin negli anni Novanta, Dugin è un pensatore russo che un saggio della rivista australiana Quadrant ha definito “un consapevole folle postmoderno”. Ma un folle con accessi politici importanti. Il suo libro, “Fondamenti della geopolitica”, è usato nelle scuole militari, Dugin è una presenza fissa sulla tv Tsargrad (canale patriottico voluto dal Cremlino e finanziato dal miliardario Konstantin Malofeev) e quando la Turchia ha abbattuto due aerei russi Dugin ha usato i suoi contatti ad Ankara per aiutare Putin a ricucire con Erdogan. Il filosofo coltiva anche relazioni in tutta Europa, come in Grecia, dove è molto amico del ministro degli Esteri, Nikos Kotziás, così come pare ci sia un legame con Steve Bannon, braccio destro di Donald Trump alla Casa Bianca. Dugin ha concesso questa intervista esclusiva al Foglio per spiegare non soltanto le sue idee, ma anche la visione che guida la Russia di Putin. Alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov ha parlato della nascita di un “ordine postoccidentale”. Questo è puro Dugin.

Quanto è vicino a Putin?

“E’ difficile rispondere, non sono così vicino al presidente come pensano alcuni, ma molte idee che ho espresso in filosofia, in politica, hanno molto influenzato Putin”, ci dice Dugin. “Non bisogna esagerare, anche se è vero che c’è stata un’influenza autentica delle mie idee sul presidente. Le idee hanno un proprio destino, e possono influenzare la logica della politica e della storia. Le idee sono enti viventi e possono trovare molti modi per arrivare alla gente. Il problema con l’occidente è proprio questo, è che non crede più nelle idee, c’è un mondo spirituale dove vivono le idee e che l’occidente non riconosce più”.
Ad Aleksandr Dugin chiediamo dove nasca la sua avversione culturale per l’Europa che tanto sembra aver ispirato Putin. 

“Oggi l’Europa occidentale sta nella trappola della modernità e della postmodernità, il progetto della modernizzazione liberale va verso la liberazione dell’individuo da tutti i vincoli con la società, con la tradizione spirituale, con la famiglia, con l’umanesimo stesso. Questo liberalismo libera l’individuo da ogni vincolo. Lo libera anche dal suo gender e un giorno anche dalla sua natura umana. Il senso della politica oggi è questo progetto di liberazione. I dirigenti europei non possono arrestare questo processo ma possono solamente continuare: più immigrati, più femminismo, più società aperta, più gender, questa è la linea che non si discute per le élite europee. E non possono cambiare il corso ma più passa il tempo e più la gente si trova in disaccordo. La risposta è la reazione che cresce in Europa e che le élite vogliono fermare, demonizzandola. La realtà non corrisponde più al loro progetto. Le élite europee sono ideologicamente orientate verso il liberalismo ideologico”.

A Mosca, la vittoria di Donald Trump è stata accolta con favore, per usare un eufemismo.

“Trump negli Stati Uniti ha preso il potere cambiando un po’ questa situazione, e l’Europa si trova oggi isolata”, continua Dugin. “La Russia oggi è il nemico numero uno dell’Europa perché il nostro presidente non condivide questa ideologia postmoderna liberal. Siamo nella guerra ideologica, ma stavolta non è fra comunismo e capitalismo, ma fra élite liberal politicamente corrette, l’aristocrazia globalista, e contro chi non condivide questa ideologia, come la Russia, ma anche Trump. L’Europa occidentale è decadente, perde tutta l’identità e questa non è la conseguenza di processi naturali, ma ideologici. Le élite liberal vogliono che l’Europa perda la propria identità, con la politica dell’immigrazione e del gender. L’Europa perde quindi potere, la possibilità di autoaffermarsi, la sua natura interiore. L’Europa è molto debole, nel senso dell’intelletto, è culturalmente debole. Basta vedere come i giornalisti e i circoli culturali discutono dei problemi dell’Europa, io non la riconosco più questa Europa. Il pensiero sta al livello più basso del possibile. L’Europa era la patria del logos, dell’intelletto, del pensiero, e oggi è una caricatura di se stessa. L’Europa è debole spiritualmente e mentalmente. Non è possibile curarla, perché le élite politiche non lo lasceranno fare. L’Europa sarà sempre più contraddittoria, sempre più idiota. I russi devono salvare l’Europa dalle élite liberal che la stanno distruggendo”.

“Irrisolta la questione ucraina” Ma la Russia non dovrebbe aspirare ad avvicinarsi all’Europa, come sembrava dopo il crollo del comunismo?

“La Russia è una civiltà a sé, cristiana ortodossa. Ci sono aspetti simili fra Europa e Russia. Ma dopo il crollo del comunismo, quando la Russia si è avvicinata all’occidente, abbiamo capito che l’Europa non era più se stessa, che era una parodia della libertà, che era decadente e postmoderna, che versava nella decomposizione totale. Questo occidente non ci serviva più come esempio da seguire, per cui abbiamo cercato un’ispirazione nell’identità russa, e abbiamo trovato che questa differenza è fra cattolicesimo e ortodossia, fra protestantesimo e ortodossia, noi russi siamo ereditari della tradizione romana, greca, bizantina, siamo fedeli allo spirito cristiano antico dell’Europa che ha perso ogni legame con questa tradizione. La Russia può essere un punto di appoggio per la restaurazione europea, siamo più europei noi russi di questi europei. Siamo cristiani, siamo eredi della filosofia greca”.

Al centro del pensiero di Dugin, accanto alla lotta al liberalismo, è l’Eurasia, a giustificazione dell’ambizione di Mosca di ritornare nelle terre ex sovietiche, dal Baltico al mar Nero, di restaurare il dominio sulle popolazioni non russe, arrivando a stabilire perfino un protettorato sull’Unione europea.

“I paesi vicini alla Russia erano costruzioni artificiali dopo il crollo dell’Unione sovietica e non esistevano prima del comunismo”, dice Dugin al Foglio. “Sono il risultato del crollo comunista. Erano invece parte di una civiltà euroasiatica e dell’impero russo prerivoluzionario. Non c’è aggressione di Putin, ma restaurazione di una civiltà russa che si era dissolta. Queste accuse sono il risultato della paura che la Russia si riaffermi come potere indipendente e che voglia difendere la propria identità. L’Ucraina, la Georgia, la Crimea, hanno fatto tanti errori contro la Russia e aggredito le minoranze russe che vivono in quei paesi”.

Ma le avete invase.

“La Russia con grande potere ha risposto alle violazioni dei diritti georgiani, osseti, ucraini, abkhazi, crimei. L’Europa non può comprendere l’atto politico per eccellenza, la sovranità, perché essa stessa ha perso il controllo della propria sovranità. Trump ha cominciato a cambiare la situazione negli Stati Uniti e ha ricordato che la sovranità è un valore e noi russi con Putin abbiamo ricordato questo al mondo prima di Trump”. La Russia quindi metterà gli occhi anche sui paesi della Nato al proprio confine, la questione di Kaliningrad, ex Koenigsberg, la patria di Kant, il cuneo fra est e ovest? “Geopoliticamente, i paesi baltici non rientrano nella sfera di interesse dei russi, con la Georgia siamo in un momento di stabilità, il problema resta con l’Ucraina, perché la situazione non è pacifica, non abbiamo liberato i territori dove l’identità pro russa è dominante, dove è vittima di un misto di neonazisti e neoliberali. L’Ucraina resterà il problema numero uno, ma con Trump c’è la possibilità di uscire dalla logica della guerra”.

Europa e islam. Putin si vanta di aver costruito un concordato con l’islam in Russia, mentre l’Europa è sotto attacco islamista.

“Il problema non è con l’islam, ma le élite hanno fatto entrare milioni di musulmani, senza integrarli perché c’è un vuoto senza identità”, prosegue Dugin al Foglio. “In questo liberalismo non c’è più assimilazione culturale, gli europei non possono proporre ai migranti un sistema di valori, ma solo la corruzione morale. Questa politica suicida europea non può essere accettata dai migranti musulmani. E l’Europa si impegna per porre i musulmani, soprattutto i fanatici fondamentalisti, continuando a distruggere l’Europa: islamisti da un lato distruggono l’Europa e dall’altro ci pensano le élite liberal. L’ideologia wahabita e dello Stato islamico è il problema, non l’islam tradizionale che è vittima del fanatismo islamista. Senza questa politica dell’immigrazione, l’islam che esiste nelle sue terre non rappresenterebbe un rischio per l’Europa”. “Putin è forte, ma non lascia eredi”.

Da tre anni, la Russia ha costruito l’immagine di un paese che adotta politiche opposte a quelle dell’Europa.
“I matrimoni gay e l’Lgbt sono questioni politiche, non morali. Non a caso l’ideologia liberale vuole destrutturare l’idea di uomo e donna. Putin ha compreso questo molto bene e ha cominciato a reagire contro questa visione che distrugge la società. Questo non è il problema della scelta personale e individuale, non ci sono leggi contro l’omosessualità, ma leggi contro la propaganda di questa ideologia gay che distrugge l’identità collettiva, che distrugge le famiglie, che distrugge la sovranità dello stato cercando di cambiare la società civile. Non è una questione morale o psicologica, ma politica”.

Dugin è considerato un grande sostenitore di Putin, ma qui ne rivela i limiti.

“La storia è sempre aperta, non possiamo dire cosa sarà della Russia. Per creare un futuro forte e sano per la Russia dobbiamo fare molti sforzi, niente è garantito, ci sono molte sfide per la Russia e Putin è riuscito a rispondere a molte di queste, vincendo. Il problema del nostro paese consiste nella nostra forza e debolezza, Putin garantisce alla Russia la conservazione della sovranità e dell’identità, il ritorno sulla scena della grande Russia, ma siamo anche deboli, perché Putin rappresenta se stesso, non è riuscito a creare una eredità che possa garantire la sopravvivenza di questa idea della Russia. Finché c’è Putin, la Russia ha speranza di essere forte, ma Putin è un problema perché non ha istituzionalizzato la sua linea di pensiero. La Russia oggi è Putin-centrica”.

Dunque, cosa vede in serbo per l’Europa?

“Sono un seguace di René Guenon, che ha identificato la crisi della società occidentale europea ben prima del XXI secolo. La forma di degradazione spirituale dell’Europa è cominciata con il modernismo, la perdita dell’identità cristiana, ma è arrivato al culmine negli anni Novanta, quando tutte le istituzioni vennero plasmate dal liberismo di destra in economia e dal liberalismo di sinistra nella cultura. L’approvazione dei matrimoni gay mi hanno fatto capire verso dove stava andando l’Europa. Si arriverà presto al momento finale, dopo ci sarà il caos, la guerra civile, la distruzione. Forse è troppo tardi per ribaltare la situazione”.

http://www.byoblu.com/post/notiziedalweb/lideologo-di-putin-in-europa-ci-sara-presto-caos-guerra-civile-distruzione

giovedì 30 marzo 2017

la donna è merce

La teoria della «donna forno», che (quasi) non indigna

E’ da alcuni giorni che aspetto, ma ormai ho capito: nessuno, eccettuati i pochi anche se battaglieri non conformisti, si indignerà per la teoria della “donna forno”, che domenica scorsa Le Iene hanno propinato ai telespettatori dando la parola ad una madre surrogata che l’ha esposta tutta contenta («Ero come un forno. Un forno che aiuta a crescere una famiglia») e ad una psicologa che l’ha convalidata («È bella l’idea della mamma-forno, è come una cucina che prepara il suo piatto»).  Ora, in democrazia si può essere pro utero in affitto, tirare in ballo certi psicologi e pure richiamare sentenze che stanno spianando la strada a questa pratica schiavista, del resto non sarebbe la prima volta che dei giudici danno di testa: già nel marzo del 1857 la Corte Federale Usa, caso Dred Scott contro Sanford, dichiarava lo schiavo negro senza diritti, dunque le donne dei Paesi poveri sono avvertite.

Quel che invece non credo sia accettabile – per amore di logica, se non altro – è accettare una cultura secondo cui se le nostre madri o le nostre nonne hanno passato la vita tra i fornelli per i propri mariti erano delle povere sottomesse, mentre se delle giovani di oggi si rendono forni viventi per ricchi committenti, beh, loro sono donne libere. Eppure pochi notano la contraddizione, così mentre a Paola Perego han chiuso una trasmissione perché offensivo per le donne dell’Est, in altre si può inneggiare senza problemi all’utero in affitto che, oltre ai neonati, rende merce proprio poverette dell’Est. Per carità, è vero, vi sono donne anche celebri – penso, per stare all’Italia, alla scrittrice Susanna Tamaro – che stanno condannando l’utero in affitto senza mezzi termini, ma per la teoria della “donna forno” mi sarei aspettato il finimondo. Invece diversi, tanti, troppi zitti. Mi sono quindi convinto, anche se ignoro dove li vendano, che debbano esserci anche altri nuovi forni in commercio, visti tutti questi cervelli in fumo.

mercoledì 29 marzo 2017

casula multicolore

La pianeta "tutticolori"

Particolare pianeta "tutticolori" che veniva usata un tempo per le cappelle officiate saltuariamente, create per assolvere al colore liturgico in ogni evenienza ... ( A. Franzoni)



martedì 28 marzo 2017

padre Pio eremita

Di monachesimo abbiamo bisogno - Cristiano Lugli

 

La commemoratio fatta il 21 Marzo, in ricordo del Sacro Transito dell'Abate S. Benedetto da Norcia, ha accompagnato una tre giorni di grande esultanza dovuta soprattutto alla traslazione della solennità di San Giuseppe, passata a lunedì.
 
Il ricordo di San Benedetto apparso liturgicamente subito dopo quello del Casto Sposo di Maria Santissima, rafforza anche la speranza del cristiano, certo di avere accanto due grandi Patroni: essenzialmente Patroni della Buona Morte. Questa la stretta correlazione fra i due Santi, il secondo dei quali ha avuto come grazia straordinaria quella di morire "in piedi", affiancato dalla sua figliolanza spirituale, per essere già intravisto nella Gloria dei Santi:
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"Le mani alzate e in piedi il Santo muore
tra i confratelli davanti l'altare.
Due monaci, l'un dentro e l'altro fòre,
pari visione hanno; ad essi appare,

nella volta celeste, immensa scia
splendente ed una voce dice: "Io svelo
a voi che Benedetto quella via
or ha percorso per salire al cielo
".
Il retaggio della Quaresima rimane dunque calcato dall'importanza offertaci da questa memoria, che ci ricorda come solo vivendo da giusti e morendo prima di morire, per morire al mondo e vivere per Dio, si può ottenere l'eterno Gaudio... "Iustum dedúxit Dóminus per vias rectas. Et osténdit illi regnum Dei", veniva detto nel Breviario Romano, in riferimento al Santo Abate di Nursia.
 
Tuttavia un altro soave profumo ha richiamato il ricordo del Transito suo, ed è quello della primavera, scoccata proprio in questa bella ed importantissima memoria.
 
Cosa ricavare da questo, per poter dire di essere andati più in là di una concezione panteistica o, come purtroppo oggi spesso accade, pancristiana delle cose? Una riflessione, breve ma mirata, è d'uopo.

Lungi da questo umil scritto trarre conclusioni indefettibili, epperò vale sicuramente la pena fare un tentativo di interpretazione, perché d'altronde Dio parla all'uomo attraverso tutti gli elementi; è quest'ultimo che - "forte" della sua lussuria e della sua sordità - è divenuto incapace di udire e, quel che peggio, di vedere.
La memoria del Padre di tutti i monaci, del monachesimo occidentale in assoluto, capitombola proprio nel primo giorno di primavera, invitandoci a riflettere su di una cosa molto importante. 
 
La primavera è certamente momento di fioritura. È, per eccellenza ed antonomasia, il trionfo della Vita, della Resurrezione che sconfigge la morte. È sostanzialmente l'emblema di rinascita della Luce. Insomma, qualcosa che se collocato nella retta idea di Fede cristiana e di coscienza formata ci porta inevitabilmente a pensare a Cristo. Il Signore che schiaccia le tenebre dell'inverno e rammenta al Creato intero che nulla la morte può su Colui che la morte ha sconfitto. Morendo al mondo è risorto nella vera Vita, quella che tutta si riassume in Dio.

La figura di questo Maestro di vita cristiana quale è stato l'Abate Benedetto mostra al mondo l'opera da lui fondata, e potremmo dire la più grande di tutte: la creazione del monachesimo occidentale, trasmessogli direttamente dall'oriente, come assioma di tutta la civitas christiana dal V secolo fino a pochissimo tempo fa almeno.
 
Ché forse quest'opera, ovverosia il monachesimo, non sia da considerarsi come la vera primavera di una Chiesa così apparentemente malconcia, tramortita da un inverno freddo e ghiaccioso della Fede, provata dal letargo di tanti pastori che si sono addormentati o, ancor più rivoltante, che hanno drasticamente tradito facendo smarrire le pecore? San Benedetto evidenzia con il suo Transito il patrimonio inestimabile lasciato alla Chiesa, di cui oggi non si riesce più a comprendere il valore, facendolo diventare qualcosa di simile a tutte le altre cose. Il monachesimo ha infatti assunto lo spirito del mondo, seppur non dappertutto e non in tutti gli ordini, aprendo troppo le porte del Monastero a ciò che vi è fuori, rimanendo anch'esso infettato dal germe del modernismo galoppante, il quale di fatto e anche abbastanza palesemente odia la clausura, odia il silenzio, il raccoglimento, odia e detesta tutto ciò che s'impernia verso la preghiera. Il monachesimo è quella fuga mundi per la quale l'uomo, non per solipsismo contingente ma per carità e per assolvere al più grande di tutti i comandamenti, rinuncia alle vanità del mondo per intraprendere la vera battaglia contro il proprio Io. Solo così, con questa lotta interna e con questa rinuncia al mondo, il monaco inizierà la vera ricerca del Divino, il Quærere Deum grazie al quale esiste una civiltà, costituita su ciò che doveva considerarsi come essenziale e definitivo: appunto la costante ed assidua ricerca di Dio.
 
Non a caso nella vita del Santo fondatore dell'ordine benedettino, dalla quale proviene la Regola delle regole, vi è l'episodio della fuga da Roma narrata da San Gregorio, fuga che, a causa dell'aria "malsana" già ai tempi respirabile nell'Urbe, lo spinge nel "deserto" sublacense, al Sacro Speco.

Abbandona il secolo per entrare nel deserto, quel deserto che i Padri avevano portato alla conoscenza di S. Benedetto e dal quale Egli non si separerà mai più: un "deserto" dell'anima, rinunciataria dei sensi per avvalorarsi di quelle virtù che gli uomini di Dio devono possedere.


Ma, attenzione. Il monachesimo lasciatoci dal Padre di tutti i benedettini non insegna solo ai monaci, non è relegato solo ad una vita consacrata. Ogni uomo, in quanto tale e cioè immagine di Dio, deve essere monaco in se stesso, deve ritagliare dentro la propria interiorità uno spazio dedito all'ascesa, al ritiro nel "deserto" in cui Dio, più che in ogni altro contesto, si rivolge allo spirito, cresce nello spirito, dimora nell'uomo.
 
In questo modo si deve comprendere la maestosità del monachesimo, che è una via. Riservata, certo, e più consona a chi si ritira in un monastero, ma comunque una via a cui tutti - chi più chi meno a seconda delle particolarità di ognuno - è chiamato a calcare.
 
Se capiremo questo capiremo altresì l'importanza degli ordini monastici, della loro essenza e sopratutto della loro ineludibilità circa la ricostruzione della Fede, lo splendore della Santa Chiesa. La Chiesa soffre perché non ha più un cuore pulsante ma allo stesso tempo, se rimane in piedi - oltre che per promessa Divina prima di tutto - è perché qualche pia anima è ancora ritirata nei monasteri a pregare, ad assorbire il male del mondo.
 
Ricordo il racconto di una madre che si recò a Loreto per trovare la figlia, monaca carmelitana scalza: clausura. "L'iter per incontrarla non è mai facile, mi raccontava, perché lì la clausura è rispettata seriamente, è ferrea, e comunque v'è sempre una grata che ci separa". Prima di arrivare ad un breve dialogo con la figlia si tratteneva qualche minuto con la Madre superiora, la quale invece ha possibilità di parlare e pure di farsi vedere. Questa anziana monaca, un giorno disse alla madre di una sua figliola spirituale di essere molto stanca, gravemente provata. La madre naturale della monaca le chiese come mai, notando che il viso della Madre superiora era quasi dolorante, stremato. "Sento che il male del mondo viene assorbito anche da noi. La nostra preghiera per tutto il male che ci circonda ha il suo effetto e questo è l'importante, ma noi diventiamo le spugne di tutto questo male".
 
Quanto questa frase raccontatami mi rimase impressa lo dimostra il fatto che un brivido ancora mi attraversa la schiena mentre la riporto qui.
 
L'altro grande segreto del monachesimo e della clausura è proprio questo, assorbire il male del mondo, placarlo in tutta la sua gigantesca portata. Il Diavolo odia i monaci, ed ecco perché sguinzaglia i modernisti a voler sopprimere la clausura. Questo sì, è l'ultimo ostacolo che nel silenzio contrasta drasticamente la sua opera devastatoria. 

In un mondo dedito solo all'azione, alla quale fa seguito la neo-chiesa satura di operismo sociale, è venuto a mancare l'assetto contemplativo. San Bernardo fu il modello dei modelli, e cioè il monaco cavaliere, colui il quale più di chiunque combatteva ( per la Fede, non per le opere sociali ), ma era supportato da una contemplazione che in pochi hanno avuto nella storia del Cristianesimo.
 
Manca chi prega, manca un'anima pulsante. Nulla è realizzabile senza questa forza prorompente che viene dal di dentro, dal silenzio dei chiostri e delle celle. Mons. Marcel Lefebvre affidò la buona riuscita dell'opera da lui fondata a tre monache carmelitane, che pregarono incessantemente. Quando l'opera della Fraternità Sacerdotale San Pio X riuscì, garantendo a tanti giovani la possibilità di formarsi in un Seminario veramente cattolico, il Vescovo francese non mancò di attribuire la buona riuscita alle monache, esse restando quasi stupite. Non nell'operato, non nell'impegno pratico e burocratico, ma nella preghiera incessante delle carmelitane Monsignore riconobbe la causa prima del felicito esito.

Abbiamo bisogno di tornare al monachesimo di San Benedetto se vogliamo dare forza e vigore ad un'Europa scarnificata e sulla quale il suo Partono piange lagrime amare. E a questo proposito, per concludere, vorrei portare all'attenzione uno straordinario passo presente in un libro uscito di recente: si tratta di "Padre Pio Santo Eremita - l'incontro con Dio sulle orme dei Padri del deserto", scritto a quattro mani da Padre Serafino Tognetti e Alessandro Gnocchi, edito da "Fede & Cultura" ( qui ). Un libro che anzitutto mi sento di consigliare a tutti per l'originalità e l'esclusività dei contenuti. 
 
Nella parte curata da Padre Serafino c'è un passo dicevo, che vorrei fungesse da conclusione a quanto detto fin'ora. Sono certo che rischiarerà le coscienze di tutti coloro che lo leggeranno. Chiediamo fervente la Grazia a San Benedetto di poter riscoprire la preziosità di queste verità adamantine.
"Il monachesimo non cessa, perché Dio non passa di moda. E più di ogni altro ordine religioso, il monachesimo indica l'assoluto di Dio e il suo primato su ogni cosa.

I monaci si ritirano per essere uno-con-tutti. La parola "monaco" deriva da monos, che significa "uno". Ma "uno" non è mai sinonimo di solitudine, se la Chiesa è un corpo composto da tante membra. L'eremita sarà un membro nascosto, invisibile agli occhi degli uomini, ma non per questo assente o inutile. Forse in un corpo umano io vedo la tiroide? Molti non sanno nemmeno dove si trova la tiroide , ma provate a eliminarla e vi accorgerete di come poi funzioni il corpo. Anzi, il monaco, la persona meno visibile, alla fine è anche il più utile, o perlomeno uno degli elementi essenziali al Corpo che è la Chiesa. L'esempio ce lo dà Mosè che, durante la battaglia di Israele con i Madianiti, anziché brandire lancia e spada insieme alle truppe se ne va defilato in cima a una collina con due fidi collaboratori, e si mette a pregare intensamente. Il testo biblico ci dice che quando Mosè teneva le braccia alzate il suo esercito vinceva, quando, per stanchezza, le abbassava, il popolo retrocedeva e perdeva ( cfr. Es. 17,10-13 ). Domanda: chi più utile, l'arciere o Mosè sulla collina?

Oggi sembra che sia preferibile ciò che si vede e che dà un immediato risultato. Più utile un francescano che dà da mangiare ai barboni della stazione o un certosino nascosto a Serra San Bruno? Non ho detto più santo o più bravo, ho detto: più utile. Agli occhi del popolo, anche cristiano, la preferenza si leva certamente pel francescano: è più necessario lui. Ma la risposta è sbagliata, se vogliamo stare al passo dell'Esodo suddetto. La guerra si vince con Mosè che prega: dunque, è più utile Mosè". [1] 
Cristiano Lugli
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[1] "Padre Pio Santo Eremita". Ed. 'Fede & Cultura', anno 2017 - pag. 10-11

Chiesa: tentativi falliti

Un progetto sbagliato 

 



Un paio di settimane fa Aldo Maria Valli ha pubblicato sul suo blog un bel post, in cui, attraverso l’allegoria del sogno, esprime la nostalgia per una normalità che nella Chiesa odierna sembrerebbe divenuta cosí rara da essere costretti a sognarla. Si tratta di venti punti sui quali è difficile non trovarsi d’accordo: sono cose talmente ovvie (o, almeno, tali erano fino a pochi anni fa), che non ci dovrebbe essere bisogno di “sognarle”. Che i parroci debbano stare vicini alle coppie che decidono di sposarsi in chiesa; che le parole del vangelo siano chiare (e sicure) e vadano interpretate nel loro evidente significato; che la liturgia abbia la sua sacralità, e quindi tutti, dal Papa fino all’ultimo chierichetto, debbano assumere un atteggiamento consono; che le pontificie accademie debbano farsi promotrici dei piú autentici valori morali, ecc. ecc., sono cose scontate per ogni buon cattolico. Talmente scontate che non dovremmo star qui a parlarne. E invece, nel momento storico che ci troviamo a vivere, sono diventate oggetto di nostalgia, visto che la “normalità” è diventata un’altra, e coincide con l’opposto di tutte quelle ovvietà (che pertanto finiscono per essere considerate eccezioni, stravaganze, singolarità). Grazie, perciò, a Valli per averci ricordato che molto di ciò che oggi viene spacciato per normale, normale non lo è affatto.

Però… c’è un però. Cinque anni fa, in questi stessi giorni, Valli aveva fatto un altro sogno (evidentemente, l’arrivo della primavera stimola in lui l’attività onirica). Lo aveva pubblicato sul sito Vino nuovo. Quel sogno era stato profetico: con un anno esatto di anticipo, aveva previsto l’esito del futuro conclave. E diciamo che, grosso modo, ci aveva preso. In quel caso si trattava di dieci punti: le dieci decisioni del nuovo Papa che sarebbe uscito dal conclave. Beh, quelle dieci decisioni sono l’esatto contrario di quanto sognato quest’anno. Un esempio. Nel sogno di due settimane fa, a un certo punto, Valli dice:
Vado a pranzo con un collega e mi rivela che il papa, per non distinguersi, ha deciso di andare a vivere nel palazzo apostolico, come tutti i suoi predecessori.
Ebbene, il sogno di cinque anni fa si apriva in senso diametralmente opposto:
Per prima cosa il nuovo papa decise di traslocare. Eletto dopo un conclave estenuante, in mezzo a mille polemiche e contrasti, e dopo che il regno del suo predecessore era finito tra lotte di potere tanto sotterranee quanto violente all’interno della curia, decise di dire addio al Vaticano. Basta, bisognava dare un segnale. Fosse stato per lui, si sarebbe trasferito ad Assisi, la città del poverello, ma Pietro, dopo tutto, ha conosciuto il martirio a Roma. Dunque il nuovo papa ordinò: “Roma deve restare la città del successore di Pietro, ma niente piú Vaticano. Vado a vivere a San Giovanni in Laterano. Lí ho la mia cattedra in quanto vescovo di Roma, e siccome il papa è papa perché vescovo di Roma, e non viceversa, è giusto che abiti in Laterano”.
E questa era solo la prima decisione. A essa ne seguivano altre nove, tutte nel segno della piú trita utopia pauperistica: “niente pomposità, niente guardie, niente gendarmi, niente maggiordomi di sua santità, niente corte pontificia”; “revoca di tutti gli incarichi di curia e radicale riduzione degli uffici”; “rinuncia al titolo di capo di Stato”; “convocazione di un grande concilio ecumenico Vaticano III” (non a Roma, ma in Terra Santa); “no al concordato”; per il nuovo conclave, “appuntamento per tutti in piazza San Giovanni, all’aperto”; per quanto riguarda il Vaticano, “niente piú barriere, niente piú cancelli”; al posto di auto lussuose, papamobili ed elicotteri, l’uso di autobus, tram e metropolitana; prima enciclica di poche parole: «In quel tempo, Gesú, entrato nel tempio, si mise a scacciare quelli che vendevano, dicendo loro: “Sta scritto: ‘La mia casa sarà casa di preghiera’. Voi invece ne avete fatto un covo di ladri”».

Questo è ciò che Valli sognava cinque anni fa. Evidentemente, ne ha fatta di strada; e non possiamo che rallegrarcene. Sapientis est mutare consilium. Però qualche puntualizzazione, a mio parere, andrebbe pur fatta. Per carità, non mi si fraintenda: non chiedo a Valli di abiurare o anche solo ritrattare le sue precedenti convinzioni. Ormai l’abiura non la si esige piú neanche dagli eretici e dagli scismatici. Però non mi sembra neppure giusto fare finta di nulla, come se niente fosse. È piú che evidente che c’è stata una evoluzione nella sensibilità e nel pensiero di Valli, e io credo che questo vada fatto notare. Valli è un giornalista; e un giornalista, secondo me, ha dei doveri nei confronti dei propri lettori: innanzi tutto, il dovere di spiegare loro il senso e i motivi di certi ripensamenti. Mi spiego. 
 
Se ora ci si lamenta di alcune anomalie nella vita della Chiesa, quando solo cinque anni fa quelle stesse anomalie erano state proposte e auspicate come segni di rinnovamento, bisogna spiegare ai lettori che cosa è successo: perché quelli che cinque anni fa erano dei traguardi da raggiungere si sono trasformati oggi in anomalie di cui lagnarsi? Non vorrei che si cadesse nell’errore commesso nei confronti di alcune ideologie dell’età moderna, in particolare il marxismo: molti sono ancora convinti che il “socialismo reale” (quello che era stato instaurato in Unione Sovietica e nei paesi satelliti) fosse un tradimento dell’ideologia (considerata in sé buona), un tradimento dovuto alle responsabilità e ai limiti degli uomini che gestivano la cosa pubblica in quei paesi. In pratica, l’errore stava, secondo costoro, nell’applicazione dell’ideologia e non nell’ideologia stessa.

Ebbene, qualcosa di simile potrebbe accadere anche nella Chiesa. Le idee espresse da Valli nel suo sogno del 2012 costituirebbero l’ideale evangelico della Chiesa; le anomalie che Valli lamenta nella Chiesa odierna dipenderebbero solo dai limiti degli uomini che erano chiamati a dare attuazione a quell’ideale. Personalmente invece credo che le anomalie che oggi riscontriamo nella Chiesa sono proprio conseguenza di quelle idee. Il sogno di cinque anni fa non rappresentava un ideale evangelico; era piuttosto un distillato di pura ideologia, di cui ora stiamo verificando i risultati. E da questo punto di vista, penso che sia provvidenziale che la Chiesa faccia questa esperienza: essa serve ad aprire gli occhi di molti che hanno creduto in quelle idee. Pensavano che fossero il vangelo nella sua purezza, liberato dalle incrostazioni religiose, politiche e culturali che gli si erano depositate sopra nel corso dei secoli; in realtà non si trattava che di una utopia, che aveva ripreso qualche spunto dal vangelo, per farsi piú facilmente accettare, ma che aveva come scopo di stravolgere la Chiesa.

Ovviamente tale ideologia non l’ha inventata Valli, ma esisteva prima di lui, e lui ne era rimasto infatuato come molti altri cattolici (laici, preti, vescovi e cardinali). E neanche è da credere, come potrebbero fare i tradizionalisti, che si tratti di un frutto del Concilio. Essa esisteva già da molto tempo prima che il Vaticano II venisse convocato. Anzi, si potrebbe pensare che il Concilio sia stato proprio il tentativo — fallito — da essa usato per imporsi alla Chiesa. E, dopo il Concilio, ha continuato a diffondersi (proponendosi addirittura come l’interpretazione autentica del Vaticano II, come “spirito del Concilio”), nonostante la resistenza opposta dai Papi che si sono avvicendati, fino a trionfare in questi ultimi anni. E ora, vedendo i risultati dell’applicazione di quella ideologia, viene la nostalgia per una “normalità” che prima si criticava, scambiandola per il ritardo della Chiesa sulla storia (chi non ricorda una delle ultime, infelicissime, uscite del Card. Martini: «La Chiesa è rimasta indietro di duecento anni»?). Ora che la Chiesa, finalmente, cammina al passo con i tempi, ci si accorge che qualcosa non va. Ma non va, non perché qualcosa sia andato storto nell’applicazione del progetto; non va, semplicemente perché il progetto era sbagliato.
Q

lunedì 27 marzo 2017

Gesù, amaci, dall' Eucarestia



Gesù amaci, dalla tua Eucarestia
effondi sopra di me la fiamma del tuo Amore.
   Fa' che non ci abituiamo
alle meraviglie della tua Eucaristia.
   Fa' che ogni giorno
restiamo abbacinati
davanti al mistero della tua Passione e Morte.
   Fa' che non discendiamo dall'altare
se non con il cuore in subbuglio,
con il cuore amareggiato
alla vista dell'Amore Crocifisso.
   Fa' che non discendiamo dall'Altare
se non barcollando
per aver preso parte
al più tremendo e al più santo
avvenimento della Storia.
   Non abbandonarci
alla nostra Umanità, o Gesù,
in quel momento
non siamo che peccatori.
p. Mario Borzaga
6 novembre 1958


domenica 26 marzo 2017

le donne comprendono???




Chissà se un giorno la maggior parte delle donne riuscirà a comprendere che chi ha raccontato loro e si è adoperato per la loro "emancipazione" attraverso il lavoro, la contraccezione (anche abortiva) e il divorzio lavorava per sfruttarle ancora di più nel corpo e nello spirito, a letto e sul lavoro, distruggendo proprio l'essenza della loro femminilità, usandole per sfasciare la società disarticolandola dall'essere comunità di destino legate le une alle altre e all'interno delle quali ogni persona era tutelate e garantita, e trasformarla in meri aggregati di individui svincolati l'uno dall'altro e uniti solo da interessi volontari e temporanei.
Senza conquistare la donna con le sue scintillanti promesse di libertà la Rivoluzione non avrebbe mai potuto raggiungere i risultati odierni.


Essa infatti è passata di successo in successo nel demolire istituzioni sociali, politiche e religiose senza tuttavia arrivare a un successo definitivo perché incapace di toccare il cuore e la natura profonda dell'uomo che si crea e si coltiva nella trasmissione dei valori fondamentali e tradizionali all'interno del calore di un nucleo familiare. Per farlo la Rivoluzione ha dovuto usare la violenza creando resistenze e di fatto fallendo, venendo così costretta a cambiare strategia.
 

Conquistando la donna alla sua causa la Rivoluzione si garantisce contro la sua nemica per essenza: la Tradizione, cioè la trasmissione di un modo di pensare, di vivere che lega nei loro valori e principi essenziali le generazioni precedenti a quelle che verranno. Troncando questa ogni individuo è libero, si autodetermina e quindi Re e Dio, almeno sulla carta e secondo quanto gli promettono i "diritti civili" cui vengono educati.
 

Che poi la realtà sia tutto il contrario avranno modo di verificarlo nel corso dell'esistenza. Ma si fa più fatica a staccarsi da una menzogna che si presenta come un sogno di libertà e sentito come una idea di nostra proprietà che attaccarsi al vero e alla realtà cui siamo stati educati a percepire come una mostruosa e ingiusta limitazione dei nostri diritti e delle nostre esistenze. 

(Piero Mainardi)

 

sabato 25 marzo 2017

Convegno dei preti sposati

Monsignor D’Ercole e i “preti sposati”

 

Ieri un amico mi segnalava la notizia che annuncia la presenza di monsignor Giovanni D’Ercole al Convegno dei preti sposati, e che lascia intravedere, «dopo la visita del Papa, una nuova apertura». Questa di voler preconizzare sempre “nuove aperture” è da un lato un tic giornalistico (ogni edizione è “straordinaria”, per lo strillone che ci si guadagna da vivere…); dall’altro non manca negli ambienti ecclesiali la solita tendenza orwelliana a dare notizie che causino i fatti, invece di cronache che li riportino.

Ma i fatti sono fatti, appunto, ed è vero che monsignor D’Ercole – ecclesiastico più volte segnalatosi per prudenza di giudizio e intelligenza pratica – prenderà parte al convegno annuale organizzato dall’associazione Vocatio. Normalmente quella eucaristia viene presieduta da un prete sposato, ovvero da un sacerdote cattolico che per varî motivi non abbia assunto la promessa del celibato perpetuo (o, in teoria, che sia stato dispensato dagli obblighi di quella promessa). Chiaramente passare da uno di questi oscuri pretini a un vescovo affermato, e tra i più in vista del panorama nazionale italiano (nonché della Santa Sede), non può essere un puro accidente. Senza dubbio D’Ercole ha avuto il benestare di influenti sfere vaticane, per accettare di presenziare a un evento così potenzialmente divisivo. I conferenzieri Adriana Valerio, Giovanni Cereti e Basilio Petrà, nomi ben noti nell’ambiente accademico e di ricerca, sono dichiaratamente a favore dell’abolizione dell’obbligo di celibato sacerdotale nei riti latini della Chiesa cattolica – e questo è l’intento programmatico della stessa associazione Vocatio, al cui interno si raccolgono i cocci di esperienze di vita dolorosissime. La presenza di D’Ercole è probabilmente un segnale. Che farà?
Per sapere questo dovremo aspettare sabato e domenica. Intanto a me preme ricordare due cose: da un lato la reale posizione di Paolo VI, rispetto alla quale si tramandano dolose inesattezze; dall’altro la reale situazione dei preti sposati per come la conosco io direttamente.
Anzitutto il Magistero: Paolo VI, che al celibato sacerdotale aveva dedicato un’importante enciclica, viene tramandato come il Pontefice di manica larga che faceva sposare tutti i preti che gli inoltravano richiesta. Leggiamo infatti sul sito di Vocatio:
D_Ercole-Avvento.jpgPaolo VI concedeva in fretta e senza difficoltà la dispensa ai preti che la richiedevano, ma con la salita al soglio di Pietro di Giovanni Paolo II le cose sono cambiate e da buon Papa politico, per frenare l’emorragia di preti dalla Chiesa, ha imposto regole severissime per l’ottenimento della dispensa. Anzi, contro le indicazioni del Concilio Vaticano II il Papa ha introdotto una sacralizzazione del celibato presbiterale: un prete ordinato validamente lo è per sempre, ma la gerarchia cattolica è andata ben oltre e ha deciso che ordinazione presbiterale e celibato siano inscindibilmente uniti ed eterni, è stato cioè aggiunto il celibato come proprietà ineliminabile del presbiterato, perciò non esiste più il sacramento dell’ordine, ma dal 1979 abbiamo il sacramento dell’ordine-celibatario.
Peccato non trovare in calce a questo testo una firma a cui si possa chiedere di rendere conto di certe affermazioni azzardate: l’unica cosa incontrovertibilmente vera, in questo paragrafo, è che un prete ordinato validamente resta sacerdote per sempre. Il resto è tutto parte di una narrazione perlomeno distorta, a cominciare dall’epica delle “indicazioni del Vaticano II” per finire con la contrapposizione tra il buon Paolo VI e l’arcigno orso polacco che gli successe (peraltro nel ’78, non nel ’79).

Anzi, quanto al Vaticano II: se un motivo c’è per cui nessun suo documento tocca la questione, certo non lo si deve alla timidezza dei Padri conciliari, i quali volentieri avrebbero affrontato l’argomento. No, fu proprio Paolo VI che avocò a sé la faccenda, ovvero proibì che il tema fosse preso durante le sessioni del Concilio, e lo fece promettendo che presto avrebbe promulgato un documento dedicato. La promessa fu mantenuta, perché il 24 giugno 1967 Sacerdotalis cælibatus vide la luce. Cominciava così:
Il celibato sacerdotale, che la Chiesa custodisce da secoli come fulgida gemma, conserva tutto il suo valore anche nel nostro tempo, caratterizzato da una profonda trasformazione di mentalità e di strutture. Ma nel clima dei nuovi fermenti si è manifestata anche la tendenza, anzi l’espressa volontà di sollecitare la Chiesa a riesaminare questo suo istituto caratteristico, la cui osservanza secondo alcuni sarebbe resa ora problematica e quasi impossibile nel nostro tempo e nel nostro mondo.
Un’antifona quanto mai chiara. Ma è il capitolo III (significativamente intitolato “Dolorose diserzioni”) a esprimere con migliore compiutezza il pensiero di Paolo VI sui “preti svestiti”:
A questo punto, il Nostro cuore si rivolge con paterno amore, con trepidazione e dolore grande a quegli infelici, ma sempre amatissimi e desideratissimi fratelli Nostri nel sacerdozio, i quali, mantenendo impresso nell’anima il carattere sacro conferito dall’ordinazione sacerdotale, furono disgraziatamente infedeli agli obblighi assunti al tempo della loro consacrazione sacerdotale.
Il loro lacrimevole stato, e le conseguenze private e pubbliche che ne derivano, muovono alcuni a pensare se non sia proprio il celibato responsabile in qualche modo di tali drammi e degli scandali che ne soffre il popolo di Dio. In realtà, la responsabilità ricade non sul sacro celibato in se stesso, ma su una valutazione a suo tempo non sempre sufficiente e prudente delle qualità del candidato al sacerdozio o sul modo col quale i sacri ministri vivono la loro totale consacrazione.

La Chiesa è sensibilissima alla triste sorte di questi suoi figli e ritiene necessario fare ogni sforzo per prevenire o sanare le piaghe che le sono inferte dalla loro defezione. Seguendo l’esempio dei Nostri immediati Predecessori di s. m., anche Noi abbiamo voluto e disposto che la investigazione delle cause riguardanti l’ordinazione sacerdotale sia estesa ad altri motivi gravissimi non previsti dall’attuale legislazione canonica, i quali possono dar luogo a fondati e reali dubbi sulla piena libertà e responsabilità del candidato al sacerdozio e sulla sua idoneità allo stato sacerdotale, in modo da liberare quanti un accurato processo giudiziario dimostri effettivamente non adatti.
SC 83-84
Gli aggettivi e gli avverbî, soprattutto, sono rivelativi della traccia profonda del pensiero montiniano: sarebbe interessante sapere come gli amici di Vocatio riescano a ricondurre questa sconsolata mestizia alla gaia narrazione di un Paolo VI “open-minded” (in senso eversivo). Nel due numeri successivi Papa Montini era stato più esplicito:
paolovi_966221_966329.jpgLe dispense che vengono eventualmente concesse, in una percentuale in verità minima nei confronti del grande numero dei sacerdoti sani e degni, mentre provvedono con giustizia alla salute spirituale degli individui, dimostrano anche la sollecitudine della Chiesa per la tutela del sacro celibato e la fedeltà integrale di tutti i suoi ministri.

Nel fare questo, la Chiesa procede sempre con l’amarezza nel cuore, specialmente nei casi particolarmente dolorosi nei quali il rifiuto a portare degnamente il giogo soave di Cristo è dovuto a crisi di fede, o a debolezze morali, spesso perciò responsabile e scandaloso.
Oh, se sapessero questi sacerdoti quanta pena, quanto disonore, quanto turbamento essi procurano alla santa Chiesa di Dio, riflettessero quale era la solennità e la bellezza degli impegni assunti, e a quali pericoli essi vanno incontro in questa vita e a quella futura, essi sarebbero più cauti e più riflessivi nelle loro decisioni, più solleciti alla preghiera e più logici e coraggiosi nel prevenire le cause del loro collasso spirituale e morale.
SC 85-86
E anche i numeri successivi, almeno fino al 90, sono illuminanti per capire il dramma che la Chiesa vive per ognuna di quelle promesse infrante. La morte, letteralmente, le risulta preferibile a quello strazio e, benché queste siano parole di san Domenico Savio, è stata Grazia Deledda – in La madre – a illustrarne fino in fondo il dolore.

foto-1aNaturalmente, per la stessa natura del celibato, la defezione da quella promessa è spesso legata a questioni sentimentali: tuttavia questo non basta a rendere vera la tesi per cui il celibato sarebbe responsabile del calo delle vocazioni al sacerdozio. Da una parte infatti calano anche i matrimonî, dall’altra le vocazioni al ministero pastorale non sono migliori (né per quantità né per qualità) là dove questo non comporta il celibato. La verità è un’altra: la nostra società liquida scoraggia ogni tipo di impegno e, per definizione, qualunque promessa di solidità. Celibato e matrimonio sono due facce dell’identica realtà, che è la promessa (e una fedeltà che la prolunghi all’infinito).

Ma l’altra cosa che, più brevemente, vorrei dire, riguarda quegli uomini. E quelle donne (c’entrano anche loro, e spesso soffrono più dei preti). Capita che ne conosca alcuni. Sono persone di cui è impossibile non comprendere il dissidio fondamentale: anzi si capisce benissimo che alcuni fra loro vogliano legittimarsi cerebralmente e sublimare in un riconoscimento ecclesiale i sensi di colpa, elaborando un sistema dottrinale capace di tenere insieme “capra e cavoli”. Peccato trascurino che il problema è a monte… In questi convegni si invitano a testimoniare sacerdoti uxorati come se la questione fosse “è possibile essere sposati ed essere ordinati preti?” (è il contrario ad essere impossibile, sempre e per chiunque).
Che cosa accadrà, dunque, sabato e domenica? Ho chiesto un pronostico in amicizia a un prelato incaricato dalla Chiesa di formare i giovani al sacerdozio. Mi ha risposto così:
211040539-e1e7926b-dc84-464f-b598-e76ad55cc487_B.20072406_std-590x362.jpgNon temo questi movimenti e credo che l’obbligo del celibato non verrà meno. Il Papa potrebbe aprire all’ammissione al sacerdozio di viri probati [uomini sposati che risultino idonei ad adempiere il ministero, n.d.r.]. Se ne discute e vedremo che ne uscirà. Le rivendicazioni di quanti hanno lasciato [il ministero, n.d.r.] non possono determinare queste scelte. A mio giudizio se si accedesse all’ammissione dei viri probati, i preti che hanno lasciato [il ministero, n.d.r.] andrebbero esclusi. Dove non c’è l’obbligo del celibato, prima ci si sposa e poi si accede al sacerdozio. Non il contrario. Così è anche da noi per i diaconi permanenti.
Bisognerebbe riguardarsi La moglie del prete, di Dino Risi: reca traccia del clima della Sacerdotalis cælibatus (è stato messo in cantiere poco dopo l’uscita del documento) e tratteggia mirabilmente illusioni e disillusioni di quegli anni. In più, come accade non di rado, il regista laico è riuscito a gettare uno sguardo profondo sulla realtà ecclesiale – confrontarsi onestamente con quello sguardo sarebbe una vera, umile e fedele applicazione del Vaticano II. L’amarissimo finale del film, infatti, mostra che don Mario Carlesi (Marcello Mastroianni) viene “recuperato” nelle orbite del ministero tramite la lusinga del potere, o dei suoi apparati clericali.

Ecco, forse gli amici cui è capitato di fare questi grossi errori farebbero meglio ad allontanarsi a passo deciso dalle lusinghe. Ma soprattutto per loro lo dico, specie se avevano avuto una vocazione sincera: la loro sofferenza sarà forse minore e probabilmente più sensata, se non si ostineranno a piantarsi sulla soglia della sagrestia.

 https://giovannimarcotullio.com/2017/03/22/monsignor-dercole-e-i-preti-sposati/

venerdì 24 marzo 2017

nuovo rito per la Messa

Due pesi e due misure 

 


In questi giorni capita di leggere articoli dai toni un po’ apocalittici, riguardanti presunti progetti di riforma liturgica, che avrebbero come obiettivo la creazione di un nuovo rito eucaristico che permetta la partecipazione di fedeli appartenenti a diverse confessioni cristiane. Di fronte a tali annunci, sinceramente, si rimane alquanto perplessi, dal momento che non si riesce a vedere che fondamento abbiano: di solito un articolo cita l’altro, senza mai fornire una fonte attendibile, che non siano le solite “voci” (o forse, piú probabilmente, all’origine c’è l’errata interpretazione di alcune informazioni credibili, ma non ben comprese).


Di fatto, l’unica notizia recente in ambito liturgico è quella della costituzione, presso la Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti (CCDDS), di una commissione incaricata di rivedere l’istruzione Liturgiam authenticam. Me ne ero occupato nel post del 7 febbraio 2017. Nel post della scorsa settimana ho riportato la smentita del Prof. Grillo circa qualsiasi suo coinvolgimento nella commissione.

Ora viene una conferma dell’esistenza della commissione e i nomi dei suoi componenti dal blog di Francisco José Fernández de la Cigoña La Cigüeña de la Torre. Un articolo serio sulla questione, che riprende l’indiscrezione de La Cigüeña, è quello di Riposte catholique (una traduzione italiana nel sito Una Vox). Perché “serio”? Perché dimostra di essere bene informato e, soprattutto, si limita ai fatti, senza lasciare che la fantasia prenda il sopravvento. L’articolo riporta le reazioni a Liturgiam authenticam in ambito tedesco, italiano, anglosassone, spagnolo e francese. Quel che mi ha colpito maggiormente non è stato tanto il fatto che ci siano state opposizioni (lo si sapeva già), quanto piuttosto il diverso trattamento che è stato riservato dalla CCDDS ai diversi “episcopati” (metto la parola “episcopati” fra virgolette, perché sappiamo bene che molto spesso i vescovi non ne sanno nulla di certe questioni, venendo esse gestite per lo piú dai “tecnici”, nella fattispecie dai liturgisti). Io non conosco la situazione negli ambiti tedesco, francese e spagnolo (non sapevo, per esempio, che è uscita la nuova edizione del Messale in castigliano: sarebbe interessante vedere che cosa è venuto fuori, dal momento che era già stata autorizzata una diversa traduzione della formula di consacrazione per la Spagna e per i paesi latinoamericani). Conosco meglio (non perché abbia contatti con gli addetti ai lavori, ma solo perché faccio uso dei rispettivi testi) la situazione in ambito italiano e anglofono. A proposito dell’Italia, l’articolo afferma:
Bisogna dire che il mondo dei liturgisti italiani è molto ben organizzato in un efficace gruppo di pressione, in particolare attorno all’Associazione dei Professori di Liturgia, che insegnano alla Pontificia Università Sant’Anselmo, negli istituti liturgici di Padova, Palermo, Bologna, Milano e nei seminari diocesani. L’Ufficio Liturgico della Conferenza Episcopale Italiana è nelle loro mani, al pari delle importanti riviste liturgiche: La Rivista di pastorale liturgica e La Rivista liturgica.
Senza conoscere questi retroscena, mi ero accorto da solo che gli italiani erano ben ammanicati presso la CCDDS. Come ero giunto a tale conclusione? Attraverso una serie di osservazioni sui libri liturgici. Qui basterà fare un esempio, sufficiente a dimostrare la “corsia preferenziale” di cui l’Ufficio liturgico della CEI ha sempre usufruito presso il Dicastero.

Martedí della prima settimana di Quaresima. Vangelo del giorno: Matteo 6:7-15 (il Padre nostro). Nel Lectionary for Mass for Use in the Dioceses of the United States of America. Second Typical Edition, approvato nel 2001 a norma dell’istruzione Liturgiam authenticam, vengono apportate delle correzioni alla New American Bible (NAB) adottata da quel lezionario:

NAB 1986
LEZIONARIO 2001


“In praying, do not babble like the pagans,
who think that they will be heard because of their many words.
Do not be like them.
Your Father knows what you need before you ask him.
“This is how you are to pray:
Our Father in heaven,
      hallowed be your name,
      your kingdom come,
      your will be done,
      on earth as in heaven.
Give us today our daily bread;
and forgive us our debts,
      as we forgive our debtors;
and do not subject us to the final test,
      but deliver us from the evil one.
If you forgive others their transgressions,
your heavenly Father will forgive you.
But if you do not forgive others,
neither will your Father forgive your transgressions.

Jesus said to his disciples:
In praying, do not babble like the pagans,
who think that they will be heard because of their many words.
Do not be like them.
Your Father knows what you need before you ask him.
“This is how you are to pray:
Our Father who art in heaven,
      hallowed be thy name,
      thy kingdom come,
thy will be done,
      on earth as it is in heaven.
Give us this day our daily bread;
and forgive us our trespasses,
as we forgive those who trespass against us;
and lead us not into temptations,
      but deliver us from evil.
If you forgive men their transgressions,
      your heavenly Father will forgive you.
But if you do not forgive men,
   neither will your Father forgive your transgressions.”
The Gospel of the Lord.

Ho evidenziato in corsivo le modifiche apportate dal comitato Vox Clara (costituito presso la CCDDS) al testo della NAB, in base alle norme di Liturgiam authenticam. Le modifiche sono sostanzialmente due: la sostituzione della moderna traduzione del Padre nostro con la versione tradizionale (ancora usata nella liturgia) e la sostituzione di others (adottato dalla NAB in omaggio al politicamente corretto inclusive language) con men (traduzione letterale dell’originale τοῖς ἀνθρώποις). L’istruzione del 2001 viene dunque applicata alla lettera.

Che cosa accade in ambito italiano? In Italia, dove non è stato ancora pubblicata la nuova edizione del Messale (per i motivi illustrati nel citato articolo), è stato però pubblicato il nuovo lezionario, che utilizza la traduzione CEI della Bibbia del 2008. In questo caso, il nuovo lezionario è stato approvato senza apportare alcuna modifica al testo biblico approvato nel 2008. Può però essere utile fare un raffronto tra la vecchia e la nuova traduzione CEI:

CEI 1974
CEI 2008

Pregando poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole.
Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate.
Voi dunque pregate cosí:
Padre nostro che sei nei cieli,
sia santificato il tuo nome;
venga il tuo regno;
sia fatta la tua volontà,
come in cielo cosí in terra.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano,
e rimetti a noi i nostri debiti
come noi li rimettiamo ai nostri debitori,
e non ci indurre in tentazione,
ma liberaci dal male.
Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi;

ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.

Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole.

Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate.
Voi dunque pregate cosí:
Padre nostro che sei nei cieli,
sia santificato il tuo nome,
venga il tuo regno,
sia fatta la tua volontà,
come in cielo cosí in terra.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano,
e rimetti a noi i nostri debiti
come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori,
e non abbandonarci alla tentazione,
ma liberaci dal male.
Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi;
ma se voi non perdonerete agli altri,  neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.



Anche in questo caso ho evidenziato le variazioni della traduzione del 2008 rispetto a quella del 1974. Ebbene, a parte qualche modifica di carattere puramente formale, se consideriamo la traduzione del 1974, quando ancora Liturgiam authenticam era di là da venire, potremmo dire che ne anticipasse inconsapevolmente i contenuti: versione tradizionale del Padre nostro; “uomini” tradotto letteralmente. Nella traduzione del 2008, adottata dal nuovo lezionario, invece, si modifica la versione del Padre nostro (nonostante si continui a usare nella liturgia la formula tradizionale) e si rende “uomini” con “altri”, esattamente come fa la NAB (nonostante che in Italia, grazie al Cielo, non sia cosí sentito come nel mondo anglosassone il problema del “linguaggio inclusivo”). 

Ebbene, il nuovo lezionario è stato approvato nell’anno del Signore 2009 dalla CCDDS, durante il pontificato di Benedetto XVI, con S. Em. il Card. Antonio Cañizares Llovera Prefetto, S. E. R. Mons. Albert Malcom Ranjith Patabendige Don Segretario e il Rev. Padre Anthony Ward Sottosegretario, nessuno dei quali risulta essere di tendenze moderniste o bugniniane. Sono stati usati, nello stesso ambito, due pesi e due misure. Come si spiega? Dobbiamo attribuire il diverso trattamento a negligenza di chi doveva vigilare sull’esatta applicazione di Liturgiam authenticam? Oppure l’istruzione è stata temporaneamente sospesa in occasione dell’approvazione del lezionario italiano? Evidentemente è vero quanto sostenuto dall’articolo di Riposte catholique: in Italia c’è un “efficace gruppo di pressione” che riesce a ottenere quel che vuole, in barba a ogni normativa e a prescindere dai titolari pro tempore della Curia romana. E, aggiungerei, dello stesso Episcopato italiano: già nel lontano 1986 il Card. Giacomo Biffi si lamentava che nell’edizione del Messale italiano del 1983 erano state introdotte alcune nuove preghiere eucaristiche all’insaputa dei vescovi (si veda il mio post del 2 febbraio 2010). È proprio vero: come dice il proverbio, il mondo è di chi se lo piglia.
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