venerdì 29 marzo 2013

Crucem sanctam subiit

A tutti gli amici, conosciuti e sconosciuti,
che passano da Muniat intrantes Crux

BUONA PASQUA nella luce del Signore Risorto!

Χριστός Ανέστη!
Αληθώς Ανέστη!

SURREXIT DOMINUS VERE, ALLELUIA!





Ιδού, ο νυμφίος έρχεται εν τω μέσω της νυκτός και μακάριος ο δούλος ο ευρήσει γρηγορούνται, ανάξιος δε πάλιν, ον ευρήσει ραθυμούντα βλέπε ούν, ψυχή μου, μη τω ύπνω κατενεχθής ίνα μη τω θανάτω παραδοθής, και της βασιλείας έξω κλεισθής αλλά ανάνηψον κράζουσα άγιος, άγιος, άγιος ει ο θεός ημών, διά της θεοτόκου  ελέησον ημάς.

Ecco, giunge lo sposo, nel mezzo della notte e beato il servo ch'Egli troverà a vegliare, indegno invece quello che troverà ad oziare, guarda dunque, anima mia, di non piombare nel sonno, perché non ti consegni alla morte, e non ti chiuda fuori dal regno, ma acclamalo gridando: Santo Santo Santo sei Tu, Nostro Dio, per intercessione della Deipara abbi pietà di noi.








Crucem sanctam subiit,
qui infernum confregit,
accintus est potentia,
surrexit die tertia.  Alleluia!
Subì la croce santa ,
Colui che spezzò il potere dell’inferno
Rivestito di potenza,
Il terzo giorno è resuscitato. Alleluia!

Surrexit Christus
et illuxit populo suo:
quem redemit
sanguine suo. Alleluia!
Cristo è risorto
e ha illuminato il suo popolo
lo ha redento
per mezzo del suo sangue. Alleluia!

Crucem sanctam subiit,
qui infernum confregit,
accintus est potentia,
surrexit die tertia.  Alleluia! 
Subì la croce santa ,
Colui che spezzò il potere dell’inferno
Rivestito di potenza,
Il terzo giorno è resuscitato. Alleluia!


Surrexit Christus
iam non moritur:
mors illi ultra
non dominabitur. Alleluia!
Cristo è risorto
Più non muore
La morte non ha più
Potere su di Lui. Alleluia!

Crucem sanctam subiit,
qui infernum confregit,
accintus est potentia,
surrexit die tertia.  Alleluia
Subì la croce santa ,
Colui che spezzò il potere dell’inferno
Rivestito di potenza,
Il terzo giorno è resuscitato. Alleluia!

Surrexit Christus
lapidem quem reprobaverunt
aedificantes: hic factus est
in caput anguli. Alleluia!
Cristo è risorto
La pietra scartata
Dai costruttori: ora è divenuta
La testata d’angolo. Alleluia!

Crucem sanctam subiit,
qui infernum confregit,
accintus est potentia,
surrexit die tertia.  Alleluia!
Subì la croce santa ,
Colui che spezzò il potere dell’inferno
Rivestito di potenza,
Il terzo giorno è resuscitato. Alleluia!

mercoledì 27 marzo 2013

relativismo

Relativismo nella Chiesa?

p. Giovanni Scalese


Fino a qualche anno fa mi sono occupato, in forma piú o meno diretta, di formazione all’interno del mio Ordine religioso. Quel che lamentavo sovente era la “molteplicità delle formazioni”: praticamente tanti erano i modi di formare, quanti erano i formatori. Nonostante ci fossero le Costituzioni, la Ratio institutionis, le delibere dei Capitoli generali, le tradizioni domestiche, di fatto ciascun novizio o studente veniva formato a seconda dei gusti personali del Padre Maestro che si ritrovava ad avere. Con quali conseguenze sull’unità della Congregazione, vi lascio immaginare. In tutte le riunioni dei formatori e nei Capitoli ho sempre insistito sulla necessità dell’unità della formazione e, devo riconoscere, delle delibere in tal senso sono state anche approvate; ma ho l’impressione che, nonostante le delibere, la situazione sia rimasta pressoché immutata.

Beh, quel che lamentavo riguardo alla formazione nel mio Ordine, in realtà costituisce un problema generale, che tocca ogni ambito, diffuso in tutta la Chiesa, soprattutto dopo il Vaticano II, col quale ciascuno si è sentito autorizzato a fare di testa propria. Non mi si fraintenda, non sto criticando il Concilio: accetto con convinzione tutte le riforme da esso promosse e successivamente realizzate; sono riforme che si rendevano necessarie per il mutamento dei tempi. Negli anni dopo il Concilio i Papi e i Dicasteri della Curia Romana hanno fatto un enorme sforzo di aggiornamento in tutti i settori, lasciando talora spazio anche alla possibilità di ulteriori adattamenti alle situazioni locali, ma sempre entro i limiti previsti dalle nuove normative. Il problema è che spesso tali normative sono state completamente ignorate dalla “base”, la quale anzi riteneva che, col Concilio, si era fatta piazza pulita di ogni legalismo e che unico criterio di azione fosse ormai l’attenzione al soffio dello Spirito, solitamente coincidente — guarda caso — con i propri gusti personali.

Perché, direte voi, questa lunga introduzione? Dove vuole arrivare Padre Scalese? È la riflessione che mi è venuta in mente quando, l’altro giorno, ho letto una notizia che mi ha lasciato alquanto perplesso: il Papa, il giovedí santo, celebrerà la Messa in Cena Domini nel carcere minorile di Casal del Marmo. Beh, dove sta il problema? Non è un bellissimo gesto quello deciso da Papa Bergoglio? “Visitare i carcerati” non è forse una delle opere di misericordia corporale? Il Papa non può decidere liberamente dove celebrare la Messa del giovedí santo?

Vorrei cominciare col rispondere a quest’ultima domanda, perché credo che da una corretta risposta ad essa dipenda tutto il resto. È vero che il Papa può decidere quel che vuole: egli è il legislatore supremo. Ma può decidere, appunto, legiferando. Se esiste una legge che a lui non piace, può cambiarla; ma, se una legge esistente, fatta da lui o da uno dei suoi predecessori, lui non la cambia, non mi sembra opportuno che la disattenda. Non sono un canonista, ma non mi pare che al Papa possa applicarsi il principio “Princeps legibus solutus”: non sarebbe molto corretto nei confronti di quanti quelle leggi sono tenuti a osservarle. Questo, come principio generale.

Nel caso presente, non si tratta propriamente di leggi, ma di indicazioni pastorali, che comunque hanno, a mio parere, un valore piuttosto vincolante. Una trentina d’anni fa fu pubblicato il Cæremoniale Episcoporum, che non credo fosse destinato soltanto ai cerimonieri delle cattedrali, ma innanzi tutto ai Vescovi stessi. Faccio notare che non mi riferisco al Cerimoniale del 1600, ma a quello del 1984, “ex decreto Sacrosancti Œcumenici Concilii Vaticani II instauratum, auctoritate Ioannis Pauli PP. II promulgatum”. Ebbene, che cosa si dice nel suddetto Cerimoniale a proposito dei riti del Triduo pasquale?

«Tenendo quindi presenti la particolare dignità di questi giorni e la grande importanza spirituale e pastorale di queste celebrazioni nella vita della Chiesa, è sommamente conveniente che il Vescovo presieda nella sua chiesa cattedrale la Messa nella Cena del Signore, l’azione liturgica del venerdí santo “nella passione del Signore”, e la veglia pasquale, soprattutto se in essa si devono celebrare i sacramenti della iniziazione cristiana» (n. 296).

E, specificamente a proposito del giovedí santo, il Cerimoniale prosegue:

«Il Vescovo, anche se ha già celebrato al mattino la Messa del crisma, abbia ugualmente a cuore di celebrare anche la Messa della Cena del Signore con la piena partecipazione di presbiteri, diaconi, ministri e fedeli intorno a sé» (n. 298).

Non si tratta di norme tassative, ma di indicazioni in ogni caso pressanti, dalle quali, a mio parere, solo per gravissime ragioni ci si potrebbe discostare. Ma, a quanto è stato riferito, Papa Francesco non fa altro che continuare un’abitudine che aveva quando era Arcivescovo di Buenos Aires (il che lascia presumere che intenda ripetere il gesto ogni anno). È chiaro che il problema non sorge solo ora che Bergoglio è diventato Papa, ma esisteva già quando era Arcivescovo. Posso supporre il ragionamento che avrà fatto: “Ho già celebrato questa mattina la Messa del crisma con tutto il mio clero; questa sera la Messa in Cena Domini sarà celebrata nelle diverse parrocchie; con chi celebro io in cattedrale? Magari non ci saranno neppure i seminaristi perché mandati ad aiutare nelle rispettive parrocchie. Quindi me ne vado a celebrar Messa ai carcerati (o agli ammalati o agli anziani) e cosí faccio anche un’opera di misericordia”. Un ragionamento abbastanza comprensibile, addirittura encomiabile, ma che rischia di “smontare” tutto d’un tratto quanto il Concilio aveva autorevolmente dichiarato:

«Il Vescovo deve essere considerato come il grande sacerdote del suo gregge: da lui deriva e dipende in certo modo la vita dei suoi fedeli in Cristo. Perciò tutti devono dare la piú grande importanza alla vita liturgica della diocesi che si svolge intorno al Vescovo, principalmente nella chiesa cattedrale, convinti che c’è una speciale manifestazione della Chiesa nella partecipazione piena e attiva di tutto il popolo santo di Dio alle medesime celebrazioni liturgiche, soprattutto alla medesima Eucaristia, alla medesima preghiera, al medesimo altare cui presiede il Vescovo circondato dai suoi sacerdoti e ministri» (Sacrosanctum Concilium, n. 41).

Un testo che viene ripreso dal Cerimoniale, che aggiunge:

«Dunque le sacre celebrazioni presiedute dal Vescovo, manifestano il mistero della Chiesa a cui è presente Cristo; perciò non sono un semplice apparato di cerimonie … In tempi determinati e nei giorni piú importanti dell’anno liturgico si preveda questa piena manifestazione della Chiesa particolare a cui siano invitati il popolo proveniente dalle diverse parti della diocesi e, per quanto sarà possibile, i presbiteri» (nn. 12-13).

«La principale manifestazione della Chiesa locale si ha quando il Vescovo, come grande sacerdote del suo gregge, celebra l’Eucaristia soprattutto nella chiesa cattedrale, circondato dal suo presbiterio e dai ministri, con la partecipazione piena e attiva di tutto il popolo santo di Dio. – Questa Messa, chiamata stazionale, manifesta l’unità della Chiesa locale e la diversità dei ministeri attorno al Vescovo e alla sacra Eucaristia. – Quindi ad essa siano convocati quanti piú fedeli è possibile, i presbiteri concelebrino con il Vescovo, i diaconi prestino il loro servizio, gli accoliti e i lettori esercitino le loro funzioni» (n. 119).

«Questa forma di Messa sia osservata soprattutto nelle maggiori solennità dell’anno liturgico, quando il Vescovo confeziona il sacro crisma e nella Messa vespertina in Cena Domini, nelle celebrazioni del santo fondatore della Chiesa locale o del patrono della diocesi, nel giorno anniversario dell’ordinazione del Vescovo, nelle grandi assemblee del popolo cristiano, nella visita pastorale» (n. 120).

Nel comunicato con cui si informa della decisione di Papa Francesco, si aggiunge: «Com’è noto, la Messa della Cena del Signore è caratterizzata dall’annuncio del comandamento dell’amore e dal gesto della lavanda dei piedi» (21 marzo 2013). Anche in questo caso il Cerimoniale dei Vescovi appare piú completo e preciso:

«Con questa Messa dunque si fa memoria della istituzione dell’Eucaristia, o memoriale della Pasqua del Signore, con la quale si rende perennemente presente tra di noi, sotto i segni del sacramento, il sacrificio della nuova alleanza; si fa ugualmente memoria della istituzione del sacerdozio, con il quale si rende presente nel mondo la missione e il sacrificio di Cristo; infine si fa memoria dell’amore con cui il Signore ci ha amati fino alla morte. Il Vescovo si preoccupi di proporre opportunamente ai fedeli tutte queste verità mediante il ministero della parola, affinché possano penetrare piú profondamente con la loro pietà in cosí grandi misteri e possano viverli piú intensamente nella vita concreta» (n. 297).

La lavanda dei piedi è certamente un momento significativo della celebrazione del giovedí santo, ma sarebbe un errore considerarlo il suo elemento essenziale. Tanto è vero che non è un rito obbligatorio: esso viene compiuto solo «dove motivi pastorali lo consigliano» (n. 301). Purtroppo, negli ultimi anni, in diversi luoghi, esso è stato caricato di significati che esorbitano dal suo valore originario.

Qualcuno dirà che sto facendo di un’inezia una montagna; qualcuno mi accuserà di pignoleria, se non addirittura di rubricismo o di legalismo; qualcuno sicuramente scomoderà anche i farisei, che accusavano Gesú di non osservare la legge quando guariva di sabato; qualcuno dirà che voglio insegnare il mestiere al Papa. Ciascuno dica quel che vuole. Nessuno però può impedirmi di pensare che certe decisioni, apparentemente innocue, potrebbero avere conseguenze devastanti:
a) innanzi tutto, disattendendo le norme esistenti, anche quelle che potrebbero apparire secondarie, si rischia di mettere in discussione alcuni valori fondamentali, che il Concilio ha rimesso in luce e ha voluto che divenissero patrimonio comune della Chiesa;
b) in secondo luogo, potrebbe passare l’idea che le norme ci sono, sí, ma non è poi cosí importante rispettarle: se il Papa ritiene possibile trascurarle, significa che non sono poi cosí importanti; e se lo fa lui, perché non potrei fare io altrettanto?;
c) inoltre si potrebbe dare l’impressione che non esista alcuna norma oggettiva e stabile, valida per tutti e per sempre, ma che tutto dipenda esclusivamente dalla discrezionalità del responsabile di turno;
d) infine c’è il rischio che il relativismo, tanto osteggiato a parole nella società, diventi di fatto la norma suprema anche all’interno della Chiesa.

scisma

Germania, Chiesa separata in casa
di Michele Poropat



In questi giorni circola con insistenza sul web un breve video tratto dalla telecronaca diretta dell’emittente polacca TV TRWAM della visita di Papa Benedetto XVI in Germania risalente al settembre 2011, e che mostrerebbe - così affermano coloro che fanno circolare questo video - una presunta umiliazione subita dal Papa da parte dei vescovi tedeschi, la maggioranza dei quali non gli stringerebbe la mano.

In realtà le cose stanno diversamente. A un’attenta analisi delle immagini si vede bene come il Papa alzi la mano non per stringere la mano ai vescovi, bensì per presentare i membri della delegazione vaticana e i vescovi tedeschi all'allora Presidente Christian Wulff – tra l’altro, al primo posto tra i dignitari ecclesiastici in fila, si vede il Cardinal Bertone. Trae in inganno il fatto che alcuni vescovi stringano comunque la mano al Papa, gesto che non faceva parte del protocollo. Il Papa viene 'disturbato' nella presentazione proprio dalle strette di mano impreviste, e il Presidente, di confessione cattolica e che quindi conosceva molto bene i vescovi che gli venivano presentati, va avanti per conto suo, quasi senza aspettare il Papa. Da qui l'immagine del Papa un poco spaesato e in ritardo rispetto alle strette di mano di Wulff.

Ma un motivo per cui è stato facile equivocare quelle immagini è nel fatto inconfutabile che Papa Benedetto XVI non sia stato particolarmente amato nel suo Paese. Primo Papa tedesco da un millennio a questa parte (Adriano VI, eletto nel 1522, era infatti originario di Utrecht, e quindi olandese), ha subito trovato l’ostilità dei suoi connazionali. Le voci piuttosto contrariate dei commentatori della rete televisiva tedesca ZDF al momento dell’annuncio della sua elezione, il viso teso e sconsolato dei cardinali Lehmann e Kasper intervistati la sera stessa dalla medesima ZDF, il saluto assai poco deferente rivoltogli nel 2005 nel Duomo di Colonia quale «vescovo di Roma alla sua prima visita pastorale al di fuori dei confini della sua diocesi», il fatto che tra i suoi connazionali, fedeli laici ma anche sacerdoti, il Papa sia stato comunemente chiamato Herr Ratzinger, fanno comprendere con quale scarso amore buona parte della Chiesa tedesca abbia accolto l’elezione al soglio di Pietro di questo grande figlio della terra bavarese.

Dalla maggioranza dei vescovi dell’area linguistica tedesca Benedetto XVI è stato fatto oggetto di una malcelata ostilità personale, poiché considerato come il continuatore delle politiche dei suoi predecessori, da Paolo VI a Giovanni Paolo II, che avrebbero affossato le riforme del Concilio Vaticano II. Il Papa è stato considerato come il massimo rappresentante di un’esecrabile visione conservatrice, per non dire reazionaria, della Chiesa e della sua azione nel mondo, e caratterizzata da una forte chiusura alla modernità e alle vere esigenze del popolo di Dio.

Questa ostilità si è tradotta, già durante il pontificato di Giovanni Paolo II, ma in modo ancora più marcato con Benedetto XVI, in un progressivo allontanamento della Chiesa locale tedesca dalla giurisdizione della Santa Sede e quindi della Chiesa universale. Con il pretesto di instaurare un ‘processo di dialogo’ tra la componente più conservatrice e fedele al Papa, in Germania decisamente minoritaria, e quella che rappresenta posizioni più liberali, i vescovi hanno di fatto istituito uno pseudo Concilio locale destinato a ridisegnare le posizioni della Chiesa tedesca su quelli che vengono considerati i temi ecclesiali più bollenti e attuali: il cosiddetto sacerdozio femminile, l’abolizione del celibato dei sacerdoti, un allentamento della morale sessuale e la liceità dell’utilizzo dei contraccettivi, l’accettazione dell’omosessualità, l’ammissione alla Comunione dei divorziati risposati e dei protestanti, quindi gli stessi temi su cui insistono i ribelli austriaci della Pfarrerinitiative guidati da Helmut Schüller.

Constatando che la soluzione di questi problemi a livello di Chiesa universale avverrebbe con eccessiva lentezza, la Chiesa tedesca ha deciso di intraprendere un cammino che rappresenta in pratica la sua trasformazione in Chiesa autocefala, con il ridimensionamento del ruolo del Papa, da quello di detentore della giurisdizione e del primato sulle realtà temporali e spirituali dell’intera Chiesa universale (e quindi anche della sua porzione operante entro i confini della Repubblica Federale Tedesca) a quello di primus inter pares, che può vantare una vaga autorità spirituale e una scarsa, se non nulla, potestà giuridica.

Non si tratta di un piano segreto, bensì di un progetto attuato passo dopo passo alla luce del sole. In un’intervista concessa lo scorso dicembre all’agenzia tedesca di informazione cattolica KNA, l’arcivescovo di Friburgo e Presidente della Conferenza Episcopale tedesca, Mons. Robert Zöllitsch, ha auspicato l’avvio di un processo di ‘regionalizzazione’ nell’applicazione di soluzioni dei problemi della Chiesa, vale a dire che con riferimento ai temi scottanti menzionati in precedenza, cominciando dall’ammissione alla Comunione dei divorziati risposati, la Chiesa tedesca sarebbe andata per conto suo senza tenere conto delle regole stabilite dal magistero ordinario del Santo Padre. Se questo non è uno scisma, poco ci manca.

In questa direzione va anche intesa anche la risposta dello stesso Mons. Zöllitsch alla lettera che Benedetto XVI ha inviato ai vescovi tedeschi chiedendo la modifica della traduzione del passo in latino del canone della Santa Messa pro multis da für alle (per tutti) a für viele (per molti). Per il vescovo di Friburgo la missiva del Papa rappresentava «un importante contributo al dibattito in corso», formulazione un poco singolare se vista dall’ottica di chi considera il Papa il pastore supremo della Chiesa universale, quindi in possesso della facoltà di stabilire un tale cambiamento, ma perfettamente lineare per chi lo vede come un’autorità le cui indicazioni non sono vincolanti.

Del resto, questa tendenza è confermata apertamente dal Card. Kasper, il quale, in una recente intervista ha affermato che serve «una nuova modalità nell’esercizio del governo della Chiesa», la cosiddetta collegialità, che andrebbe a suo dire nella direzione richiesta dal Concilio Vaticano II, e sarebbe una manifestazione «dell’unità nella diversità tra tutti i credenti nel Vangelo e di un maggiore dialogo con le altre religioni». Tale ‘collegialità’, secondo Kasper, «deve estendersi dai vescovi a forme di rappresentanza di tutte le componenti del popolo di Dio». Lo stesso Card. Lehmann, durante una Messa di suffragio di Papa Giovanni Paolo II nel 2005, ha lamentato la scarsa capacità di dialogo del defunto pontefice all’interno della Chiesa.

Abbandonando il clericalese, due tra le maggiori personalità ecclesiali tedesche reclamano appunto un ridimensionamento dell’autorità del Papa (la presunta ‘collegialità’), e sotto il pretesto del ‘dialogo’, l’annacquamento dei principi su cui si fonda la fede cattolica a motivo di un falso sentimento di unità con le altre confessioni cristiane e le altre religioni, un pericolo denunciato da Paolo VI già nel 1968 e fondato sullo stravolgimento dei principi fondanti il Concilio Vaticano II.

In Germania, e più in generale nei Paesi di lingua tedesca, sta avvenendo con metodicità l’attuazione, passo dopo passo, dei desiderata della Pfarrerinitiative. Del resto, i vescovi austriaci hanno iniziato a dare qualche buffetto – ma nessun provvedimento restrittivo serio – a Schüller e ai suoi seguaci solamente quando questi hanno lanciato il cosiddetto ‘Appello alla disobbedienza’. Non è apparsa inaccettabile la sostanza delle richieste dei ribelli, bensì il fatto che essi abbiano usato la parola tabù: disobbedienza, appunto.

Bisogna purtroppo notare come in questi Paesi l’azione pastorale dei vescovi abbia ormai assunto i tratti di un’inestricabile babele, una cacofonia di voci che distolgono i fedeli dal cammino verso la salvezza.
Abbiamo così due cardinali arcivescovi (Schönborn di Vienna e Woelki di Berlino) che pubblicamente hanno mostrato comprensione verso le unioni omosessuali, mentre altri due cardinali (Lehmann, vescovo di Magonza e l’ex curiale Kasper), col pubblico plauso di Schüller, si dichiarano favorevoli al diaconato femminile, richiesta di natura esclusivamente tattica, e che rappresenta il tentativo di aprire il terreno a una futura ‘ordinazione sacerdotale’ delle donne. A quest’ultima si sono detti pubblicamente favorevoli Iby di Eisenstadt in Austria (ora dimissionato), Büchel di San Gallo in Svizzera e Fürst di Rottenburg-Stoccarda in Germania. Il cardinale Meisner di Colonia, tra l’altro millantando un presunto via libera del Papa attraverso Mons. Georg Gänswein,  ha invece aperto la strada all’autorizzazione a somministrare la ‘pillola del giorno dopo’ alle donne vittime di stupro, misura che con sorprendente rapidità è stata in seguito presa dall'intera Conferenza Episcopale tedesca.

C’è chi, come il vescovo di Salisburgo Kothgasser, nel corso di un incontro con i sacerdoti della sua diocesi ha affermato che la pedofilia nel clero rappresenta una diretta conseguenza dell’imposizione del celibato  - un sacerdote presente a quell’incontro ha dichiarato: «Io, che vivo il celibato, mi sono sentito accusare di essere un pedofilo o potenziale pedofilo» -. Nella Diocesi di Linz, il vescovo Schwarz ha mantenuto per tre anni Josef Friedl nel suo incarico di parroco di Ungenach, prima che questi si ritirasse per motivi di salute, nonostante egli avesse pubblicamente ammesso di convivere con una donna - oltre a constringerlo a dimettersi da decano, l’unico rimprovero fatto dal vescovo al suo sacerdote, è stato quello di averne parlato in pubblico-. Da notare anche che proprio il parroco Friedl è stato uno dei più violenti oppositori alla nomina di mons. Gerhard Wagner a vescovo ausiliare di Linz, opposizioni che hanno costretto Wagner a rinunciare alla nomina.

Germania, maiale in cattedrale

Il vescovo di Hildesheim, in Germania, Mons. Robert Trelle, lo scorso anno ha avuto la brillante idea di festeggiare la fine della ristrutturazione della locale cattedrale organizzando in essa un pranzo con le maestranze che avevano svolto i lavori a base di porchetta allo spiedo e fiumi di birra. Come fosse normale, la stessa Diocesi ha posto le fotografie del pranzo sul proprio sito Internet, salvo poi ritirarle una volta scoppiate le polemiche per una tale profanazione del luogo sacro.

Nella Cattedrale di Bamberga, in Baviera, in occasione dei 1000 anni dalla sua costruzione, nel marzo dello scorso anno si è tenuta una mostra di arte moderna. Le immagini ‘moderne’, presunte rivisitazioni di passi della Sacra scrittura, poste accanto alle immagini sacre, e che definire blasfeme è davvero poco sono chiamate Hortus conclusus, ed è il modo in cui l’autore vede la Vergine Maria (richiamata dal Cantico dei Cantici appunto come orto chiuso), hanno trovato l’entusiastica lode del vescovo locale, Mons. Ludwig Schick, secondo il quale questa mostra ha rappresentato un invito a vivere di nuovo le opere d'arte del Duomo in modo più intenso, nonché a osservare e valutare l'arte contemporanea. Secondo Schick, con la mostra si dà un segno che l'«arte non è alla fine, bensì continua, continua a essere creata, anche l'arte religiosa. Ciò che è di religioso nell'uomo, lo spirituale, il meditare su ciò che Dio dà agli uomini, può essere stimolato attraverso il confronto con l'arte contemporanea» (per vedere quale ‘stimolo’ religioso sia esercitato dal confronto con l’arte contemporanea vedi qui)

Al contrario, i vescovi fedeli al Papa senza tentennamenti subiscono emarginazione e dileggio: un esempio di tale situazione è rappresentato da mons. Vitus Huonder, vescovo di Coira in Svizzera, malvisto dai media, ma anche dai suoi confratelli vescovi e dagli stessi sacerdoti della sua diocesi - pochissimi parroci lo accolgono nelle proprie parrocchie per il conferimento della Cresima.

martedì 26 marzo 2013

è papa, ma non lo vuole dire

Cosa rischia di diventare il Papato?



Sono allibita da quel che vado leggendo nell'ultimo articolo di Sandro Magister: È papa ma non lo vuole dire. Lascio alla vostra lettura e valutazione il discorso, che si fa complesso e innovativo in termini inimmaginabili ed è approfondito e puntualizzato da un articolo di Gianfranco Ghirlanda su La Civiltà Cattolica. Si sta dipanando sotto i nostri occhi e imponendo alle nostre coscienze turbate una nuova 'forma' di esercizio del ministero petrino, già potenzialmente inquinato dalla "collegialità", alla quale si aggiunge ora, del tutto inopinatamente, la cosiddetta "conciliarità".
Non mi metto a riflettere sul combinato intreccio delle affermazioni di Documenti come la Lumen Gentium (1964), Ut unum sint (1995), Novo millennio ineunte (2001), il Nuovo Codice di Diritto Canonico (1983) che trasformò in legge la collegialità. Ecco cosa scrisse Giovanni Paolo II nel suo decreto di promulgazione del Codice:
« Se ora passiamo a considerare la natura dei lavori che hanno preceduto la promulgazione del Codice, come pure la maniera con cui essi sono stati condotti, specialmente sotto i pontificati di Paolo VI e di Giovanni Paolo I e di poi fino al giorno d’oggi, è assolutamente necessario rilevare in tutta chiarezza che tali lavori furono portati a termine in uno spirito squisitamente collegiale. E ciò non soltanto si riferisce alla redazione materiale dell’opera ma tocca altresì in profondo la sostanza stessa delle leggi elaborate.
Ora, questa nota di collegialità, che caratterizza e distingue il processo di origine del presente codice, corrisponde perfettamente al magistero e all’indole del Concilio Vaticano II. Perciò il Codice, non soltanto per il suo contenuto, ma già anche nel suo primo inizio, dimostra lo spirito di questo Concilio, nei cui documenti la Chiesa «universale sacramento di salvezza (Cfr. Cost. Dogm. sulla Chiesa Lumen Gentium, nn. 1, 9, 48), viene presentata come Popolo di Dio e la sua costituzione gerarchica appare fondata sul Collegio dei Vescovi unitamente al suo Capo ».[Costituzione Apostolica Sacrae disciplinae leges, 25 gennaio 1983]
Il lungo circostanziato articolo del canonista Ghirlanda così conclude:
« La X Sessione plenaria della Commissione mista internazionale per il dialogo teologico fra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa (Ravenna 8-15 ottobre 2007), nel documento sottoscritto intitolato «Le conseguenze ecclesiologiche e canoniche della natura sacramentale della Chiesa. Comunione ecclesiale, conciliarità e autorità (documento di Ravenna)» (27), pone la reciproca interdipendenza tra primato e conciliarità al livello locale, regionale e universale, per cui «il primato deve essere sempre considerato nel contesto della conciliarità e, analogamente, la conciliarità nel contesto del primato» (n. 43). Questa visione dà una dinamicità al modo di concepire il ministero pontificio in una proiezione verso un futuro che ogni fedele vorrebbe vedere realizzato [!?] ».
Ricordo che il documento di Ravenna - promotore il pluri-citato (dal nuovo Papa) card. Kasper - fu accolto con alcune riserve [documentai a suo tempo le perplessità di diverso ordine del Patriarcato di Mosca], mentre ora viene riproposto sic et simpliciter senza remore. Esso aggiunge alla collegialità la cosiddetta conciliarità, peraltro nel documento non riferita propriamente al Vaticano II. Tuttavia si corre ugualmente il rischio di riconoscere ad esso, in virtù della collegialità che evoca e che si intende realizzare, una ulteriore funzione costitutiva e fondante una nuova realtà che va a toccare il cuore stesso della Chiesa e della sua identità nella persona del Romano Pontefice. Il problema non è solo sugli evidenti segnali di apertura nei confronti dei "fratelli separati" Orientali, ma anche su quelli nei confronti delle altre confessioni cristiane, che non possiamo di punto in bianco non considerare più eretiche. Appaiono scelte che contengono un messaggio preciso, sia nel senso della collegialità episcopale, sia nel senso dell'ecumenismo. Inoltre il problema non è nell'apertura in sé; ma nel fatto che venga escluso il reditus.

Avrei molte riflessioni da fare, ma me ne astengo perché non è il mio ruolo: questioni come questa necessitano di esser prese in considerazione da chi di dovere e meriterebbero una grande smentita dotata della dovuta autorevolezza. Ma temo che queste avvisaglie preludano a tutto fuorché ad una smentita. Non dimentichiamo che qualunque adeguamento ai tempi operato attraverso 'forme'  su essi modulate, porta lontano dalla fontale primazialità voluta dal Signore. Infatti ogni 'forma' veicola e manifesta una sostanza corrispondente pur se implicita. Difendere la manifestazione della sostanza significa difendere la sostanza stessa, nella consapevolezza che la negazione di una dimensione accidentale rischia di essere un ferimento che la sostanza può sopportare solo fino ad un certo punto.
 

eucaristia

Ferrandina: chiusura delle XL Ore 2013







lunedì 25 marzo 2013

Magdi (non più) Cristiano Allam

La confusione di Magdi (non più) Cristiano Allam

di Federico Catani
Se qualcuno si aspetta dal sottoscritto un commento sul nuovo Papa è meglio che salti questo pezzo. Io, dell'elezione e dei primi gesti di Papa Francesco non parlo. Per il momento si intende. Non ho intenzione di accodarmi alle preoccupazioni dei tradizionalisti più tradizionalisti della Tradizione, né tanto meno al coro di lodi più o meno pelose dei tanti, tantissimi entusiasti. Staremo a vedere. Il tempo ci dirà se si tratta di un Papa donato da Dio, oppure tollerato, oppure ancora inflitto.

Resta il fatto che, in tutti e tre i casi, Francesco è e sarà, fino a prova contraria, il Vicario di Cristo, cui ogni cattolico deve amore e obbedienza. Ciò non toglie la possibilità e la libertà di critica per quel che è opinabile, ma pure questa critica deve avvenire con rispetto filiale. Altrimenti nessuno ci obbliga a restare nella Chiesa. I sedevacantisti ci sono, stanno pure in Italia e si può benissimo andarli a trovare: sarebbe se non altro una scelta più coerente rispetto a quella di chi  parla e agisce come se fossimo in sede vacante e poi di fatto preferisce scegliere la via più comoda, ovvero restare cattolico brontolone e quasi autocefalo. Consiglierei di rivolgersi agli amici sedevacantisti anche a Magdi (non più) Cristiano Allam. Ma dubito che possa anche solo sapere della loro esistenza. E in ogni caso, a ben pensarci e per quel che so di quei gruppi, non credo troverebbe molta accoglienza.
Perché tiro fuori Magdi (non più) Cristiano Allam? Perché oggi, sulla prima pagina del Giornale (quotidiano di famiglia cui tributiamo tutto il nostro rispetto, da ammiratori più o meno motivati del grande Duce Sua Eccellenza il Cavaliere Silvio Berlusconi) ha scritto un editoriale in cui, candidamente, come nulla fosse, dichiara di essere deluso dalla Chiesa e di volerla lasciare. Lì per lì, quando ho letto, non volevo credere ai miei occhi. Ho stimato Allam come giornalista, sebbene non sia mai stato un punto di riferimento per il mio cattolicesimo, essendo troppo laico e troppo filo-giudaico. Però caspita, i discorsi che faceva erano in gran parte validi, specie ultimamente e le simpatie nei suoi confronti erano condivise anche da molti esponenti del mondo tradizionalista. La foto messa a corredo di questo pezzo – nonché l'intervista che ci ha rilasciato poche settimane fa – sta a testimoniarlo, ahimé.


Ebbene, il giornalista di origine egiziana, come tutti sanno, è da anni considerato il simbolo della lotta al fondamentalismo islamico. Una lotta che è sfociata in una radicalizzazione delle sue posizioni sull'islam e culminata nella conversione al cattolicesimo, avvenuta esattamente cinque anni fa con il Battesimo ricevuto niente popò di meno che da Benedetto XVI in San Pietro. Oggi sappiamo che Magdi (non più) Cristiano Allam non ci aveva capito una mazza. Sarebbe interessante sapere cosa gli ha spiegato mons. Rino Fisichella, che l'ha seguito nel suo cammino e che adesso è a capo del dicastero vaticano per la nuova evangelizzazione (andiamo bene!). Ma il problema resta la zucca di Allam. Sia chiaro, molte delle critiche, se non tutte, che egli rivolge alla Chiesa sono condivisibili. Sarebbe stato meglio però specificare che ad essere relativista, buonista, remissiva verso l'islam e così via non è la Chiesa, di per sé indefettibile in quanto Corpo Mistico di Cristo, ma gli uomini di Chiesa: alcuni, molti uomini di Chiesa, che però non sono la Chiesa.

Gli uomini di Chiesa hanno bruciato Giovanna d'Arco e la Chiesa l'ha canonizzata; gli uomini di Chiesa hanno perseguitato padre Pio e la Chiesa l'ha poi elevato all'onore degli altari. Se questi concetti possono non esser chiari all'uomo laico della strada, non dovrebbero venire ignorati da un intellettuale neoconvertito. Il quale peraltro, se poteva meritare simpatia per gli attacchi all'andazzo dominante oggi in casa cattolica (peccato non abbia però capito che una delle cause di questa crisi sia proprio quel Concilio Vaticano II grazie al quale, diciamocelo, si è convertito), è diventato ridicolo e assolutamente condannabile per la frase contro la morale sessuale della Chiesa, su cui non si può transigere né dibattere. Così scrive Magdi (non più) Cristiano Allam: la Chiesa «impone dei comportamenti che sono in conflitto con la natura umana, quali il celibato sacerdotale, l'astensione dai rapporti sessuali al di fuori del matrimonio, l'indissolubilità del matrimonio»

Ma come, fino all'altro ieri questo tizio sbraitava a favore dei valori non negoziabili, sostenendo di essere l'unico politico (?) a volerli difendere, e oggi se ne esce con una frase così? O è pazzo, o ci sono doppi fini oppure non ci ha capito niente. Al momento propendiamo per quest'ultima opzione. Tra l'altro, sa questo giornalista che la Chiesa è cattolica, dunque universale? Sa che il suo Magistero non può essere ridotto a ideologia? Sa poi che dalla Chiesa non si esce come da un qualsiasi movimento politico o circolo ricreativo? Sa inoltre che, oltre a rendersi ridicolo, con questo articolo fornisce un'altra vittoria ai progressisti cattolici, che da sempre l'hanno criticato per il suo conservatorismo? I modernisti avranno buon gioco adesso nel dire: "Vedete? Ve l'avevamo detto che era solo un teocon!". E ancora, non si rende conto che le critiche (legittime e giuste a mio avviso) a Giovanni paolo II e Benedetto XVI si riferiscono a fatti avvenuti ben prima del suo Battesimo? Se n'è accorto solo adesso?

Infine, se veramente uno si è convertito, parla della sua crisi di coscienza con un confessore. Non va a scrivere sulla prima pagina di un quotidiano nazionale (peraltro di famiglia e quindi da noi omaggiato, eccetera eccetera). Questo non è un comportamento cattolico. Così come non è cattolico dire Cristo sì, Chiesa no, come fa lui. Andasse a bruciare Corani con qualche fondamentalista protestante, oppure scelga il vigore anti-islamico (e anti-cattolico) di certi frequentatori delle sinagoghe. La Chiesa non subirà una gran perdita. Mi vien da ridere, poi, nel pensare a quei tanti bravi cattolici che alle ultime elezioni hanno votato Io amo l'Italia. Senza offese, ma ora come la metteranno?
Ma il fondo di Allam dà una lezione anche a noi cattolici più o meno tradizionalisti. Alle volte abbiamo coccolato troppo questi strani tipi. Allam, Ferrara, Pera, Del Valle ed altri ancora sosterranno pure posizioni giuste in certi campi. Ma attenti a lodarli troppo. Se non hanno fede, il rischio di strumentalizzarci ci può essere sempre. E attenti pure a parlare sempre e solo di valori non negoziabili. Vita, famiglia, libertà di educazione non si discutono, certo, e sono importantissimi. Ma oggi in casa cattolica ciò che manca è la fede. Dobbiamo tornare a mettere al centro Gesù, la Madonna, la Trinità, l'Eucaristia, la Croce, la Messa. Altrimenti arriveremo pure noi a sostenere che il crocifisso a scuola ci deve stare perché è un segno culturale o che l'aborto è ingiusto solo perché va contro il diritto naturale. No. Noi dobbiamo fare questo, ma premettendo sempre che prima di tutto vanno rispettati i diritti di Dio. 

Cari amici tradizionalisti, tenetevi alla larga dai teocon, dagli atei devoti e dai filo-sionisti e filo-yankee: hanno fatto il loro tempo. E può sempre scapparci fuori qualche cattiva sorpresa!

vescovo di roma

Papa o Vescovo di Roma?



Lo stemma di Papa Francesco, come già lo stemma di Sua Santità Benedetto XVI, reca in capo non il Triregno ma la Mitra episcopale.
È stato anche notato che Papa Francesco preferisce parlare di sé come Vescovo di Roma, e di Sua Santità Benedetto XVI come Vescovo emerito di Roma, anziché come Romano Pontefice, e Pontefice emerito.
Durante la trasmissione radiofonica “Protestantesimo” del 17 marzo u.s.[1], un autorevole esponente della comunità evangelica italiana, ostentando grande soddisfazione, ha commentato tale atteggiamento come una rinuncia alla potestà universale (“Cattolica”), da parte della Chiesa di Roma, la quale si diminuirebbe alla mera potestà locale.
Anche un noto esponente del mondo culturale italiano, il professor Massimo Cacciari, in una intervista al vaticanista Paolo Rodari, collaboratore de “la Repubblica” e de “Il Foglio Quotidiano” di Giuliano Ferrara, afferma di essere rimasto colpito dal “fatto che continuamente dice di essere il ‘vescovo’ di Roma e mai il ‘Papa’, il ‘Pontefice’. È un cambio sostanziale. Significa che egli si concepisce ‘primus inter pares’, una visione di sé che può avere ripercussioni enormi su tutta la cristianità.[2]
Curiosamente sembra che si ignori il fatto che fin dai primi secoli i Vescovi di Roma, e perciò successori alla Cattedra di Pietro, ebbero il riconoscimento della loro autorità sulle altre Chiese locali proprio in quanto Vescovi di Roma.
Senza dover sfogliare i numerosi testi editi di tutte le antiche fonti che provano tale autorità, e qui si rimanda all’ampia bibliografia esistente sul Primato del Vescovo di Roma, basta limitarsi a quanto scrive Sant’Ignazio di Antiochia, morto martire durante il principato di Traiano (53 – 117).
Egli afferma che la Chiesa di Roma “Προκαθημένη τ˜ης ʹαγάπης”. [3]
Il santo vescovo di Antiochia usa il verbo “Προκαθημαι” che significa, come troviamo in Aristotele (384-322 a.C.) e Platone (427-347 a.C.) [4], “comandare, governare”. Correttamente il colto Gesuita editore di questa fonte, il padre Marie-Joseph Rouët de Journel S.J (1880-1974), traduce latinamente in nota la frase come “universo caritatis coetui praesidens[5]: ossia “che è a capo[6] dell’universa comunità dell’amore”, cioè la Chiesa Cattolica.
Costantemente i Papi si impegnarono a rivendicare “la prerogativa di successori del ‘principe degli apostoli’.”[7]
Il papa fondava i suoi diritti di capo supremo di tutte le chiese del mondo cristiano, il suo primato d’onore ed il suo primato di giurisdizione rispetto a tutti gli altri vescovi, sulla volontà stessa del Salvatore, espressa nelle parole del triplice messaggio da Lui rivolto al principe degli apostoli durante la predicazione ‘in partibus Cæsareæ Philippi’ (Matth., XVI, 18-19); a Gerusalemme nell’ultima cena (Luca, XXII, 31-32); nella terza comparsa dopo morte agli apostoli, sulle rive del lago di Tiberiade (Ioh., XXI, 15-17). Presso l’imperatore a Bisanzio il papa manteneva una rappresentanza permanente, religiosa  ed insieme diplomatica, costituita dai responsales o apocrisiarii apostolici, che avevano la loro residenza ufficiale nel palazzo di Placidia[8]
In effetti “in mancanza di strutture proprie della Chiesa atte ad assicurare lo svolgimento dei concilii ecumenici, l’Impero forniva le strutture organizzative necessarie. Senza il servizio postale imperiale, che dava modo ai vescovi di riunirsi, senza i cancellieri, gli scribi, gli stenografi dell’amministrazione imperiale, che registravano i dibattiti e curavano la redazione degli atti, i concilii ecumenici sarebbero stati impossibili.
Ma la Chiesa romana non tardò a munirsi di scrinia, ‘uffici’ propri, che le consentissero di fare fronte autonomamente ai compiti derivanti dal principatus che vantava sulle altre chiese. Il modello per la creazione dei nuovi scrinia papali fu costituito dagli esistenti scrinia imperiali.” [9]
L’importanza data all’essere Vescovo di Roma e Successore di Pietro fece sì che fino al Pontefice Innocenzo III[10] si usasse come titolo pontificale quello di Vicario di Pietro, piuttosto che di Vicario di Cristo: “L’espressione ‘vicarius Christi’, che già appare nella terminologia ecclesiastica sin dal secolo III, non si afferma nell’età patristica come un titolo caratteristico ed esclusivo di una persona o di un ufficio. Le applicazioni, derivate dal significato originario del termine, sono varie, e tutte mantenute in una forma generica: i sacerdoti in genere ed i vescovi in particolare sono chiamati i vicarii di Cristo perché il loro ministero è quello di essere i visibili rappresentanti del Signore presso i fedeli; d’altra parte, lo stesso titolo è attribuito all’imperatore, in quanto designa il compito provvidenziale e la maestà del governo umano del mondo. Anche il papa veniva chiamato vicario di Cristo (come testimonia il Sinodo romano del 495), senza pertanto che se ne facesse un titolo del Primato, come invece avvenne per l’altra espressione ‘vicarius Petri’. (…) Non mancano testimonianze che danno il titolo di ‘vicarius Christi’ al romano pontefice, si deve però riconoscere che appaiono isolate, e sono piuttosto da considerarsi applicazioni particolari al papa di un titolo comune anche ai vescovi. Come titolo papale, domina invece ‘vicarius Petri’, ereditato dall’età patristica, che acquista un’importanza assai notevole per la dottrina del Primato.[11]
Se il titolo di successore di Pietro fondava il Primato della Chiesa di Roma su tutte le altre chiese, veniva però a comportare un onere particolare del Vescovo di Roma verso il suo popolo, che poi vedremo estendersi all’Italia peninsulare ed alle isole: “Dio aveva voluto che S. Pietro, per fondare la sua Chiesa, fra tutte scegliesse la Città eterna. Di S. Pietro si era dunque valso il Signore, per mostrare che Egli, fra tutti, prediligeva il popolo di Roma, come si era valso di Mosé per annunciare la sua predilezione, fra tutti, al popolo d’Israele. Dio stesso aveva perciò affidato a S. Pietro ed alla Chiesa il popolo romano come suo ‘peculiaris’, in quanto composto dalle pecorelle del ‘dominicus grex’, perché fosse particolare oggetto della preminente missione apostolica, di cui il principe degli Apostoli era stato investito per bocca dello stesso Figlio di Dio. Cristo, nella sua vita mortale, era stato il ‘vere pastor’, non ‘mercennarius’, il ‘pastor bonus’, delle pecorelle, che prima avevano riconosciuto nella sua la voce del proprio Signore, e fidenti si erano raccolte nel suo ovile. Allo stesso modo S. Pietro, in virtù dell’investitura ricevuta da Cristo, era stato nella sua vita mortale il ‘vere pastor’, non ‘mercennarius’, il ‘pastor bonus’, in primo luogo del popolo romano, e questo era diventato il ‘populus peculiaris’ suo e della sua Chiesa, e Roma era stata il suo ‘proprium ovile’.
Il martirio di S. Pietro aveva consacrato la posizione privilegiata di Roma, in quanto la Città Eterna era rimasta custode dei suoi resti corporei, venerati dai fedeli nella tomba, sulla quale un imperatore, Costantino Magno, aveva eretto la basilica intitolata al suo nome. Per volere di Dio, le attribuzioni affidate da Cristo a S: Pietro erano di volta in volta ed integralmente passate a ciascuno dei papi, che si erano susseguiti sulla cattedra episcopale di Roma, in quanto successori e vicari del principe degli Apostoli.
I papi avevano dunque il divino mandato di continuarne l’opera, nell’assolvimento della preminente missione pastorale, conservando pura ed ardente nei secoli la fiamma, che dalla tomba di S. Pietro dava fulgore di verità e di vita spirituale all’universo mondo cristiano, ed in vigilando in primo luogo sulle sorti di Roma e del suo ‘populus peculiaris’. Alle sorti della Città Eterna e del popolo romano erano infatti strettamente legati il fulgore ed il calore di quella fiamma.[12]
Per capire quale fosse l’estensione del gregge peculiare di Pietro secondo i varï pontefici che si succedettero nell’implorare Carlo Martello ed i suoi discendenti un aiuto contro l’aggressione dei Longobardi contro il “populus peculiaris beati Petri[13], si veda la lettera con cui Carlo Magno rinnova a papa Adriano I(†795) le promesse fatte da suo padre a papa Stefano II (†757) sulla restituzione delle “civitates et territoria beato Petro[14], terre e città che andavano dalla Corsica alla pianura padana alle Venezie, scendendo fino a Benevento.[15] Inoltre “a sua volta Ludovico il Pio, confermando le promesse dell’avo e del padre, assegnò al Papa Pasquale I – se non è interpolato in questo punto il suo ‘Pactum confermationis’ dell’817 – anche la Sicilia, la Sardegna e le altre isole adiacenti.[16]
È interessante notare un’analogia fra l’epoca attuale e quella in cui si strutturò il Patrimonium Petri, ciò che sarebbe diventato lo Stato della Chiesa: e cioè il disintegrarsi dello Stato moderno oggi, pressato dall’attacco del Libero Mercato (cfr. LepantoFocus n. 13 e n. 8), e dell’Impero Romano d’Oriente ieri, indebolito da lotte interne, da guerre esterne ed infine dall’ondata islamica.
La sovranità temporale del Vescovo di Roma nasce non dal desiderio di conquista ma dal desiderio di servire i bisognosi, sostituendosi gradualmente a quella sorta di Welfare State prima garantito dall’Impero:
Le fonti relative al Papato a partire dal V secolo sono ricche di riferimenti agli interessi dei Papi per la manutenzione di strade e ponti, il restauro di edifici pubblici o la riparazione di acquedotti, attività che in precedenza erano state finanziate dalla tesoreria pubblica di Roma (…)
Le erogazioni a favore degli indigenti avevano costituito una delle principali voci di spesa della Roma imperiale; col tempo, tuttavia,la Chiesa aveva cominciato a svolgere un’importante funzione integrativa nell’assistenza ai bisognosi. L’approvvigionamento alimentare e la carità costituiscono due esempi illuminanti di come il governo papale si inserisse in ambiti precedentemente di competenza dello Stato romano (…)
Vale la pena di notare che, nel momento in cui aumentarono il numero degli indigenti e le loro sofferenze, quando l’approvvigionamento alimentare fu messo in forse e le relazioni con Bisanzio si fecero tese, il governo papale diede vita ad una nuova istituzione – la diaconia – per fronteggiare questi problemi (…) Le diaconie romane non avevano nulla a che vedere con i diaconi distrettuali della città o con i distretti nei quali i diaconi officiavano. Erano nate come enti caritatevoli nei monasteri egiziani del IV secolo e il loro nome deriva dal greco diakonein, ovvero ‘servire’ (…) le prime diaconiæ romane fecero la loro comparsa nel 684-85 e già allora il termine (…) indicava uno specifico tipo di ente caritatevole (…) all’epoca di Adriano I, i poveri di un quartiere si riunivano il venerdì presso una diaconia da dove, al canto dei salmi, venivano condotti in processione fino alle terme più vicine. Dopo le abluzioni veniva loro distribuito il cibo (…)
All’inizio del IX secolo sembra che esse perdessero la loro particolarità di centri di distribuzione di derrate alimentari ‘per il sostentamento dei poveri’, per estendere il proprio servizio a tutta la popolazione di Roma.[17]
In questo tempo di grave crisi mondiale riconosciamo nel Vescovo di Roma Francesco il Pastore della Chiesa Universale ed insieme l’amoroso Buon Pastore del suo gregge particolare di Roma e d’Italia.
Claudio Bernabei
Centro Culturale Lepanto
lepanto@lepanto.org


[1] Spazio concesso da RAI-Radio Uno alla comunità protestante italiana dalle ore 07,35 alle ore 07,55 ca. della domenica.
[2] Paolo Rodari, È un pontefice pronto a stupire ma nel campo dei temi etici non farà strappi alla dottrina, in “la Repubblica”, 20 marzo 2013 .
[3] Sant’Ignazio di Antiochia, Epistula ad Romanos, in Marie-Josef Rouët de Journel S.J., Enchiridion Patristicum, Friburgo, Herder, 1922, p.18, 52.
[4]Προκαθημένον της πόλεως” “Chi è a capo dello Stato”, Platone, Leggi, 758 d.
[5] Marie-Josef Rouët de Journel S.J., cit., ibidem.
[6] “Praesidens”: presidente, governatore, capo, in Ferruccio Calonghi, Dizionario Latino-Italiano, Torino, Rosenberg & Sellier, 1967, alla voce.
[7] Girolamo Arnaldi, Le origini dello Stato della Chiesa, Torino, UTET, 1987, p.7.
[8] Ottorino Bertolini, Roma di fronte a Bisanzio e ai Longobardi, Bologna, L. Cappelli Ed., 1941, pp. 14-15.
[9] G. Arnaldi, cit., pp. 7-8.
[10] Nato come Lotario dei Conti di Segni nel 1161, morto il 16 luglio 1216. 176° Pontefice, incoronato il giorno del 37* compleanno, l’8 gennaio 1198.
[11] Michele Maccarrone, Il Papa “Vicarius Christi” (dal XII al XIV secolo), in AAVV, Miscellanea Pio Paschini, Roma, Lateranense, 1958, vol. I, pp. 427-428.
[12] Ottorino Bertolini, Il concetto di “restitutio” nelle prime cessioni territoriali (756-757) alla Chiesa di Roma, in Miscellanea Pio Paschini, cit., pp. 116-117.
[13] O. Bertolini, Restitutio …, cit., p.109.
[14] Antonino Trombetta, La sovranità pontificia sull’Italia meridionale e sulla Sicilia, Casamari, Tipografia dell’Abbazia, 1981, p. 10.
[15] Ibidem.
[16] Ibidem.
[17] Thomas F.X. Noble, La Repubblica di San Pietro, Genova, ECIG, 1998, pp. 217-219.
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chiesa povera

Giuda, San Pio X e il Curato d'Ars

La vera povertà che ogni membro della Chiesa deve vivere...



   " ...ci torna alla memoria la più genuina povertà di San Pio X, che indossava una croce pettorale tempestata di gemme preziose e che solo dopo la sua morte si è saputo essere una copia identica all'originale, venduto per fare la carità ai poveri senza alcun comunicato della sala stampa vaticana. 
   Quel santo Pontefice, allorché era Patriarca di Venezia, soleva salire in treno nella carrozza di prima classe (come si addice ad un Principe della Chiesa), per poi viaggiare in terza e ridiscendere, una volta giunto a destinazione, dalla prima..."


La vera ricchezza che ogni membro della Chiesa deve coltivare ... 

   Il grande S. Giovanni Maria Vianney (il curato d'Ars) aveva una dotazione di sagrestia da fare invidia a quella di qualche cattedrale (e alcuni dei paramenti che lui aveva acquistato per la chiesetta di Ars sono oggi visibili -e ammirabili- nel museo). 
   Quando aveva il denaro per acquistare dei paramenti si recava dal suo fornitore lionese e, ad ogni esibizione del paramentivendolo, diceva: no, non è abbastanza bello, serve qualcosa di più bello ancora.
   Nessuno salti su a dire che il Santo Curato d'Ars era un maniaco della forma. Tutt'altro! 
   Personalmente andava in giro con la sottana lisa, ma all'altare tutto doveva risplendere di bellezza per il Signore, il Re dei Re. 
   A chi gli faceva notare la sua sottana rappezzata rispondeva: una vecchia sottana ben si accorda con una bella pianeta. 
( Mons. Fourrey "vita autentica del S. Curato d'Ars).


Quello che ognuno deve evitare...
   Allora Giuda Iscariòta, uno dei suoi discepoli, che stava per tradirlo, disse: «Perché non si è venduto questo profumo per trecento denari e non si sono dati ai poveri?». 
   Disse questo non perché gli importasse dei poveri, ma perché era un ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro. 


Tante volte la si pensa come Giuda: "Cristo deve essere povero" = sciatteria nelle nostre Chiese; mentre nelle nostre case c'è il superfluo del superfluo...

Nel Vangelo di oggi Gesù non dice: "Giuda hai ragione, datelo ai poveri", ma
«Lasciala fare, perché ella lo conservi per il giorno della mia sepoltura. I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me».

Come San Pio X e il Curato d'Ars sappiamo risparmiare del nostro per darlo ai poveri, ma diamo al Signore il meglio di quello che possiamo dargli...

domenica 24 marzo 2013

Satana

Papa Francesco e il Diavolo

Controllate pure: i principali siti internet non ne parlano o quasi. Papa Francesco torna a parlare del diavolo e i mass media, quei furbetti, scelgono, filtrano, selezionano. Col risultato che passaggi molto interessanti, anzi decisivi dei suoi discorsi – ancora pochi ma già molto significativi - vengono censurati, messi da parte, lasciati alla pignoleria e alla curiosità di chi ha la pazienza di leggerseli integralmente. E’ successo qualche giorno fa, quando Papa Francesco ha sì invitato ad un dialogo con l’Islam ma ha pure sferrato un vibrante attacco al relativismo sulla scia di Benedetto XVI, attacco subito nascosto, ed è accaduto oggi, col suo invito a fare attenzione perché «quando il cammino della vita si scontra con problemi e ostacoli che sembrano insormontabili […] in questo momento viene il nemico, viene il Diavolo, mascherato da angelo tante volte, e insidiosamente ci dice la sua parola». Non ascoltatelo – ha poi aggiunto – perché c’è Gesù da seguire, e con Lui è tutta un’altra musica.

Forte, no? Certo, il Cristianesimo è ben altro che puro timore del Maligno, ci mancherebbe. Però è anche vero che una delle ragioni dell’odierno crollo della dottrina e della riduzione dell’insegnamento cristiano a filantropia mielosa sta proprio nella rimozione del Diavolo, di quel nemico tante volte «mascherato da angelo», e conseguentemente dell’Inferno. Perché, parliamoci chiaro, se uno – ciascuno di noi – non rischia la dannazione eterna, che diamine di senso ha impegnarsi e seguire Cristo per guadagnarsi il Paradiso? Sarebbe pura perdita di tempo. Il problema è talmente serio che negli anni passati esegeti come Hubert Haag hanno pubblicato libri fuorvianti sin dal titolo – «Addio al diavolo» – e s’è pure cercato di attribuire in tutti i modi ad un teologo del calibro di Hans Urs von Balthasar l’idea di «inferno vuoto», idea apertamente respinta dallo stesso von Balthasar (Cfr. Von Balthasar H.U. Sperare per tutti. Breve discorso sull’inferno, Jaca Book, Milano 1997, p. 123).

Morale (cattolica): il Diavolo c’è, eccome se c’è. Infatti Papa Francesco, che è un pastore vero e che tiene al destino delle proprie pecore, non teme di esprimersi chiaramente, ci ricorda il problema dei lupi e quello, ancora peggiore, del nemico «mascherato da angelo», la facile soluzione a problemi difficili, la scorciatoia, l’inganno comodo e maledetto. Perché la sola via d’uscita, «quando il cammino della vita si scontra con problemi e ostacoli che sembrano insormontabili», continua ad essere Lui, Gesù Cristo, il vero Autore della speranza, che diversamente scemerebbe anch’essa in sterile ottimismo, in auspicio debole e provvisorio. Invece Gesù c’era, c’è e ci sarà. Ed oggi c’è anche, grazie a Dio, Papa Francesco, questo pontefice che parla come un parroco di campagna: senza troppi giri di parole, con chiarezza, mettendoci in guardia anche da quei pericoli che una certa teologia mondana e salottiera ci chiede di sottovalutare. Papa Francesco, insomma, parla chiaro. Anche se i mass media, quei furbetti, fanno di tutto per nasconderlo.


Benedetto XVI: i peccati del clero sono la più terribile persecuzione de...

il perdono non sostituisce la giustizia



venerdì 22 marzo 2013

Papa Francesco e i gesuiti

Papa Francesco, figlio di Sant’Ignazio di Loyola 

da Daniele Fazio



Papa Francesco in un sol colpo ha condensato su di sé tre primati: è il primo a prendere il nome del Santo d’Assisi, patrono d’Italia, il primo Vescovo di Roma a provenire da un paese extra-europeo, l’Argentina, e il primo ad appartenere alla Compagnia di Gesù. Se sui primi due primati fiumi di parole sono state scritte, il terzo primato – quello dell’appartenenza alla schiera dei figli di Sant’Ignazio – è quello che patisce più di tutti silenzio od è oggetto di fugaci riferimenti. Eppure per chi non vuole restare alla superficialità della valanga di notizie di cui ci inondano i media – dalla fidanzatina dodicenne del ragazzetto Jorge Mario alla telefonata del Papa all’edicolante con cui lo prega di non conservargli più il quotidiano – “orpelli” che più che esaltare il messaggio vero di questo Pontefice lo nascondono considerevolmente, facendoci arrestare solamente alla soglia della sua mentalità – è proprio alla sua radice formativo-spirituale che dobbiamo andare, ovvero alla spiritualità ignaziana, per vedere come ogni sua parola abbia a riferimento la più genuina e fedele forma mentis gesuitica. Certo, sono stati ricordati alcuni passi decisivi della sua vita, come quello ripreso dal libro intervista Il gesuita, in cui l’allora Cardinale Bergoglio spiega la sua scelta della Compagnia con queste parole: «fui attratto dal loro essere una forza di avanzata della Chiesa, perché nella Compagnia si usava un linguaggio militare, perché c’era un clima di obbedienza e disciplina. E perché era orientata al compito missionario». E ancora viene ricordato il suo dissenso nei confronti dell’ubriacatura che la teologia della liberazione prese molti suoi confratelli, opponendolo al Preposito Generale di allora padre Pedro Arrupe. E non può sfuggire altresì il simbolo “IHS” della Compagnia messo in bella vista nel suo stemma episcopale ed ora pontificio. Fatti interessanti e significativi, ma che non vanno al “cuore” se così possiamo dire dell’esser gesuita. La straordinaria consegna, suscitata dallo Spirito Santo, che il santo ex-militare di Loyola fa alla Chiesa del suo tempo, ma anche alla Chiesa dei secoli avvenire è un libretto, scarno ed essenziale, chiamato Esercizi spirituali. La forza del manipolo di Cristo che ha da lottare contro le ciurme di Satana, sta tutto in quel testo che più che esser raccontato va svolto. 

Gli Esercizi, infatti, sono una palestra spirituale, una grande scuola di preghiera e conversione, che ci permettono nel silenzio di ascoltare la voce di Dio e di vederci come Egli ci vede e quindi di scoprire cosa è veramente fondamentale nella vita dell’uomo. Quando nel XVI secolo lo spirito “mondano” dell’Umanesimo e del Rinascimento era penetrato a tal punto nella Chiesa che la Sede di Pietro era diventata come una qualsiasi corte dell’epoca, la necessità della riforma era straordinariamente visibile. Non si trattava tanto di un’opera di restyling curiale, ma di affrontare la problematica in radice. Papa Paolo III insieme ai suoi collaboratori avevano preso sul serio l’opera di una Riforma cattolica e fu proprio in quel tempo, come racconta lo storico Christopher Dawson, che «apparve a Roma un gruppetto di pellegrini spagnoli e savoiardi, ex studenti di Parigi, guidati da un ex soldato della Navarra, venuti ad offrirsi come volontari per servire la Chiesa e il Papato dove e come fosse più necessario. Essi incontrarono la stessa opposizione subita dai cardinali riformatori e proprio attraverso lo stesso cardinal Contarini le loro proposte di una nuova società furono sottoposte al Papa» (cfr. La divisione della cristianità occidentale, Fondazione d’Ettoris, Lamezia Terme 2009, p. 158). Fu così che gli Esercizi spirituali apparvero come il più urgente progetto di riforma della Chiesa e della cristianità. Da quel momento chiunque, chierico o laico che fosse, impegnato nell’opera del rinnovamento inaugurata dal Concilio di Trento, fece gli Esercizi. L’ottica sulla riforma così cambiò totalmente, non si trattava di un problema di struttura, ma di “cuore” e gli Esercizi puntano proprio al centro della persona per muoverla per Cristo, liberandola da qualsiasi altro impedimento, incitandola alla sua sequela nel contesto di una visione militante della vita spirituale. Senza contemplazione non c’è riforma. Al tempo la ricetta diede i risultati sperati tanto che «ciò fu sufficiente a mutare le vite degli uomini e ad apportare cambiamenti di lunga portata nella società e nella cultura» ( Ivi, p. 160). Da allora gli Esercizi si diffusero in tutta la Chiesa, raccomandati da tutti i papi, divennero la “fucina” in cui si forgiarono numerosi santi. La Meditazione iniziale detta Principio e fondamento, quella dei Due stendardi e della Regalità di nostro Signore, sono veramente decisive e muovono l’animo verso l’essenziale della vita cristiana: la salvezza dell’anima e la maggior gloria di Dio. Per conseguire ciò occorre che si abbia la forza di abbandonare tutto ciò che in questo cammino ci è di ostacolo e abbracciare tutto ciò che concorre verso l’obiettivo finale, al di là della contingenze in cui la persona può trovarsi: salute, malattia, ricchezza, povertà. In questo combattimento spirituale l’opzione è tra due: o la stirpe della Vergine o la stirpe del serpente, tertius non datur. 

Qui nasce l’entusiasmo della sequela del Signore, che passa a chiamarci nonostante le nostre miserie usandoci misericordia. È il Re crocifisso che ci promette non solo le stesse sue sofferenze, ma anche la sua stessa gloria. Secondo fonti non ufficiali, ma attendibili il Papa nell’Omelia che ha tenuto nella Messa del 15 Marzo, celebrata nella cappella della Domus Sanctae Martae, è andato proprio agli Esercizi spirituali ricordando un principio essenziale del cosiddetto discernimento degli spiriti ignaziano. Secondo quanto riferisce un Cardinale presente, Francesco – spiegando la Prima Lettura del giorno tratta dal Libro della Sapienza in cui si evidenza il fatto che gli empi vogliono mettere alla prova il giusto “con violenze e tormenti, per conoscere la sua mitezza e saggiare il suo spirito di sopportazione”, ma essi “non conoscono i misteriosi segreti di Dio, né credono a un premio per una vita irreprensibile” – ha ricordato ai presenti la regola ignaziana: “nel tempo della desolazione non si facciano mai mutamenti, ma si resti saldi e costanti nei propositi e nelle decisioni che si avevano nel tempo della consolazione”. Altrimenti – ha aggiunto –, se si cede e ci si allontana, quando il Signore torna a rendersi visibile "rischia di non trovarci più" (cfr. Sandro Magister, Il nome di Francesco, la regola di sant'Ignazio e l'esempio di Giona, in www.chiesa.espresso.repubblica.it). Torniamo allora ai primi insegnamenti ufficiali di Papa Francesco. Nella prima Omelia ai fratelli Cardinali che lo hanno eletto ha offerto un quadro tipicamente, se così possiamo esprimerci, ignaziano. Nella vita cristiana bisogna camminare, edificare, confessare. Ma come? Tenendo gli occhi puntati su Cristo e Cristo crocifisso: unica nostra gloria. Non cammina, non edifica e non confessa Cristo, colui che non lo vede come il crocifisso. Qui scatta subito la polarizzazione, o Cristo o Satana: «quando non si confessa Gesù Cristo, mi sovviene la frase di Léon Bloy: “Chi non prega il Signore, prega il diavolo”. Quando non si confessa Gesù Cristo, si confessa la mondanità del diavolo, la mondanità del demonio» (Papa Francesco, Omelia Santa Messa con i Cardinali, Cappella Sistina 14.03.2013). E ancora il giorno dopo nell’Udienza concessa agli stessi li ha incoraggiati a non cedere al “pessimismo” e “all’amarezza” che il diavolo offre ogni giorno. Parole queste che sicuramente hanno guastato la festa degli esponenti del progressismo teologico o di qualche laicista intento ad arruolare Papa Bergoglio in paradigmi rivoluzionari e modaioli e che da tempo avevano rubricato il demonio e la sua azione come “ignoranza medievale”. Ma, visto il nocciolo del problema, ovvero quel combattimento spirituale continuo contro l’aggressione del maligno, non è finito affatto il respiro ignaziano di Papa Francesco. Per ben incominciare è necessario pregare e per pregare è necessario mettersi alla presenza di Dio. Come? Con il silenzio. Ignazio sovente negli Esercizi fa appello al silenzio per mettersi alla presenza di Dio e farsi riempire da Lui. Sono questi i “primi due esercizi” che il neoeletto Vescovo di Roma ha fatto compiere al popolo che lo acclamava, quasi a sottolineare che in ogni situazione e contesto è necessario cercare la gloria di Dio, come il santo di Loyola sulla scia di San Paolo, gli ha insegnato. 

Questa ricerca della gloria di Dio è stata declinata, innanzitutto, come un “custodire” l’opera che Lui ha compiuto: dall’uomo al creato, con una particolare attenzione alla custodia del disegno di Dio inscritto nella natura – e basterebbe questo per comprendere quanto è distante l’ottica del Pontefice da quelli che troppo facilmente lo vogliono, d’altronde come san Francesco, un tesserato del WWF piuttosto che di qualsivoglia sigla ambientalista – e alla custodia di se stessi che è «vigilare sui nostri sentimenti, sul nostro cuore, perché è proprio da lì che escono le intenzioni buone e cattive: quelle che costruiscono e quelle che distruggono» (Papa Francesco, Omelia S. Messa d’inizio Pontificato, 19.03.2013). La natura è la traccia del Creatore sia intesa come natura umana che come ambiente geofisico. I biografi di Ignazio concordano nel rilevare che le creature e la natura lo elevavano a Dio, il Padre Nadal testimonia che riusciva a vedere la Trinità in una foglia di arancio. Ma, per vincere nel nostro cuore la battaglia e discernere il bene dal male, ovvero per saperci “custodire”, dobbiamo far regnare Cristo, su Lui deve essere fisso il nostro sguardo. Questo la Chiesa ha sempre insegnato, rilanciandolo con il Concilio Vaticano II di cui quest’anno si celebra il cinquantesimo anniversario e per cui Papa Benedetto XVI ha dedicato uno speciale Anno alla Fede, che Francesco vede, sulla sua scia, come «una sorta di pellegrinaggio verso ciò che per ogni cristiano rappresenta l’essenziale: il rapporto personale e trasformante con Gesù Cristo, Figlio di Dio, morto e risorto per la nostra salvezza» (Papa Francesco, Udienza ai delegati fraterni, 20.03.2013). Questa verità va detta a tutti e portata fino agli estremi confini della terra. Torna ancora Ignazio e il suo ardente desiderio di essere l’avanguardia dell’evangelizzazione in tutto il mondo. Il più grande missionario dei tempi moderni esce dalle fila dei gesuiti ed è formato direttamente dal fondatore. Infatti, è lo stesso Ignazio che intercettando Francesco Saverio tra i banchi dello studio teologico di Parigi lo “inchioda” alla considerazione del fine ultimo e gli dedica più di quaranta giorni di Esercizi spirituali. Dopo questi Francesco Saverio partirà per l’Estremo Oriente spendendosi per la propagazione del Vangelo. Anche Bergoglio aveva a quanto pare insistito perché potesse essere mandato missionario in Giappone, ma motivi di salute, hanno portato al diniego da parte dei superiori, non per questo ha spento in sé l’ansia missionaria, messa in atto nella sua terra natale. Si aggiunga a questo la particolare devozione che nutre nei confronti di Teresa di Lisieux, la santa carmelitana claustrale, patrona proprio della missioni. La terra natale di Bergoglio è stata oggetto della grande evangelizzazione che soprattutto i gesuiti compirono nel Centro e Sud America, facendo nascere dall’incontro tra le culture e la buona Novella quella cristianità ispanoamericana che a pieno titolo entra a far parte di quella che è stata definita con una metafora suggestiva “Magna Europa”. 

Quest’ansia missionaria – la cui derivazione non può che essere evangelica – propria dei gesuiti e del cuore di Papa Francesco sin dalle prime parole che Egli ha rivolto ai fedeli della diocesi di Roma e del mondo è apparsa evidente: «vi auguro che questo cammino di Chiesa, che oggi incominciamo […], sia fruttuoso per l’evangelizzazione di questa città tanto bella»(Papa Francesco, Benedizione apostolica Urbi et Orbi, 13.3.2013). E ancora ai Cardinali in udienza: «Pastori e fedeli, ci sforzeremo di rispondere fedelmente alla missione di sempre: portare Gesù Cristo all’uomo e condurre l’uomo all’incontro con Gesù Cristo Via, Verità e Vita, realmente presente nella Chiesa e contemporaneo in ogni uomo. Tale incontro porta a diventare uomini nuovi nel mistero della Grazia, suscitando nell’animo quella gioia cristiana che costituisce il centuplo donato da Cristo a chi lo accoglie nella propria esistenza» (Papa Francesco, Udienza ai Cardinali, 15.03.2013). 

E ancora: «abbiamo la ferma certezza che lo Spirito Santo dona alla Chiesa, con il suo soffio possente, il coraggio di perseverare e anche di cercare nuovi metodi di evangelizzazione, per portare il Vangelo fino agli estremi confini della terra (cfr At 1,8). La verità cristiana è attraente e persuasiva perché risponde al bisogno profondo dell’esistenza umana, annunciando in maniera convincente che Cristo è l’unico Salvatore di tutto l’uomo e di tutti gli uomini. Questo annuncio resta valido oggi come lo fu all’inizio del cristianesimo, quando si operò la prima grande espansione missionaria del Vangelo» (Ibidem). Una suggestiva metafora ci viene proprio dalle terra natale di Papa Francesco ed è stata formulata dal filosofo argentino Alberto Caturelli, nonché rilanciata in un libro di Giovanni Cantoni, reggente nazionale di Alleanza Cattolica. Caturelli ci parla del “quinto viaggio di Colombo”. Il riferimento è all’Ammiraglio genovese che con la sua grandiosa scoperta dell’America consentì l’espansione del Vangelo in quelle nuove terre. In tutto Cristoforo Colombo (il cui nome significa “portatore di Cristo”), compì quattro viaggi verso il nuovo mondo. Caturelli, considerando il clima di secolarizzazione della Vecchia Europa s’immagina una “restituzione” in qualche modo del dono dell’evangelizzazione contratto più di cinquecento anni fa. Ecco Caturelli: «Benché il corpo dell’Ammiraglio riposi in terra di Spagna, lo spirito colombiano, prendendo la rotta del secondo Mediterraneo o del mare Oceano, deve dare inizio ad un nuovo viaggio, che ha come punto di partenza il Nuovo Mondo. Sarebbe non un viaggio di scoperta, bensì di ritorno; l’Ammiraglio non pianterà la croce a Guanahaní, bensì sulle spiagge dell’Iberia e del Vecchio Mondo. Nel 1492 partì verso l’ignoto [...] e scoprì il Nuovo Mondo [...]; ritornando, l’Ammiraglio Cristoforo avrà compiuto la sua missione, poiché, come diceva [...], Dio “concede a tutti coloro che percorrono i suoi sentieri di ottenere ciò che appare impossibile”. E l’impossibile non sarà la scoperta, ma la riconversione del Vecchio Mondo a Cristo. Perciò “la cristianità del Nuovo Mondo” [...] nel mondo d’oggi deve compiere due missioni essenziali analoghe a quelle che portarono a termine i missionari del secolo XVI» (Cfr., Il nuovo mondo riscoperta. La scoperta. La conquista. L’evangelizzazione dell’America e la cultura occidentale, trad. it. Pier Paolo Ottonello, Ares, Milano 1992, pp. 368-370) Giovanni Cantoni nel testo Per una civiltà cristiana nel Terzo millennio. La coscienza della Magna Europa e il quinto viaggio di Colombo (Sugarco 2008) individuava alcuni pensatori cattolici quali protagonisti di questo viaggio e in qualche modo proseguendo la suggestiva metafora vogliamo pensare che questo “viaggio di ritorno” abbia nell’argentino Papa Francesco oggi il principale protagonista di quella nuova evangelizzazione che non può non essere l’inizio embrionale di una nuova cristianità, anche nella vecchia e stanca Europa, vessata dalla secolarizzazione. 

Eppur si chiama Francesco, qualcuno potrà giustamente pensare. Anche questa peculiarità sorprendentemente può esser considerata una scelta pienamente ignaziana. È proprio il fondatore dei gesuiti che nel letto della convalescenza – come spiega sapientemente Hugo Rahner S.I. – ha davanti a sé due esempi: Francesco d’Assisi e Domenico di Guzman. Leggendo le loro imprese si ripete: «Domenico ha fatto questo, ebbene devo farlo anche io; san Francesco ha fatto questo; ebbene devo farlo anch’io» (Autobiografia, 7). Possiamo dire allora che Francesco d’Assisi è uno dei decisivi “motivatori” vocazionali di Ignazio di Loyola, il cui esempio e ardore resteranno sempre impressi nella sua mente. Proprio il logo della compagnia “IHS” Ignazio lo ha mutuato, se così possiamo dire da ambiente francescano, in quanto conosciuto grazie al largo utilizzo che un frate minore, San Bernardino da Siena, ne aveva fatto nella sua predicazione. Esercitato ad essere un contemplativo in azione, siamo certi che gli esempi e l’ardore del Santo d’Assisi saranno impressi anche nella mente e nel cuore di Papa Franscesco, figlio di Sant’Ignazio di Loyola che, tra tutti i gesuiti che si sono succeduti nei secoli, per la prima volta nella storia, ha avuto la provvidenziale ventura di ricoprire il ministero petrino, cui la Compagnia di Gesù è sin dai suoi albori costitutivamente legata per via di quel quarto voto che indica esplicitamente obbedienza al Papa.