martedì 30 settembre 2014

defende nos in proelio

Il soffio infernale della superbia




PREGHIERA

Principe gloriosissimo, e nostro inclito protettore, 
Arcangelo S. Michele, 
che da secoli ricevi l'omaggio di culto affettuoso, 
e di invocazione perenne da questo popolo, 
che sempre tenesti come popolo tuo, 
continua a difendere le nostre famiglie, 
i nostri ricordi, i nostri commerci, 
preservando da pericoli i nostri naviganti e i nostri figli 
che si trovano sparsi nel mondo; 
ma più preservaci dal soffio infernale della superbia, 
principio di tutti i peccati. 
E giacché nella cara tua immagine 
rappresenti il rispetto all'autorità, 
e calpesti la ribellione e la prepotenza, 
noi stretti alla tua scuola di umiltà e di ubbidienza, 
seguiremo fedelmente la tua gloriosa bandiera 
che è la bandiera immacolata di Gesù Cristo e della Chiesa. 
Così in mezzo ad un mondo 
che folleggia di presunzione e di indipendenza, 
formeremo la schiera eletta dei figli di Dio; 
e all'ombra delle tue ali sicuri ti seguiremo 
per goderlo nei secoli eterni.
Amen.

la Fede? una palla al piede


I bagagli scomodi della Chiesa





Si rende sempre più comune la convinzione che per vivere la fede, per trasmettere la fede ai lontani (nelle periferie esistenziali del mondo o della vita o delle coscienze e via dicendo), la dottrina ( e quindi la Tradizione, quella che i Padri definiscono la regula fidei) sia relativa, o secondaria se non addirittura inutile, anzi molte volte un peso! Tanto la fede si riconduce ad un 'esperienza che basta a se stessa, che spiega se stessa! Una convinzione, o meglio un sentire, che serpeggia in maniera più o meno consapevole fra non pochi cattolici seriamente impegnati e che tende ad opporre drasticamente l'esperienza religiosa, la fede come esperienza alla dottrina della fede.


Ma cos’è la fede? La risposta a questa domanda non ammette equivoci, dopo la definizione del Concilio Vaticano I, riproposta dal nuovo Catechismo della Chiesa cattolica: “la fede è l’adesione della ragione, mossa dalla grazia, alle verità rivelate da Dio, per l’autorità di Dio stesso che ce le rivela. Le verità rivelate sono dette tali perché sono contenute, in maniera esplicita o implicita, nella rivelazione divina, conclusa con la morte dell’ultimo apostolo”. 



Premesso ciò, il Cristianesimo, certo, è anche esperienza, ma l’esperienza è per sé stessa, incomunicabile senza diventare un fatto soggettivo, variabile, se non volubile; mentre ciò che si può comunicare sono i princìpi che precedono l’esperienza e da cui l’esperienza dipende. Nessuno mette in dubbio l’esistenza dell’esperienza religiosa che, sotto certi aspetti, è la forma più alta di vita cristiana. L’esperienza è infatti una conoscenza immediata e diretta della realtà, come ci insegna San Tommaso e tutta la tradizione tomistica della Chiesa. Nel percorso di Mons. Luigi Giussani questo aspetto è particolarmente evidente: l’esperienza religiosa non solo non nega la credibilità razionale della fede, ma la presuppone. Mentre nella prospettiva di coloro che pretendono di esaurire la fede nell'esperienza, prescindendo o relativizzando la razionalità dei motivi, posiamo dire che essa si trasforma in una fede diluita e proteiforme. Qualche esempio! Chi potrà dire al buddista che la sua esperienza religiosa non sia vera, mentre la tua si? Esperienza è la sua ed esperienza è la tua. Chi potrà dire al protestante che la sua adesione alla fede luterana sia meno vera della tua. Esperienza è la sua ed esperienza è la tua! Chi potrà dire all'anziano signore convertitosi a ottant'anni ai TdG che la sua scelta è errata, che quella fede non salva! Ti risponderà: come mi hanno abbracciato questi fratelli non mi ha abbracciato nessuno! E allora? Attendiamo un abbraccio migliore? E chi ti dice che ci sia? E che quell'abbraccio sia vero solo perchè migliore? L’esperienza religiosa ha valore solo se sottomessa alla ragione, alla rivelazione e al magistero, all'oggetività delle verità di fede immutabili! Questo da sempre la Chiesa crede e professa! 

Oggi si è smarrita la vera nozione di fede, perché la si riduce a sentimento del cuore, a pura esperienza, dimenticando che essa è un atto razionale, che ha come oggetto la verità. L’intelletto è la sola facoltà spirituale che può far proprie le verità proposte dalla rivelazione.

Perché l’esperienza religiosa sia vera e non sia un’illusione ci vuole invece un criterio di verità. Il problema di fondo è come determinare l’autenticità dell’esperienza. L’esperienza religiosa può essere solo esperienza del vero Dio e della vera religione: non è un generico sentimento di dipendenza dall’assoluto, di umano beneficio o gratificazione, ecc..
Ogni errore ha delle conseguenze.

L’esperienza, dunque, poiché il cristianesimo esige non solo di essere conosciuto, creduto, pensato, ma anche vissuto. Ma “esperienza” è concetto ambiguo che porta inevitabilmente con sé una quota di soggettivismo e rischia di relativizzare la fede. Se è vero che il cristianesimo è incontro con Cristo, bisogna insegnare dove ordinariamente avviene: nella Chiesa e nei suoi sacramenti. Certamente il Signore può trovare altre strade per intercettare un’anima, dalla bellezza di un tramonto all’affetto di una “compagnia”. Ma Cristo si incontra nei sacramenti, dal battesimo alla confessione passando per l’eucarestia, e nella preghiera. Per questo vado a messa, mi confesso, mi comunico, mi inginocchio e prego. Perché nel corso della giornata vorrei avere occhi solo per vedere Gesù, ma so che, senza di Lui, non ho la forza per farlo.

Il resto è terreno sdrucciolevole, sul quale i sentimenti rischiano di accecare la ragione e l’esperienza rischia di mangiarsi la verità. Un territorio dove concetti veri come “fascino”, “attrazione”, “risposta alla domanda dell’uomo” possono illudere che seguire Cristo sia l’assecondare una gradevole strada in discesa, mentre è proprio il contrario. L’uomo deve combattere contro tutto ciò che in ogni momento lo spingono lontano da Cristo, deve lottare con la sua “debolezza mortale” ci ricorda la liturgia della Chiesa. E deve vigilare perché il peccato e il male diventano persino un veicolo privilegiato da pilotare per tenere comodamente insieme l’incontro con Cristo e una vita lontana dal Decalogo, dando del moralista a chi lo fa notare e in barba proprio a quel Cristo che ammonisce “Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama”.

Per uno di quei paradossi che ne fanno l’unica religione vera, il cristianesimo è esaltante perché indica a tutti il povero orizzonte di quelli che il vecchio Chesterton chiamava i cristiani comuni. Quelli che credono giusto il bere e biasimevole l’ubriachezza, che credono normale il matrimonio e anormale la poligamia, che condannano chi colpisce per primo e assolvono chi ferisce in propria difesa. Quelli che pensano, e quindi compiono, ciò che la dottrina ha sempre insegnato e, loro sì, sono avviati verso il Paradiso.
Insomma, si certamente, esistono tanti modi di vivere ed esprimere la fede. Ma questi sono legittimi solo in quanto non contraddicono la dottrina della fede formulata dalla Chiesa. È sempre essenziale la convergenza tra dottrina e vita. 


Don Matteo De Meo



Domanda: In questi tempi si insiste molto sulla dimensione pastorale piuttosto che sulla proclamazione della Verità. Si dice: << <<..A chi vive nel deserto esistenziale del nostro mondo non si può proporre la vera dottrina ma un abbraccio.>> Che dire in proposito?


Risposta: Prima di tutto va detto che non c'è pastorale senza verità. Non c'è nessun abbraccio che sia buono se non è nella verità e se non porta alla verità. Come recentemente ha affermato il cardinale Muller ( Prefetto della Congregazione della dottrina della fede) non c'è contrapposizione tra pastorale ( l'abbraccio) e la verità, Cristo maestro e Cristo pastore ( cioè che abbraccia) non sono due Cristi diversi; Cristo è maestro ed è pastore, ed è pastore proprio in quanto è maestro.
La pastorale ( l'abbraccio della Chiesa) è la traduzione della verità sul piano della predicazione e dell'azione cristiana. E' sempre la verità che "informa", nel senso di "dare forma", "dare contenuto", alla pastorale, non il contrario.
Il pastore cosa deve fare? Deve guidare le pecore e proteggerle dai lupi, cioè dai pericoli. Guidare significa orientare verso una meta e non c'è meta senza conoscenza. Proteggere significa mettere in guardia dai pericoli, non solo individuarli, ma anche denunciarli e renderli riconoscibili a tutti affinché nessuno possa lasciarsi irretire.
L'errore logico di qualcuno è di credere che più verità è uguale a meno carità o misericordia .... ma basta un po' studiare i duemila anni di storia della Chiesa per accorgersi che la difesa della verità non è stato mai considerato un atto di poca carità o misericordia! Dire che il matrimonio è indissolubile non è mancare di misericordia verso gli altri....ma amarli veramente! Un papà che non dica al figlio che il fuoco brucia perché altrimenti il figlio potrebbe sentirsi represso o inibito nelle sue esperienze non è un vero papà, è un delinquente. Quindi insegnare, custodire, difendere la retta dottrina è la più grande misericordia della Chiesa verso l'uomo che si trova nel deserto esistenziale altrimenti è solo inutile sentimentalismo. Comunque si possono rileggere con calma e meditare: J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo e L. Giussani, La coscienza religiosa nell'uomo moderno. 

lunedì 29 settembre 2014

terzomondializzazione dell’Europa

Il piano Kalergi: il genocidio dei popoli europei




L’immigrazione di massa è un fenomeno le cui cause sono tutt’oggi abilmente celate dal Sistema e che la propaganda  multietnica si sforza falsamente di rappresentare come inevitabile. Con questo articolo intendiamo dimostrare una volta per tutte che non si tratta di un fenomeno spontaneo. Ciò che si vorrebbe far apparire come un frutto ineluttabile della storia è in realtà un piano studiato a tavolino e preparato da decenni per distruggere completamente il volto del Vecchio continente.
LA PANEUROPA
Pochi sanno che uno dei principali ideatori del processo d’integrazione europea fu anche colui che pianificò il genocidio programmato dei popoli europei. Si tratta di un oscuro personaggio di cui la massa ignora l’esistenza, ma che i potenti considerano come il padre fondatore dell’Unione Europea. Il suo nome è Richard Coudenhove Kalergi. Egli muovendosi dietro le quinte, lontano dai riflettori, riuscì ad attrarre nelle sue trame i più importanti capi di stato, che si fecero sostenitori e promotori del suo progetto di unificazione europea.[1]
Nel 1922 fonda a Vienna il movimento “Paneuropa” che mira all’instaurazione di un Nuovo Ordine Mondiale basato su una Federazione di Nazioni guidata dagli Stati Uniti. L’unificazione europea avrebbe costituito il primo passo verso un unico Governo Mondiale.
Con l’ascesa dei fascismi in Europa, il Piano subisce una battuta d’arresto, e l’unione Paneuropea è costretta a sciogliersi, ma dopo la Seconda Guerra Mondiale Kalergi, grazie ad una frenetica e instancabile attività, nonché all’appoggio di Winston Churchill, della loggia massonica B’nai B’rith e di importanti quotidiani come il New York Times, riesce a far accettare il suo progetto al Governo degli Stati Uniti.

L’ESSENZA DEL PIANO KALERGI
Nel suo libro «Praktischer Idealismus», Kalergi dichiara che gli abitanti dei futuri “Stati Uniti d’Europa” non saranno i popoli originali del Vecchio continente, bensì una sorta di subumanità resa bestiale dalla mescolanza razziale. Egli afferma senza mezzi termini che è necessario incrociare i popoli europei con razze asiatiche e di colore, per creare un gregge multietnico senza qualità e facilmente dominabile dall’elite al potere.
«L’uomo del futuro sarà di sangue misto. La razza futura  eurasiatica-negroide, estremamente simile agli antichi egiziani, sostituirà la molteplicità dei popoli, con una molteplicità di personalità. [2]
Ecco come Gerd Honsik descrive l’essenza del Piano Kalergi
Kalergi proclama l’abolizione del diritto di autodeterminazione dei popoli e, successivamente,l’eliminazione delle nazioni per mezzo dei movimenti etnici separatisti o l’immigrazione allogena di massa. Affinchè l’Europa sia dominabile dall‘elite, pretende di trasformare i popoli omogenei in una razza mescolata di bianchi, negri e asiatici. A questi meticci egli attribuisce crudeltà, infedeltà e altre caratteristiche che, secondo lui, devono essere create coscientemente perché sono indispensabili per conseguire la superiorità dell‘elite.
Eliminando per prima la democrazia, ossia il governo del popolo, e poi il popolo medesimo attraverso la mescolanza razziale, la razza bianca deve essere sostituita da una razza meticcia facilmente dominabile. Abolendo il principio dell’uguaglianza di tutti davanti alla legge e evitando qualunque critica alle minoranze con leggi straordinarie che le proteggano, si riuscirà a reprimere la massa.
I politici del suo tempo diedero ascolto a Kalergi, le potenze occidentali si basarono sul suo piano e le banche, la stampa e i servizi segreti americani finanziarono i suoi progetti. I capi della politica europea sanno bene che è lui l’autore di questa Europa che si dirige a Bruxelles e a Maastricht. Kalergi, sconosciuto all’opinione pubblica, nelle classi di storia e tra i deputati è considerato come il padre di Maastricht e del multiculturalismo.
La novità del suo piano non è che accetta il genocidio come mezzo per raggiungere il potere, ma che pretende creare dei subumani, i quali grazie alle loro caratteristiche negative come l’incapacità e l’instabilità, garantiscano la tolleranza e l’accettazione di quella “razza nobile”. [3]
DA KALERGI AI NOSTRI GIORNI
Benché nessun libro di scuola parli di Kalergi, le sue idee sono rimaste i principi ispiratori dell’odierna Unione Europea. La convinzione che i popoli d’Europa debbano essere mescolati con negri e asiatici per distruggerne l’identità e creare un’unica razza meticcia, sta alla base di tutte le politiche comunitarie volte all’integrazione e alla tutela delle minoranze. Non si tratta di principi umanitari, ma di direttive emanate con spietata determinazione per realizzare il più grande genocidio della storia.
In suo onore è stato istituito il premio europeo Coudenhove-Kalergi che ogni due anni premia gli europeisti che si sono maggiormente distinti nel perseguire il suo piano criminale. Tra di loro troviamo nomi del calibro di Angela Merkel o Herman Van Rompuy.

La Società Europea Coudenhove-Kalergi ha assegnato alla Cancelliera Federale Angela Merkel il Premio europeo nel 2010

Il 16 novembre 2012 è stato conferito al presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy il premio europeo Coudenhove-Kalergi 2012 durante un convegno speciale svoltosi a Vienna per celebrare i novant’anni del movimento paneuropeo. Alla sue spalle compare il simbolo dell’unione paneuropea: una croce rossa che sovrasta il sole dorato, simbolo che era stato l’insegna dei Rosacroce.
L’incitamento al genocidio è anche alla base dei costanti inviti dell’ONU ad accogliere milioni di immigrati per compensare la bassa natalità europea. Secondo un rapporto diffuso all’inizio del nuovo millennio, gennaio 2000, nel rapporto della “Population division” (Divisione per la popolazione) delle Nazioni Unite a New York, intitolato: “Migrazioni di ricambio: una soluzione per le popolazioni in declino e invecchiamento, l’Europa avrebbe bisogno entro il 2025 di 159 milioni di immigrati. Ci si chiede come sarebbe possibile fare stime così precise se l’immigrazione non fosse un piano studiato a tavolino. È certo infatti che la bassa natalità di per sé potrebbe essere facilmente invertita con idonei provvedimenti di sostegno alle famiglie. È altrettanto evidente che non è attraverso l’apporto di un patrimonio genetico diverso che si protegge il patrimonio genetico europeo, ma che così facendo se ne accelera la scomparsa. L’unico scopo di queste misure è dunque quello di snaturare completamente un popolo, trasformarlo in un insieme di individui senza più alcuna coesione  etnica, storica e culturale. In breve, le tesi del Piano Kalergi hanno costituito e costituiscono tutt’oggi il fondamento delle politiche ufficiali dei governi volte al genocidio dei popoli europei attraverso l‘immigrazione di massa. G. Brock Chisholm, ex direttore dell’Organizzazione Mondiale della Sanità  (OMS), dimosta di avere imparato bene la lezione di Kalergi quando afferma:
 «Ciò che in tutti i luoghi la gente deve fare è praticare la limitazione delle  nascite e i matrimoni misti (tra razze differenti), e ciò in vista di creare una sola razza in un mondo unico dipendente da un’autorità centrale» [4]
CONCLUSIONE
Se ci guardiamo attorno il piano Kalergi sembra essersi pienamente realizzato. Siamo di fronte ad una vera terzomondializzazione dell’Europa. L’assioma portante della “Nuova civiltà” sostenuta dagli evangelizzatori del Verbo multiculturale, è l’adesione all’incrocio etnico forzato. Gli europei sono naufragati nel meticciato, sommersi da orde di immigrati afro-asiatici. La piaga dei matrimoni misti produce ogni anno migliaia di nuovi individui di razza mista: i “figli di Kalergi”. Sotto la duplice spinta della disinformazione e del rimbecillimento umanitario operato dai mezzi di comunicazione di massa si è insegnato agli europei a rinnegare le proprie origini, a disconoscere la propria identità etnica.
I sostenitori della Globalizzazione si sforzano di convincerci che rinunciare alla nostra identità è un atto progressista e umanitario, che il “razzismo” è sbagliato, ma solo perché vorrebbero farci diventare tutti come ciechi consumatori. È più che mai necessario in questi tempi reagire alle menzogne del Sistema, ridestare lo spirito di ribellione negli europei. Occorre mettere sotto gli occhi di tutti il fatto che l’integrazione equivale a un genocidio. Non abbiamo altra scelta, l’alternativa è il suicidio etnico.
________________________
NOTE:
[1] Tra i suoi seguaci della prima ora si incontrano i politici cechi Masarik e Benes, così come il banchiere Max Warburg che ha messo a sua disposizione i primi 60.000 marchi. Il cancelliere austriaco Monsignor Ignaz Seipel e il successivo presidente austriaco Karl Renner si incaricarono successivamente di guidare il movimento Paneuropa. Kalergi stesso indicava che alti politici francesi approvavano il suo movimento per reprimere la ripresa della Germania. Così il primo ministro francese Edouard Herriot e il suo governo, come i leaders britannici di tutti gli ambiti politici e, tra loro, il redattore capo del Times, Noel Baker, caddero nelle macchinazioni di questo cospiratore. Infine riuscì ad attrarre Winston Churchill. Nello stesso anno, quello che più tardi si trasformerà nel genocida ceco di 300.000 tedeschi dei Sudeti, Edvard Benes, fu nominato presidente onorario. Egli ha finora quasi disconosciuto Kalergi, ma negoziava anche con Mussolini per restringere il diritto di autodeterminazione degli austriaci e favorire ancora di più le nazioni vittoriose, ma fallì. Nell’interminabile lista degli alti politici del XX secolo, c’è da menzionare particolarmente Konrad Adenauer, l’ex ministro della giustizia spagnolo, Rios, e John Foster Dulles (EEUU). Senza rispettare i fondamenti della democrazia e con l’aiuto del New York Times e del New York Herald Tribune, Kalergi presentò al Congresso Americano il suo piano. Il suo disprezzo per il governo popolare lo manifestò in una frase del 1966, nella quale ricorda la sua attività del dopoguerra: << I successivi cinque anni del movimento Paneuropeo furono dedicati principalmente a questa meta: con la mobilitazione dei parlamenti si trattava di forzare i governi a costruire la Paneuropa >>. Aiutato da Robert Schuman, ministro degli esteri francese, Kalergi riesce a togliere al popolo tedesco la gestione della sua produzione dell’acciaio, ferro e carbone e la trasferisce a sovranità sovranazionale, ossia antidemocratica. Appaiono altri nomi: De Gasperi, il traditore dell’autodeterminazione dei tirolesi del sud, e Spaak, il leader socialista belga. Finge di voler stabilire la pace tra il popolo tedesco e quello francese, attraverso gli eredi di Clemenceau, quelli che idearono il piano genocida di Versailles. E negli anni venti sceglie il colore azzurro per la bandiera dell’Unione Europea. Il ruolo guida di Kalergi nella creazione dell’Europa multiculturale e nella restrizione del potere esecutivo dei parlamenti e dei governi, è evidente ai giorni nostri, e si palesa col conferimento del premio “Coudenhove Kalergi” dal cancelliere Helmut Kohl come ringraziamento per seguire questo piano, così come l’elogio e l’adulazione del potente personaggio da parte del massone e polito europeo il primo ministro del Lussemburgo, Junker. Nel 1928 si aggiunsero celebri politici e massoni francesi: Leon Blum (più tardi primo ministro), Aristide Briand, E. M. Herriot, Loucheur. Tra i suoi associati si incontrava gente molto diversa come lo scrittore Thomas Mann e il figlio del Kaiser, Otto d’Asburgo.  Tra i suoi promotori, a parte i già menzionati Benes, Masarik e la banca Warburg, si incontrava anche il massone Churchill, la CIA, la loggia massonica B’nai B’rith, il “New York Times” e tutta la stampa americana. Kalergi fu il primo a cui fu assegnato il premio Carlomagno nella località di Aachen; e quando lo ricevette Adenauer, Kalergi era presente. Nel 1966 mantiene i contatti con i suoi collaboratori più importanti. Tutti coloro che sono stati insigniti di questo premio fanno parte del circolo di Kalergi e della massoneria, o si sforzarono di rappresentare gli interessi degli USA in Germania. Nell’anno 1948 Kalergi riesce a convertire il “Congresso degli europarlamentari” di Interlaken in uno strumento per obbligare i governi a tornare a occuparsi della “questione europea”, vale a dire, a realizzare il suo piano. Proprio allora si fonda il Consiglio europeo e in cima alla delegazione tedesca troviamo Konrad Adenauer appoggiato dalla CIA.
(Gerd Honsik, “Il Piano Kalergi”)
[2] Kalergi, Praktischer Idealismus
[3] Honsik, op.cit.
[4] «USA Magazine», 12/08/1955
http://xn--identit-fwa.com/blog/2012/12/11/il-piano-kalergi-il-genocidio-dei-popoli-europei/

Dio castiga? e punisce?

p. Cavalcoli rincara la dose sulla misericordia del cardinale Kasper



Giustizia e misericordia
di p. Giovanni Cavalcoli, O.P.

In un recente articolo apparso in www.chiesa il Padre Serafino Lanzetta manifesta alcune osservazioni critiche al libro del Card. Kasper “Misericordia. Concetto fondamentale del Vangelo – Chiave della vita”.

Dato che il libro di Kasper tocca alcuni temi teologici e morali di grande importanza e attualità, ho ritenuto bene riprendere e sviluppare le sagge annotazioni dell’illustre teologo francescano.

Innanzitutto dobbiamo condividere l’idea di Kasper che il tema della divina misericordia è una grande medicina per guarire dall’ateismo, ma non per il motivo addotto da Kasper, secondo il quale Dio non castiga ma usa solo misericordia, per cui, dopo Auschwitz, dovremmo abbandonare l’idea di un Dio che punisce.

In realtà, l’idea di Kasper è sbagliata, perché nella Scrittura l’attributo divino della giustizia punitiva è evidentissimo. Si tratta solo di intenderlo nel senso giusto, non come azione divina positiva tesa a recare pena o dolore al reo, ma si tratta di un’espressione metaforica presa dalla comune condotta umana, per significare il fatto che è il peccatore stesso col suo peccato a tirarsi addosso la punizione, così come per esempio chi eccede nel bere è “punito” con la cirrosi epatica. Questo è chiarissimo nella Bibbia. La morte non è qualcosa che consegue al peccato per un irrazionale o casuale intervento divino, ma è la conseguenza logica e necessaria del peccato, così come chi ingerisce un veleno necessariamente muore.

Kasper poi loda Lutero per il fatto che questi nel passo della Lettera ai Romani dove Paolo parla della “giustizia divina” (3,21), non intende la giustizia punitiva, ma l’azione misericordiosa di Dio, per la quale noi siamo “giustificati gratuitamente per la sua grazia” (v.24), “per mezzo della fede in Gesù” (v.22). 

Giustissimo, senonchè però non sempre nella Bibbia la giustizia divina ha questo senso, ma in molti altri luoghi appare chiaramente come giustizia punitiva, anche se nel senso suddetto. Del resto è ben noto quanto Lutero manteneva il concetto della punizione divina, ammettendo, con la tradizione cattolica, l’esistenza del diavolo e di dannati nell’inferno.

In base a ciò, dobbiamo dire che è falsa l’affermazione di Kasper secondo la quale, con l’avvento di Cristo, “Dio ha messo definitivamente a tacere la propria ira e ha fatto spazio al suo amore e alla sua misericordia” (p. 103). Sono infatti notissimi tutti gli insegnamenti di Cristo circa l’esistenza dei dannati[1] e i passi nei quali Egli redarguisce con molta severità suoi avversari.

Indubbiamente c’è da ricordare che l’“ira divina” è un’espressione metaforica per esprimere appunto la giustizia divina. È infatti evidente che in Dio, purissimo Spirito, non esistono passioni e emozioni. L’ira divina è semplicemente la condizione penosa del peccatore privo della grazia e nemico di Dio. Dio non è nemico di nessuno. Egli, come dice S. Agostino, non ti abbandona, se non sei tu ad abbandonarLo.

La distinzione in Dio fra giustizia e misericordia non si fonda sull’essenza divina, né è proprietà necessaria di tale essenza, ma suppone l’esistenza del mondo, che Dio, se avesse voluto, poteva anche non creare. Infatti, mentre la misericordia è atto dell’amore gratuito di Dio per l’uomo peccatore, per cui questi viene da Dio indotto al pentimento e una volta pentito viene perdonato, sicchè, avendo recuperato la grazia, può compiere opere meritorie per la salvezza, la giustizia divina, come ho già detto, non è un atto positivo di Dio, ma è la giusta e logica conseguenza del peccato.

In questa luce e in questo senso la Bibbia dice che Dio premia i buoni e castiga i malvagi, confermando un’insopprimibile esigenza universale della coscienza morale naturale di ogni uomo onesto e leale. Diversamente, che senso avrebbero gli ordinamenti e gli istituti penali dello Stato e della Chiesa? Ci sarebbe la legge della giungla, dove il forte si mangia il debole e ciascuno non farebbe altro che voler prevalere sugli altri.

Se Dio non punisse i malvagi sarebbe ingiusto, anche se è vero che Egli mostra il suo amore facendo misericordia. Tuttavia la vera misericordia non si attua a scapito della giustizia, ma operando, come dice giustamente Padre Serafino, meglio e al di sopra della giustizia, che comunque va sempre rispettata. Se un peccatore è perdonato e non è punito, ciò non è ingiusto, ma è un’opera divina.

Non si deve opporre l’amore alla giustizia. Esiste infatti e deve esistere un amore per la giustizia. La punizione o l’uso della forza in se stessi non sono peccato, ma lo sono quando la pena è ingiusta, o troppo mite o troppo severa, e quando si usa la forza non in difesa del bene, ma per fare il male. Occorre dunque odiare l’ingiustizia e praticare la giustizia imitando la stessa giustizia divina.

L’impassibilità divina, come giustamente osserva P.Serafino, non è non so quale freddezza o durezza di cuore, ma significa semplicemente l’inviolabilità della natura divina e il fatto che non può essere privata di nulla e nulla le può mancare.

L’idea di un Dio solo misericordioso, che non punisce nessuno, non solo non risolve il problema dell’ateismo, ma lo esaspera. Infatti, la misericordia come tale allevia la sofferenza e solleva dalla miseria, le quali invece, in linea di principio, anche se non caso per caso, sono alla lontana, anche negli innocenti e nei santi, castigo del peccato originale e forse anche dei peccati personali o di quelli di coloro che ci fanno soffrire. 

Ebbene, se dovesse restare solo la misericordia senza la giustizia, allora tutte le pene di questa vita dovrebbero essere effetto della misericordia divina, cosa evidentemente assurda, che ci farebbe sentire beffati da un Dio di tal fatta. E’ vero che se viviamo le nostre pene quotidiane in unione a Cristo crocifisso, sperimentiamo la misericordia divina, non però per un’assurda confusione tra punizione e misericordia, ma perché in Cristo possiamo espiare le nostre colpe per puro dono della divina misericordia.

È ovvio che la tragedia di Auschwitz conduce a chiederci che ne fu allora dell’onnipotenza e della bontà divine. Perché Dio non è intervenuto o non ha impedito? Se ammettiamo la Scrittura come Parola di Dio, l’unica risposta ci viene dalla fede: perché Dio ha voluto invitare il suo Popolo a partecipare ai dolori del Messia. 

L’invito di Kasper alla speranza che simili cose non si ripetano più è giusto, ma intanto il credente non deve spiegare solo il futuro, ma anche il passato e il presente e fuori di Cristo non c’è spiegazione al mistero del male, del peccato e della sofferenza.

Quanto poi sostiene Kasper secondo il quale Kant avrebbe dimostrato l’impossibilità di dimostrare razionalmente l’esistenza di Dio mediante il principio di causalità partendo dalle cose del mondo, è una tesi assolutamente falsa, che contrasta sia con la ragione naturale e ancor più con gli insegnamenti della Chiesa, per esempio col Concilio Vaticano I, basati sulla stessa Sacra Scrittura (Cf Rm 1,19-20 e Sap 13,5).

Inoltre, grave calunnia contro la metafisica è l’accusa di Kasper secondo la quale la dottrina metafisica dell’Ipsum Esse, peraltro ricavata da S.Tommaso d’Aquino da Es 3,14, escluderebbe dagli attributi divini la misericordia: tesi falsissima, dato che la misericordia, dal punto di vista metafisico, non è altro che la manifestazione e l’attuazione dell’infinita bontà divina, attributo che la metafisica deduce dal trascendentale del bonum, in quanto sommo analogato della nozione del bene.

Altro grave errore teologico di Kasper è il credere che la misericordia è la proprietà fondamentale di Dio, (p.137), quasi fosse un attributo della sua stessa essenza. E giunge ad affermare che “la misericordia è la perfezione dell’essenza di Dio” (p. 105), come se Dio si dovesse perfezionare nell’esercizio della misericordia. 

Ora, dobbiamo dire che, essendo la misericordia legata all’azione divina nei confronti del mondo e poiché il mondo non fa parte dell’essenza divina, né Dio lo ha creato necessariamente o per essenza, anche la misericordia non entra necessariamente nell’essenza divina, per cui questa non si perfeziona affatto, in quanto Dio, essendo già di per sé perfezione infinita, non ha assolutamente bisogno di perfezionarsi o di essere perfezionato.

Per quanto poi riguarda la speranza della salvezza, la Bibbia non dice da nessuna parte che dobbiamo sperare la salvezza di tutti, come crede von Balthasar ripreso da Kasper, ma al contrario insegna chiarissimamente che non tutti si salvano, per quanto non sia affatto proibito ma anzi è doveroso pregare per la salvezza dei peccatori, finchè sono in vita. Viceversa io ho il dovere di sperare nella mia salvezza, fondando tale speranza su di un assiduo impegno per la salvezza mia e degli altri.

Kasper non si spinge come per esempio Rahner a dirsi certo che tutti si salvano. La sua tesi è più morbida. Egli ritiene infatti che “Possiamo sperare nella salvezza di tutti, ma di fatto non possiamo sapere se tutti si salveranno” (p. 169). Tale idea non raggiunge però ancora quanto insegnano la Bibbia e il Magistero della Chiesa. Dottrina di fede è invece che non tutti si salvano (Concilio di Trento, Denz.1523 e Concilio di Quierzy dell’853, Denz. 623).

Altro grave errore teologico di Kasper, contrario al dogma cattolico, come lascia intendere Padre Lanzetta, è l’idea di un Dio sofferente. Certo, anche qui possiamo usare la metafora o la comunicazione degli idiomi, in quanto, per esempio, possiamo dire che Dio soffre in Cristo in quanto Cristo è uomo. 

Ma asserire la sofferenza nella natura divina è eresia. Certo Kasper tenta di sfuggire a questa grave conseguenza, ma esce in espressioni contradditorie, che non hanno senso, dicendo che in Dio la sofferenza sarebbe una perfezione e addirittura espressione della sua onnipotenza: “per la Bibbia… la con-sofferenza di Dio non è espressione della sua imperfezione, della sua debolezza e della sua impotenza, ma è espressione della sua onnipotenza… Egli non può quindi essere passivamente e contro la sua volontà colpito dal dolore, però nella sua misericordia si lascia sovranamente e liberamente colpire dal dolore” (pp. 184-185)[2].

Queste posizioni di Kasper, è vero, toccano solo la metafisica, la teologia e il dogma. Di recente si è fatto conoscere un Kasper che, in vista del prossimo sinodo dei vescovi sulla famiglia, a proposito del delicato problema dei divorziati risposati, ha manifestato, in nome della “misericordia”, idee che hanno incontrato opposizioni e critiche nell’ambito dello stesso collegio cardinalizio.

Il mio timore è che le tesi lassiste di Kasper siano la conseguenza delle deviazioni di fondo denunciate da me e da Padre Serafino. Inoltre, insultare la metafisica non è senza conseguenze nel campo della fede, del dogma e della morale. E la vicenda culturale e spirituale del Card.Kasper sembra esserne una prova conturbante ed istruttiva.

P. Giovanni Cavalcoli,OP
Fontanellato, 20 settembre 2014


[1] Al riguardo mi permetto di segnalare il mio libro L’inferno esiste. La verità negata, Edizioni Fede&Cultura, Verona 2010. 

[2] Al riguardo mi permetto di segnalare i miei studi IL MISTERO DELL’IMPASSIBILITA’ DIVINA, Divinitas, 2, 1995, pp.111-167; LA QUESTIONE DELL’IMMUTABILITA’ DIVINA, in Rivista Teologica di Lugano, n.1, marzo 2011, pp.71-93. 

http://catholicafides.blogspot.it/2014/09/p-cavalcoli-rincara-la-dose-sulla.html

domenica 28 settembre 2014

USCIRE DALLA CHIESA?

CHI TORNA AL SUO PASSATO, NON ESCE DALLA CHIESA.


Editoriale "Radicati nella fede" - Anno VII n° 8 - Agosto 2014



Nei momenti di confusione pericolosa occorre fare un passo indietro.
Non si fa forse proprio così nella vita? Di fronte a una situazione confusa, difficile da districare, che ci rende preoccupati e perplessi, ci si ferma e poi si fa un passo indietro, astenendosi dall'avanzare nel pericolo.


È anche ciò che abbiamo fatto nella fede. Sì, crediamo che l'immagine rende idea delle nostre scelte.
Amiamo la Chiesa, Corpo Mistico di Cristo e nostra Madre, amiamo il Papa e il Vescovo, ma di fronte all'evidente confusione della vita cristiana intorno a noi, ci rifiutiamo di avanzare nell'ambiguità e nell'incertezza e domandiamo la grazia di restare nel cristianesimo sicuro.
  
In fondo la nostra posizione è tutta qui. Per questo riteniamo, e abbiamo sempre ritenuto, di non essere nella disobbedienza.

Saremmo nella disobbedienza se inventassimo un “altro cristianesimo”, se ci inventassimo “una nostra messa”, una “nostra pastorale”, un “nostro catechismo”, se riconoscessimo degli “altri superiori” fuori da quelli che la Chiesa ci ha dato nel Papa e nel Vescovo.

No, noi non facciamo nulla di tutto questo. Semplicemente, giudicando piena di confusione e di pericolo la nuova pastorale, il nuovo rito della messa, la nuova catechesi, ci avvaliamo del diritto che la Chiesa ha sempre riconosciuto alle anime nei momenti di crisi: ci atteniamo alla precedente prassi e dottrina della Chiesa, a quella sicura, a quella prima dello scoppio della crisi.

Infatti, per la Messa, non andiamo a cercare chissà quale rito arcaico, ma ci atteniamo al Messale del 1962, quello promulgato da Papa Giovanni XXIII, perché le lievi modifiche e aggiunte apportate in quella riforma non hanno nella sostanza intaccato la Messa Romana di sempre. Non andiamo a cercare ciò che ci piace, ma obbediamo alle riforme della Chiesa, quelle sicure e solo a quelle sicure. E così facciamo per tutti gli altri aspetti della disciplina sui sacramenti e per tutto l'apostolato.


Così facendo, siamo certi di non andare fuori dalla Chiesa, che è la stessa ieri e oggi. Non ci sono due Chiese, una prima e l'altra dopo il Concilio. No, ce n'è una sola! Ci sono invece, nella stessa Chiesa, riforme accettabili e riforme non accettabili; sono inaccettabili in coscienza le riforme che mettono in pericolo la fede e la vita cristiana. E siccome la Fede è il bene supremo, non è concesso a nessuno nella Chiesa esporla al pericolo.

Sappiamo, ne siamo coscienti, di esprimere un giudizio severo sulle svolte della “chiesa moderna”.
D'altronde, ad uno sguardo spassionato, gli esiti disastrosi dell' “ammodernamento” della Chiesa di questi ultimi decenni sono innegabili. L'ultima riforma del messale e conseguentemente di tutta la vita cattolica sta uccidendo il cattolicesimo nei nostri paesi. Negarlo è pura ideologia.

Chiediamo e viviamo la libertà dei figli di Dio, che amando la Santa Madre Chiesa, dicono ai suoi legittimi Pastori: noi continuiamo su quello che ci avete insegnato un tempo, e continuando nella Tradizione siamo certi di contribuire, nonostante la nostra povertà, alla edificazione della Chiesa stessa.
Uniamo così due atteggiamenti che in coscienza ci sembrano non disgiungibili:
- un grande amore e rispetto per la Chiesa
- una vigilanza per non mischiare mai la grande Tradizione della Chiesa con le ambiguità delle riforme post-conciliari, e questo non soltanto nel rito della messa.

Amore e severità, insieme.
Anche perché amare la Chiesa non in astratto, significa preservare il suo tesoro costituito dalla Rivelazione divina, Tradizione e Scrittura insieme. Ma la Rivelazione si è declinata e trasmessa in ciò che la Chiesa ha sempre creduto e praticato, a partire dalla Messa Cattolica.
Sbaglia chi, avendo capito il terribile pericolo interno al Cattolicesimo attuale, piange in privato ma non interviene per rispetto alla Chiesa. Ama davvero chi la Chiesa la difende.

Ciò che appare disobbedienza non lo è. È invece il più grande servizio che un credente possa fare alla Sua Madre.
Chi parla di disobbedienza parlando dei “Tradizionalisti” (termine non bello, ma lo usiamo per capirci), lo fa per ignoranza: pensa che la Chiesa abbia una autorità assoluta su tutto. No, la Chiesa obbedisce a Gesù Cristo, ne è il suo corpo; deve custodire ciò che il Signore le ha consegnato, Verità e Grazia. Non inventa la Chiesa, ma trasmette.

Per questo non può essere illegittimo decidere di stare nella Tradizione più sicura.

Non esce dalla Chiesa chi sta al suo passato, ne esce chi inventa un cristianesimo nuovo.

La chiesa verso la poligamia?

Risposarsi a dispetto dei santi


Domande legittime di un laico cristiano sul nuovo “divorzio concordatario” che i novatori preparano. Rifare la dottrina sarà davvero un atto misericordioso?


Il Sinodo dei Vescovi indetto da Papa Francesco sul tema “Le sfide pastorali della famiglia 
nel contesto dell'evangelizzazione” inizierà il prossimo 5 ottobre e si concluderà il 19

Benché denso di argomenti meritevoli di ben maggiore considerazione, la discussione sulla possibilità di riammettere al sacramento dell’Eucaristia le persone divorziate risposate ha monopolizzato l’attenzione dei media in vista del Sinodo straordinario sulla famiglia che il Santo Padre vuole comunque aperto al confronto. Intendo offrire un piccolo contribuito come laico impegnato insieme a tanti altri nella difesa del bene primario della vita e della prosecuzione dell’utero materno, come definì la famiglia il cardinale Ratzinger. Chesterton ammonì che un giorno le spade sarebbero state sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate; quando osservo lo stupro mediatico dell’appellativo così dolce e delicato con cui Gesù si è presentato a una minuta suora polacca, Misericordia, e il martirio a cui viene sottoposta la logica, ho come l’impressione che quel giorno non sia poi così lontano. Non voglio, non posso, non devo dare risposte, ma porre domande sì, quello mi è consentito, anzi è un diritto che mi deriva dal battesimo e ancora prima dalla mia natura umana razionale tenuta in così gran conto da un certo Pietro, primo Papa, che esortava a rispondere riguardo le ragioni della nostra speranza.

ARTICOLI CORRELATI  Il divorzio nella chiesa. Una soluzione swiftiana La “modesta proposta pastorale” tra castità e romanticismo. Le idee Una modesta proposta (pastorale)Mi pare che una prima questione debba ricevere soluzione nel riflettere sull’argomento: il marito divorziato e risposato secondo la legge civile che desidera ricevere la Comunione, con chi sta avendo rapporti sessuali? Con una donna che per la legge di Dio e della chiesa non è moglie, con una delle due mogli, o con l’unica moglie? Nel primo caso avere rapporti sessuali con una donna diversa dalla moglie significa ancora commettere adulterio o no? In caso affermativo, è ancora vero che il nuovo matrimonio civile accresce la gravità della rottura cristallizzando l’autore in una “condizione di adulterio pubblico e permanente” (CCC 2384)? Se invece si affermasse che ha rapporti con una delle due mogli, dovremmo dedurne che per ragioni “pastorali” si cesserà di indicare la poligamia come grave offesa alla dignità del matrimonio (CCC 2400) in quanto lesiva della sua unità fondata sulle parole di Gesù Cristo, “E i due saranno una carne sola”? Se infine anche per la chiesa egli non fosse più sposato con la prima moglie, perché non ammetterlo a un nuovo matrimonio religioso, inaugurando una sorta di divorzio concordatario rovesciato in cui la chiesa recepisce le decisioni dei giudici civili?

Papa Paolo VI, di cui prossimamente verrà proclamata la beatificazione, riflettendo con l’amico Jean Guitton sulla dottrina della contraccezione osservava: “Un’attenuazione della legge avrebbe per effetto di rimettere in questione la morale, e soprattutto di dimostrare la fallibilità della chiesa […] allora, il cattolicesimo anteriore a Giovanni XXIII apparirebbe […] una chiesa della ‘legge’ impraticabile, da cui io l’avrei liberata, quasi fossi un secondo Paolo. La teologia sarebbe così? la serva della scienza, ancilla scientiae […] per esempio un domani ammetterebbe la procreazione senza paternità: tutto l’edificio della morale verrebbe dissolto, e dopo l’edificio della morale verrebbe scosso l’edificio della fede. Perché l’oggetto della certezza non sarebbe più la rivelazione, ma la più recente scoperta scientifica”.

Mi domando se lo stesso pericolo si stia oggi ripresentando con una diversa forma di servitù, dove la chiesa sarebbe prona alla scienza sociologica o alla legge dei parlamenti e alle sentenze dei giudici: la teologia, anche quella pastorale, deve dunque annichilirsi ad “ancilla iudices”? Ma se così fosse, non si dovrebbe ammettere che ci eravamo sbagliati nel 1974 riconoscendo oggi in Pannella un profeta?

Da molte parti i novatori rassicurano che non vi sarebbe alcun cambio nella dottrina. Dicono infatti che le seconde nozze non sarebbero un sacramento, ma un male che la chiesa dovrebbe tollerare. Giunto a questo punto sono costretto ad ammettere che non riesco a capire: quale sarebbe la natura di questo male? Intrecciare una relazione sessuale da parte di una persona sposata si chiamerebbe ancora adulterio? Continuerebbe a essere un’offesa alla dignità del matrimonio condannata da Gesù anche quando consumata col semplice desiderio (CCC 2380)? Chi ne sarebbe l’autore se non il coniuge divorziato e risposato? E che gravità avrebbe un tale male? Non riguarda materia grave? Non è commesso con piena consapevolezza? E la passione che accompagna pressoché ogni atto umano sarebbe da sola sufficiente per dichiarare l’adulterio un peccato veniale per mancanza di deliberato consenso? In poche parole: l’adulterio continuerebbe a essere un peccato mortale (CCC 1447, 1857)? Le teste cattoliche tagliate da Enrico VIII non erano quelle di martiri, ma di inconsapevoli rigoristi? Oppure, aggiungendo la fattispecie di peccato grave, ma non mortale, si intende introdurre per via “pastorale” la tripartizione del peccato e la dissociazione tra atti concreti e opzione fondamentale rigettata dal magistero di san Giovanni Paolo II nell’enciclica Veritatis splendor?

Se, come pare di capire dai resoconti, continuare a negare la Comunione ai divorziati risposati sarebbe il risultato di una mentalità chiusa, dobbiamo considerare l’accusa del Battista a Erode frutto di analoga chiusura? “Il vostro parlare sia: ‘Sì, sì; no, no’; poiché il di più viene dal maligno”, dice il Signore; questa frase mi sembra assai chiusa a creazioni “pastorali”, dunque che farne? Se negare la Comunione ai divorziati risposati significa mettere il peccatore in un buco senza uscita, le ultime parole di Cristo all’adultera, “va e non peccare più”, lungi da essere una liberazione, non finirebbe per essere una condanna inappellabile? E che dire del cavarsi l’occhio e tagliarsi la mano pur di potere entrare nel regno dei cieli? Non è più possibile vivere da eunuchi per la vita e la felicità eterne? Non è possibile chiedere a chi vuole ricevere il corpo e sangue di Cristo di allontanarsi dal nuovo compagno o di vivere come fratello e sorella in presenza di figli? Troppo sessuofobico? Eppure apprendiamo dalla lettera a Diogneto che i primi cristiani avevano in comune la mensa, ma non il letto. Mi domando dove sia dunque finita la radicalità del Vangelo, dove sia la liberazione dalle sovrastrutture e il ritorno alle origini.

L’assoluzione sacramentale e la successiva ricezione dell’Eucaristia comportano che il credente abbia la volontà diretta a impegnarsi nella conversione della vita. Nell’attuale battage mediatico pare esserci una grande assenza: l’appello alla conversione dell’intelligenza, del cuore e della vita a Gesù Cristo. Questo nonostante le prime parole che Gesù pronuncia all’inizio del suo ministero pubblico, nel Vangelo secondo Marco, sono proprio: “Convertitevi”. Viene detto che la Comunione va data perché è Sacramento per portare alla guarigione proprio chi ha più bisogno della Grazia, il peccatore. Capisco, e voglio guardarmi bene dal raccogliere la pietra per lapidare chicchessia, tuttavia non posso trattenermi dal domandare se il peccatore non debba continuare a passare dalla confessione sacramentale prima di accostarsi all’Eucaristia. Avevo imparato da bambino che per potersi accostare alla Mensa Eucaristica si dovesse essere in Grazia di Dio avendo ottenuto il dono del perdono dai peccati dopo avere espresso il pentimento sincero e il proposito di non peccare più. Vorrei capire se per il divorziato risposato tale sequenza la si debba considerare abolita. In tale caso solo per le offese al sesto comandamento o anche agli altri? Perché non si dovrebbe applicare lo stesso criterio al furto, all’omicidio, alla menzogna? Dunque, si può essere morti e ricevere il pane dei forti? Esiste un naufragio privilegiato? In che cosa consisterebbe dunque il sacrilegio eucaristico indicato da san Paolo “Chi riceve il Corpo del Signore indegnamente, mangia la propria condanna” (1 Cor 11, 29)? Si farà un’eccezione per non mettere in imbarazzo i genitori risposati durante la prima Comunione dei figli? La missione della chiesa è portare l’annuncio della salvezza operata dal sacrificio della croce a tutti gli uomini, compreso il più incallito peccatore. M’interrogo se guarire abolendo per legge la malattia salvi davvero, se sottoponendo ogni insegnamento morale oggi indigesto allo stress test cartesiano, “de omnibus dubitandum est”, si potrebbe domani cercare una soluzione “non chiusa” anche per la macina al collo di chi scandalizza i più piccoli e se alla fine del processo di destrutturazione rimarrebbe in piedi qualcosa della stessa fede.

Dal cardinale Ratzinger ho appreso che la struttura della chiesa non è democratica, ma sacramentale, dallo stesso magistero ho appreso che non vi può essere nessuna maggioranza contro i santi, nella chiesa i morti non sono morti, perché nella Comunione dei santi la chiesa supera il presente. Sulla castità coniugale e l’Eucaristia hanno parlato san Paolo, sant’Ambrogio, sant’Agostino, san Giovanni Crisostomo, san Tommaso, sant’Alfonso, san Giovanni Paolo II, schiere di santi e il Santo dei santi, Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo; confido che anche a loro sarà data possibilità di voto.
© FOGLIO QUOTIDIANO