sabato 31 maggio 2014

non osi separare

Mito e realtà delle seconde nozze 


tra gli ortodossi


È opinione diffusa che le Chiese orientali ammettano un nuovo matrimonio dopo il divorzio e diano la comunione ai risposati. Ma non è così, spiega d. N. Bux. Solo il primo matrimonio è celebrato come un vero sacramento 

di Sandro Magister



ROMA, 30 maggio 2014 – Sull'aereo di ritorno dalla Terra Santa, a papa Francesco è stato chiesto se "la Chiesa cattolica potrà imparare qualcosa dalle Chiese ortodosse" riguardo ai preti sposati e all'accettazione delle seconde nozze per i divorziati.

Sull'uno e sull'altro di questi punti il papa ha risposto in modo elusivo. Tutti però ricordano che cosa disse a proposito delle seconde nozze in una precedente intervista in aereo, nel viaggio di ritorno da Rio de Janeiro:

"Una parentesi: gli ortodossi seguono la teologia dell’economia, come la chiamano, e danno una seconda possibilità [di matrimonio], lo permettono. Credo che questo problema – chiudo la parentesi – si debba studiare nella cornice della pastorale matrimoniale".

A questa prassi delle Chiese d'oriente ha fatto riferimento anche il cardinale Walter Kasper nella sua relazione introduttiva al concistoro dello scorso febbraio, nella quale focalizzò la discussione in vista del sinodo sulla famiglia sulla questione della comunione ai divorziati risposati.

L'idea corrente è che nelle Chiese ortodosse si celebrino sacramentalmente le seconde e anche le terze nozze e si dia la comunione ai divorziati risposati.

Quando in realtà le cose non stanno affatto così. Tra la celebrazione delle prime e delle seconde nozze l'ortodossia ha sempre posto una differenza non solo cerimoniale ma di sostanza, come ben mostra l'intonazione fortemente penitenziale delle preghiere per le seconde nozze.

Basti vedere, in proposito, la ricognizione storica che Basilio Petrà – sacerdote cattolico di rito latino, ma di origine greca e studioso della materia, professore al Pontificio Istituto Orientale  – ha pubblicato due mesi fa:

B. Petrà, "Divorzio e seconde nozze nella tradizione greca. Un'altra via", Cittadella Editrice, Assisi, 2014, pp. 212, euro 15,90.


Quella che segue è una chiarificazione di ciò che sono in realtà le seconde nozze nella teologia e nella prassi delle Chiese ortodosse.

L'autore, Nicola Bux, esperto di liturgia e docente alla facoltà teologica di Bari, è consultore delle congregazioni per la dottrina della fede e per le cause dei santi e ha preso parte al sinodo del 2005 sull'eucaristia, del quale riferisce qui un interessante episodio.

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CHIESA ORTODOSSA E SECONDE NOZZE

di Nicola Bux



Recentemente, il cardinale Walter Kasper si è riferito alla prassi ortodossa delle seconde nozze per sostenere che anche i cattolici che fossero divorziati e risposati dovrebbero essere ammessi alla comunione.

Forse, però, non ha badato al fatto che gli ortodossi non fanno la comunione nel rito delle seconde nozze, in quanto nel rito bizantino del matrimonio non è prevista la comunione, ma solo lo scambio della coppa comune di vino, che non è quello consacrato. 

Inoltre, tra i cattolici si suol dire che gli ortodossi permettono le seconde nozze, quindi tollerano il divorzio dal primo coniuge.

In verità non è proprio così, perché non si tratta dell'istituzione giuridica moderna. La Chiesa ortodossa è disposta a tollerare le seconde nozze di persone il cui vincolo matrimoniale sia stato sciolto da essa, non dallo Stato, in base al potere dato da Gesù alla Chiesa di “sciogliere e legare”, e concedendo una seconda opportunità in alcuni casi particolari (tipicamente, i casi di adulterio continuato, ma per estensione anche certi casi nei quali il vincolo matrimoniale sia divenuto una finzione). È prevista, per quanto scoraggiata, anche la possibilità di un terzo matrimonio. Inoltre, la possibilità di accedere alle seconde nozze, nei casi di scioglimento del matrimonio, viene concessa solo al coniuge innocente.

Le seconde e terze nozze, a differenza del primo matrimonio, sono celebrate tra gli ortodossi con un rito speciale, definito “di tipo penitenziale”. Poiché nel rito delle seconde nozze mancava in antico il momento dell'incoronazione degli sposi – che la teologia ortodossa ritiene il momento essenziale del matrimonio –  le seconde nozze non sono un vero sacramento, ma, per usare la terminologia latina, un "sacramentale", che consente ai nuovi sposi di considerare la propria unione come pienamente accettata dalla comunità ecclesiale. Il rito delle seconde nozze si applica anche nel caso di sposi rimasti vedovi.

La non sacramentalità delle seconde nozze trova conferma nella  scomparsa della comunione eucaristica dai riti matrimoniali bizantini, sostituita dalla coppa intesa come simbolo della vita comune. Ciò appare come un tentativo di "desacramentalizzare" il matrimonio, forse per l'imbarazzo crescente che le seconde e terze nozze inducevano, a motivo della deroga al principio dell'indissolubilità del vincolo, che è direttamente proporzionale al sacramento dell'unità: l'eucaristia.

A tal proposito, il teologo ortodosso Alexander Schmemann ha scritto che proprio la coppa, elevata a simbolo della vita comune, “mostra la desacramentalizzazione del matrimonio ridotto ad una felicità naturale. In passato, questa era raggiunta con la comunione, la condivisione dell'eucaristia, sigillo ultimo del compimento del matrimonio in Cristo. Cristo deve essere la vera essenza della vita insieme”. Come rimarrebbe in piedi questa "essenza"? 

Dunque, si tratta di un “qui pro quo” imputabile in ambito cattolico alla scarsa o nulla considerazione per la dottrina, per cui si è affermata l'opinione, meglio l'eresia, che la messa senza la comunione non sia valida. Tutta la preoccupazione della comunione per i divorziati risposati, che poco ha a che fare con la visione e la prassi orientale, è una conseguenza di ciò. 

Una decina d'anni fa, collaborando alla preparazione del sinodo sull'eucaristia, a cui partecipai poi come esperto nel 2005, tale "opinione" fu avanzata dal cardinale Cláudio Hummes, membro del consiglio della segreteria del sinodo. Invitato dal cardinale Jan Peter Schotte, allora segretario generale, dovetti ricordare a Hummes che i catecumeni e i penitenti – tra i quali c'erano i dìgami –, nei diversi gradi penitenziali, partecipavano alla celebrazione della messa o a parti di essa, senza accostarsi alla comunione.  

L'erronea "opinione" è oggi diffusa tra chierici e fedeli, per cui, come osservò Joseph Ratzinger: “Si deve nuovamente prendere molto più chiara coscienza del fatto che la celebrazione eucaristica non è priva di valore per chi non si comunica. [...] Siccome l'eucaristia non è un convito rituale, ma la preghiera comunitaria della Chiesa, in cui il Signore prega con noi e a noi si partecipa, essa rimane preziosa e grande, un vero dono, anche se non possiamo comunicarci. Se riacquistassimo una conoscenza migliore di questo fatto e rivedessimo così l'eucaristia stessa in modo più corretto,vari problemi pastorali, come per esempio quello della posizione dei divorziati risposati, perderebbero automaticamente molto del loro peso opprimente.”

Quanto descritto è un effetto della divaricazione ed anche dell'opposizione tra dogma e liturgia. L'apostolo Paolo ha chiesto l'auto-esame  di coloro che intendono comunicarsi, onde non mangiare e bere la propria condanna (1 Corinti 11, 29). Ciò significa: “Chi vuole il cristianesimo soltanto come lieto annuncio, in cui non deve esserci la minaccia del giudizio, lo falsifica”.

Ci si chiede come si sia giunti a questo punto. Da diversi autori, nella seconda metà del secolo scorso, si è sostenuta la teoria – ricorda Ratzinger – che “fa derivare l'eucaristia più o meno esclusivamente dai pasti che Gesù consumava con i peccatori. […] Ma da ciò segue poi un'idea dell'eucaristia che non ha nulla in comune con la consuetudine della Chiesa primitiva”. Sebbene Paolo protegga con l'anatema la comunione  dall'abuso (1 Corinti 16, 22), la teoria suddetta propone “come essenza dell'eucaristia che essa venga offerta a tutti senza alcuna distinzione e condizione preliminare, […] anche ai peccatori, anzi, anche ai non credenti”. 

No, scrive ancora Ratzinger: sin dalle origini l'eucaristia non è stata compresa come un pasto con i peccatori, ma con i riconciliati: “Esistevano anche per l'eucaristia fin dall'inizio condizioni di accesso ben definite [...] e in questo modo ha costruito la Chiesa”.

L'eucaristia, pertanto, resta “il banchetto dei riconciliati”, cosa che viene ricordata dalla liturgia bizantina, al momento della comunione, con l'invito "Sancta sanctis", le cose sante ai santi.     

Ma nonostante ciò la teoria dell'invalidità della messa senza la comunione continua ad influenzare la liturgia odierna.

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Questo testo di Nicola Bux è tratto dalla postfazione che egli ha scritto per l'ultima opera di Antonio Livi, teologo e filosofo della Pontificia Università Lateranense, di prossima uscita, dedicata agli scritti e discorsi del cardinale Giuseppe Siri (1906-1989):

A. Livi, "Dogma e liturgia. Istruzioni dottrinali e norme pastorali sul culto eucaristico e sulla riforma liturgica promossa dal Vaticano II", Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma, 2014.

cattolici adulti e atei

CHIESA ATEA?



Per secoli  la dottrina cattolica venne insegnata come irreformabile. E tutto ciò per una sola, semplicissima ragione: perché la si sapeva di origine divina e non umana. Ma ora quel tempo è alle nostre spalle, e nessuno – dico nessuno – osa negarlo. Per usare il linguaggio degli antropologi, si potrebbe dire che la dottrina cattolica, per secoli e secoli, è stata tabù. Ma oggi, quasi si trattasse di superstiziose credenze di popoli primitivi, quel tabù non ha più nessun credito, meno che mai presso il moderno clero. Quindi, lo si può toccare, ritoccare, riformare come e quanto si vuole, a proprio piacimento; e lo si può perché, a differenza di ciò che si attardano a immaginare le sciocche credenze primitive, si ritiene che nessuna divinità vi sia posta a guardia.

Già da questo si dovrebbe comprendere come la chiesa moderna, riformando di fatto il dogma cattolico ad uso e consumo dell’uomo moderno, ha inteso deliberatamente sfidare la stessa autorità di Dio. Ora, per sfidare l’ autorità di Dio, non basta aver perso la fede cattolica, bisogna aver perso la consapevolezza della trascendenza dell’Essere. Bisogna, cioè, credere che la vita si risolva interamente qui, in questo breve passaggio terreno, bisogna aver perso (o deposto) definitivamente ogni timor di Dio e vivere e pensare come se Dio non esistesse. Perciò appare chiaro, a chi voglia vedere, che, riformando il “tabù” cattolico (se mi si passa l’ espressione), i cattolici adulti non mostrano soltanto d’avere perso la fede cattolica, ma d’avere perso il senso della trascendenza dell’Essere. Che è, poi, ciò che accade inevitabilmente quando si abbandona la metafisica tomista.

* * *

Quanto si è detto può sembrare drastico ed eccessivo; ma solo se non si ha il coraggio di guardare in faccia la realtà. Giacché è la realtà a dirci che sono gli stessi documenti – e non la loro cattiva interpretazione – a sfidare nel modo più netto e temerario gli anatemi posti a suggello della fede cattolica. Documenti ove si annuncia un Vangelo diverso da quello cattolico e mi riferisco, inoltre, alla mostruosa riforma liturgica. Ora, nulla appare più evidente dell’incredulità di chi sfida gli anatemi di una tradizione religiosa millenaria come, ad esempio, i notissimi anatemi di San Paolo e San Giovanni apostolo. E se nemmeno San Paolo e San Giovanni apostolo hanno titoli per scomunicare chi annuncia un “Vangelo diverso”, ciò accade per un semplicissimo ed evidentissimo motivo: perché i cattolici adulti non credono che gli anatemi di San Giovanni apostolo, San Paolo, unitamente a quelli di 20 concili ecumenici, siano divinamente ispirati. Per essi non c’è nessun Dio a guardia gelosa di quegli anatemi: sono semplici maledizioni scagliate da uomini, a cui, oggi, si sono sostituiti altri uomini (che si immaginano molto più buoni dei primi). E d’altronde come stupirsi di questa mancanza di fede, quando i documenti negano nel modo più radicale ed evidente le parole che Gesù ci ha lasciate nel Vangelo: “Io sono la via, la verità e la vita, nessuno sale al Padre se non per mezzo di me”? Dinanzi a tanto sfacelo chi parla di ermeneutica della continuità o mente o non sa quel che dice. Dalla parte opposta, chi sostiene che i documenti non esprimono più la fede cattolica, come si sente dire spesso, adotta soltanto un gentile eufemismo. In realtà, qui siamo ad un volgare e comunissimo ateismo, ad un livello di ateismo da bar dello sport; e ciò per tre motivi evidenti: che vale la pena riepilogare:
a) perché chi ha lanciato una sfida a tutti gli anatemi della Chiesa mostra palesemente di non credere che Essa è divinamente assistita;
b) perché tale sfida,  giunge temerariamente a negare la divina verità della parola di Nostro Signore Gesù Cristo, e dunque la Sua Stessa Divinità;
c) perché la sfida in se stessa dimostra che coloro che hanno pilotato la nuova chiesa non avevano il benché minimo timor di Dio e nessunissima intenzione di riportarlo in auge.

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D’altronde, la mancanza di fede che qui si denuncia non dovrebbe nemmeno meravigliare. Se Leone XIII, San Pio X, Pio XI, Pio XII insegnano che il rimedio al male è il ritorno alla metafisica tomista, una ragione c’è. Ed anche chiara.
Non è un mistero che oggi si pretende di fare a meno della teologia tomista, che ci si vole precipitare in mezzo al vivo divenire del mondo facendo a meno dell’ essere, onde presentare la nostra fede non già come un cadavere ammuffito della ormai morta metafisica ma come un’azione vivente e uno slancio vitale incentrati sull’incontro con una persona. Ma il divenire, considerato in se stesso, non ha alcuna certezza di essere. Il divenire può considerare l’essere, tutto l’essere, solo come “potenza”, cioè come possibile; ed il possibile non è mai certo. La semplice potenza di essere, ossia il possibile, è, infatti, ciò che non si sa se sia o non sia. Il necessario, invece, è ciò che è ed è certamente. Anche il possibile esiste, è ovvio, ma non può esistere da solo, non può, cioè, giungere all’ essere da se stesso. Di conseguenza, se da possibile a possibile non si giunge all’essere, segue che, affinché il possibile sia, è necessario un essere che sia già in atto. La potenza d’essere, cioè, è possibile solo a condizione che le preesista l’atto puro da ogni potenza, cioè da ogni limite, atto eterno e infinito, che è Dio. Ma, in quanto si fonda sulla sola potenza, o possibilità di essere, il nudo divenire considera lo stesso Iddio come un possibile tra i tanti; e poiché, come si è testé detto, da possibile a possibile non si approda all’essere, il solo divenire, col suo semplice slancio vitale, non sa né potrà mai sapere se Dio esiste oppure no.
È vero che per giungere al Dio cattolico occorre, oltre la certezza dell’Essere, la fede in Cristo, ma resta, comunque, che il tomista, a differenza del modernista, sa che l’esistenza di Dio è conoscibile al solo lume della ragione naturale, esattamente come insegna il Concilio Vaticano I.
Partendo dalla nozione razionalmente certa dell’esistenza di Dio, il tomista, conformemente al dogmatico insegnamento del Concilio vaticano I, sa che il dubbio è una tentazione e che perciò è da rigettare come pensiero volontario, o, peggio, come metodo; così come sa che il conseguente agnosticismo è un peccato e non una posizione da difendere, o da insegnare, alla maniera di Benedetto XVI. Se gli accade di dubitare involontariamente della propria fede, il tomista non perde mai la nozione certa dell’esistenza di Dio, non discende mai sotto di essa, per naufragare miserevolmente nel nichilismo contemporaneo. Invece affrontando la fede senza nessuna certezza razionale dell’ esistenza di Dio e tuffandosi spericolatamente nel flusso del divenire del mondo per portarla agli altri, ci si mette proprio nelle condizioni di far subito naufragio. E, infatti, così è accaduto e solo i ciechi non lo vedono: abbandonato il porto sicuro del tomismo, la nuova chiesa è subito naufragata nel nichilismo ateo della filosofia moderna, e Nostra Aetate e Dignitatis Humanae Personae stanno lì a testimoniarlo. A tal punto, che il rinnovamento liturgico e il drammatico crollo verticale  delle vocazioni sono da considerarsi come la conseguenza, tragica e inevitabile, del volgare ateismo mondano in cui è annegato, fin da principio, il cosiddetto spirito del concilio.

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Il senso di questo scritto è riassumibile nel giro di poche, chiare e semplici parole: riformando la religione cattolica, si è deliberatamente inteso sfidare l’ autorità di Dio, e lo ha fatto perché non crede che la Chiesa Cattolica, nei suoi pronunciamenti, è divinamente assistita.
Non è dunque un caso che, tra i molti cambiamenti avvenuti all’ interno della Chiesa, negli ultimi 50 anni, quello più evidente e incontestabile – e che li spiega tutti – è, appunto, la perdita del timor di Dio (e di conseguenza del senso del peccato). Chi è timorato è evidente che crede in Dio; e chi crede in Dio crede nel Suo Divin Figliuolo, nello Spirito Paraclito inviato alla Chiesa e, appunto per ciò, non osa toccar nulla del sacro deposito. Chi, invece, pensa che gli anatemi siano trascurabili e che, di conseguenza, i dogmi, la dottrina, il magistero e la liturgia rientrino senza problemi nella disponibilità dell’uomo, ne fa lo scempio che vuole, come si è visto negli ultimi cinquant’anni.

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Oggi, come si sa, la Chiesa preferisce insegnare l’amore più che il timore, anche a discapito del timore. L’insegnamento dell’ amore non è, però, una novità: anche prima del concilio, la Chiesa insegnava che non è sufficiente il timore di Dio; è evidente che all’ amore di Dio bisogna corrispondere con l’amore e non con il solo timore.
Nell’ambito della propria vita privata, nessun fedele si sognerebbe mai di applicare gli insegnamenti moderni. Semplicemente dotato di una naturale intelligenza, il gregge sa benissimo che quando timore e rispetto scompaiono, l’amore è già svanito da un pezzo. In nessun ambito umano – salvo che nella illuminata “nuova Chiesa ” – ci si presterebbe a credere che un innamorato, in luogo di difendere l’oggetto del suo amore, lo abbandoni al pubblico ludibrio, unendosi lui stesso al coro di disprezzo degli estranei, com’è avvenuto negli ultimi cinquant’anni. Oggi gli illuminati pastori conciliari insegnano al gregge loro affidato l’amore senza il timore, come se il gregge non sapesse che l’amore senza timore, l’amore che non si cura poco o punto di spiacere all’amato, altro non è che una superficiale declamazione retorica, inesorabilmente smentita, peraltro, dai continui rifacimenti, rimaneggiamenti e lifting a cui sottopone l’Amato ormai da mezzo secolo, umiliandolo pubblicamente in tutti i modi.
È evidente, dunque, che l’amore non sta senza il timore, e che dove si trova l’uno, compare subito anche l’altro. Ciò vale anche per la “chiesa” uscita dal concilio. Di conseguenza, se si volesse individuare chi o cosa essa ami, bisognerebbe necessariamente cercare a chi, nell’ ipotesi in questione, temerebbe immensamente di spiacere. Già! perché è di per sé evidente che se cessa il timore per qualcosa, non per questo cessa il sentimento del timore. La natura umana è così fatta che un assoluto non scompare senza lasciare il posto a un altro. Voglio precisamente dire ciò che sanno tutti, e cioè che quando non si teme un dio, è perché se ne teme un altro. L’assoluto, infatti, non scompare mai, nemmeno se è negato. Ebbene, chiarito ciò, non sembra molto difficile capire quale sia il nuovo assoluto – il nuovo dio – a cui, da cinquant’anni, la Chiesa conciliare si prostra con timore e tremore. Questo dio è il mondo. Ma un dio non viene mai onorato a caso, senza ragione; e che cosa abbia di così speciale questo nuovo dio, ce lo dice la stessa "nuova chiesa" ...


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venerdì 30 maggio 2014

papato non rinunciabile

ORA PERFINO IL “CORRIERE” E MESSORI SCOPRONO CHE CI SONO DUE PAPI. RIPETENDO QUELLO CHE AVEVAMO SCRITTO NOI TRE MESI FA. MA FINGONO DI NON SAPERNE LE CONSEGUENZE (RITIRANO LA MANO DOPO AVER LANCIATO IL SASSO)


Ieri una pagina del “Corriere della sera” a firma Vittorio Messori (col titolo: “Ecco perché abbiamo davvero due papi”), ci ha fatto una rivelazione clamorosa: Benedetto XVI, rinunciando al suo mandato con certe particolari espressioni, ha lasciato “solo il suo potere di governo e di comando sulla Chiesa”. 
Tuttavia mantiene “Il munus, l’ufficio papale” che “non è revocabile”. Ha rinunciato soltanto “alla sua esecuzione concreta”. Ne deriva che la Chiesa avrebbe addirittura “due Papi”, una diarchia.
La rivelazione è davvero clamorosa. Peccato che sia già stata fatta e commentata – a più riprese, con più dovizia di argomenti – tre mesi prima qui sulle colonne di “Libero” (quattro puntate di una mia inchiesta, a partire dal 9 febbraio).
Essendo arrivati in ritardo di tre mesi Messori e il Corriere hanno proposto il tutto come se fosse un loro scoop (prendono a pretesto uno dei saggi di canonisti usciti in questi giorni). Senza riferimenti a tutto quel che è successo fra febbraio e marzo.
GUARDIE SVIZZERE
Infatti quella mia inchiesta sulle dimissioni del papa, a un anno dalla rinuncia, provocò un’enorme bagarre: le “guardie svizzere” di “Vatican Insider-La Stampa” subito insorsero scandalizzate.
Andrea Tornielli, il più zelante, il 14 febbraio, dopo le prime tre puntate della mia inchiesta, la scomunicò con queste testuali e surreali parole:
“(a un anno dalle dimissioni) si sono letti tanti commenti e analisi. In alcuni – vi confesso che a leggerli sono rabbrividito – si adombra quasi l’idea di una diarchia, se non addirittura il fatto che il ‘vero’ Papa rimane Ratzinger. E purtroppo non mi riferisco soltanto alla galassia dei seguaci delle profezie – o delle pseudo-profezie – apocalittiche, ma anche a firme dalle quali nessuno si sarebbe potuto immaginare prese di posizione simili appena un anno fa. Per non parlare di quanti, non sentendosi oggi più così ‘confermati’ in certe loro visioni, battaglie culturali, strategie pastorali, presenzialismi da primi della classe e schemi mentali, invece di un salutare esame di coscienza finiscono per fare i nostalgici e per contrapporre – più o meno subdolamente – il magistero di Benedetto a quello di Francesco”.
Anche stavolta – per l’articolo di Messori – Tornielli rabbrividirà? Nel febbraio scorso, tale fu l’orrore del vaticanista, autoinvestitosi del ruolo di tutore dell’ordine pubblico delle idee, che egli si sentì in dovere perfino di importunare il povero Benedetto XVI – pur sapendo che aveva scelto la clausura – per chiedergli di smentire o confermare le mie tesi.
L’IRONIA DI RATZINGER
Il “papa emerito” ovviamente non poteva sottrarsi a questa petulante richiesta, altrimenti sarebbero state fatte chissà quali insinuazioni. Né poteva dire ciò che fino ad allora aveva taciuto. Così dette una risposta fantastica….
“La Stampa” esibì – come scoop mondiale, rilanciato in tutto il globo – quello strano biglietto di papa Ratzinger dove – a detta del giornale torinese – smentiva le mie argomentazioni. In modo particolare – secondo Tornielli – Ratzinger smentiva di essere “il Papa numero due, non partecipa a una ‘diarchia’ ”.
In realtà Ratzinger in quel biglietto non si occupò affatto di diarchia. Ma soprattutto il suo biglietto conteneva una sola, vera notizia: stava in una risposta enigmatica e raffinatissima del papa emerito che da sola avrebbe dovuto far saltare sulla sedia gli addetti ai lavori.
Dovendo spiegare perché aveva conservato il titolo di “papa emerito”, il nome “Sua Santità Benedetto XVI” e l’abito bianco, Ratzinger scrisse testualmente: “nel momento della rinuncia non c’erano a disposizione altri vestiti”.
Alla “Stampa-Vatican Insider” presero per buona una risposta così surreale. Nemmeno si resero conto della strepitosa ironia del papa che li aveva finemente elusi.
E’ infatti ovvio che una risposta simile significava che il papa non poteva o non voleva parlare né spiegare i motivi di quella scelta.
Ci vuole poco per capirlo, anche perché la rinuncia fu decisa un anno prima e fu annunciata venti giorni prima della sua entrata in vigore, quindi è impossibile che “al momento della rinuncia” non vi fossero disponibili “altri vestiti”.
Del resto nessuno potrebbe credere che uno resti papa per motivi sartoriali…
Infatti due giorni dopo, il 28 febbraio, il fidato don Georg Gaenswein, segretario di Ratzinger, in una intervista all’ “Avvenire”, dette la risposta vera che Benedetto non poteva o non voleva dare di persona. Ecco come don Georg ha spiegato perché egli ha tenuto il titolo di papa emerito: “Ritiene che questo titolo corrisponda alla realtà”.
Chiunque capisce che questa affermazione è di eccezionale importanza: significa che Ratzinger si veste da papa perché “è” papa.
Così Tornielli, che si era fatto pompiere per spegnere l’incendio da me provocato, ha finito involontariamente per appiccarne uno maggiore. Era sempre più evidente che Benedetto XVI non si è dimesso dal ministero petrino, ma solo dal suo “esercizio attivo”.
Se e come questo sia possibile e cosa implichi è questione del tutto irrisolta, anzitutto teologicamente.
Infatti, il 7 aprile scorso, Sandro Magister, il più autorevole e attendibile dei vaticanisti, nel suo famosissimo sito internet, ha rievocato la mia inchiesta e la “risposta” data da “Vatican Insider” dicendo che – a suo giudizio – essa non scioglieva affatto gli interrogativi da me sollevati.
Gli stessi tg avevano dato notizia della controversia e dello straordinario biglietto del papa. Perfino il “Corriere della sera” (sia pure con un articolo superficiale e borioso).
E’ sorprendente che di tutto questo, nella pagina di ieri del quotidiano di via Solferino, non si facesse il minimo accenno.
CONTRADDIZIONI
Ma soprattutto è sorprendente che Messori concludesse il suo articolo con un (apparentemente) ingenuo inno alla bellezza dell’avere due papi “nel recinto di Pietro”, recinto che – spiega entusiasticamente Messori – non è solo luogo geografico, ma anche “luogo” teologico.
Evidentemente Messori non ricorda una sua intervista di un anno fa, proprio ad Andrea Tornielli il quale non è mai parso entusiasta del fatto che Ratzinger sia rimasto papa emerito.
In quella intervista Messori – sollecitato dalle domande di Tornielli – si diceva molto perplesso per il fatto che Benedetto avesse deciso di restare in Vaticano.
E lo diceva assai bruscamente: “Ciò che già a suo tempo mi aveva sorpreso è stata la decisione di Benedetto XVI di rimanere ‘nel recinto di San Pietro’… Ricordo sempre questo motto di Casa Savoia: ‘Qui si governa uno alla volta’. L’impressione che si può ricavare dall’esterno è che l’emerito possa in qualche modo influenzare suo malgrado il successore”.
Ieri Messori ha scritto qualcosa che sembra l’esatto opposto: “Per la prima volta dunque la Chiesa avrebbe davvero due Papi, il regnante e l’emerito? Pare proprio che questa sia stata la volontà di Joseph Ratzinger stesso, con quella rinuncia al solo esercizio attivo che è stato ‘un atto solenne del suo magistero’… Se davvero è così, tanto meglio per la Chiesa: è un dono che ci sia, uno accanto all’altro anche fisicamente, chi dirige e insegna e chi prega e soffre, per tutti, ma anzitutto per sorreggere il confratello nell’ufficio pontificale quotidiano”.
Tutto bene dunque, tutti contenti? Esattamente il contrario. Messori infatti – che è un addetto ai lavori – non può ignorare che questa situazione – come lui la tratteggia – non ha alcun fondamento teologico (né canonico).
Per la divina costituzione della Chiesa infatti uno solo può essere il papa. E se – come dice Messori – Benedetto XVI “non ha inteso rinunciare al munus pontificale” che “non è revocabile”, che dimissioni sono le sue?
Messori sa bene che tutto il suo articolo induce a farsi una domanda drammatica (chi è il papa?), ma evita accuratamente di formularla, lasciando che se la ponga il lettore. Perché? E questo articolo è il segnale che negli ambienti della Chiesa se la stanno ponendo in tanti?
Antonio Socci
Da “Libero”, 29 maggio 2014
Facebook: “Antonio Socci pagina ufficiale”

w il Tango

giovedì 29 maggio 2014

comunione uso e abuso

comunione spirituale uso e abuso



La Comunione spirituale, molto raccomandata dal Concilio di Trento, suppone, è evidente, la fede nella Presenza Reale di Gesù nei Tabernacoli; comporta il desiderio della Comunione Sacramentale, e conduce il fedele alla comprensione dei Comandamenti di Dio, facendolo confluire nell'Amore del Cristo.
In fondo, compito proprio di questa pia pratica, è quel ricondurci a quella innocenza iniziale con la quale ci accostammo per la prima volta alla Prima Comunione.

Oggi si fa un gran parlare di questa pratica, sovente gettata nel dimenticatoio.
A causa (e forse è un bene se la usiamo correttamente) delle recenti affermazioni, gravissime, del cardinale Kasper (1) e di assurde proposte che si stanno avanzando per l'uso di questa pratica, a tal punto da volerla persino sacramentalizzare (2), riteniamo utile ed opportuno avanzare con questo articolo, che ci risvegli nella verità e ci aiuti a comprendere come sfruttare al meglio questa pratica, evitando gli abusi.

Partiamo da un piccolo excursus storico.



La Comunione spirituale si sviluppa all'interno della Chiesa attraverso le parole di Gesù stesso: “Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama. Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch'io lo amerò e mi manifesterò a lui” (Gv 14,21) e “se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23).
Gli Apostoli hanno inteso che davvero ci si poteva unire personalmente al Signore dall’interno del proprio cuore. Perciò san Pietro scriveva: “adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori” (1 Pt 3,15) (3)
I Santi Padri e Dottori come san Bonaventura, per esempio, insegnano che svanita la "presenza corporale" del Signore assunta attraverso l'Eucaristia, sacramentalmente, resta la sua presenza spirituale e di grazia, in noi.

Così specifica Giovanni Paolo II:
"Proprio per questo è opportuno coltivare nell'animo il costante desiderio del Sacramento eucaristico. È nata di qui la pratica della « comunione spirituale », felicemente invalsa da secoli nella Chiesa e raccomandata da Santi maestri di vita spirituale. Santa Teresa di Gesù scriveva: « Quando non vi comunicate e non partecipate alla messa, potete comunicarvi spiritualmente, la qual cosa è assai vantaggiosa... Così in voi si imprime molto dell'amore di nostro Signore »" (4).

e dice ancora:

"L'integrità dei vincoli invisibili è un preciso dovere morale del cristiano che vuole partecipare pienamente all'Eucaristia comunicando al corpo e al sangue di Cristo. A questo dovere lo richiama lo stesso Apostolo con l'ammonizione: « Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice » (1 Cor 11, 28). San Giovanni Crisostomo, con la forza della sua eloquenza, esortava i fedeli: « Anch'io alzo la voce, supplico, prego e scongiuro di non accostarci a questa sacra Mensa con una coscienza macchiata e corrotta. Un tale accostamento, infatti, non potrà mai chiamarsi comunione, anche se tocchiamo mille volte il corpo del Signore, ma condanna, tormento e aumento di castighi ».73 

In questa linea giustamente il Catechismo della Chiesa Cattolica stabilisce:
« Chi è consapevole di aver commesso un peccato grave, deve ricevere il sacramento della Riconciliazione prima di accedere alla comunione ».74 Desidero quindi ribadire che vige e vigerà sempre nella Chiesa la norma con cui il Concilio di Trento ha concretizzato la severa ammonizione dell'apostolo Paolo affermando che, al fine di una degna ricezione dell'Eucaristia, « si deve premettere la confessione dei peccati, quando uno è conscio di peccato mortale ».75
L'Eucaristia e la Penitenza sono due sacramenti strettamente legati. Se l'Eucaristia rende presente il Sacrificio redentore della Croce perpetuandolo sacramentalmente, ciò significa che da essa deriva un'esigenza continua di conversione, di risposta personale all'esortazione che san Paolo rivolgeva ai cristiani di Corinto: « Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio » (2 Cor 5, 20). Se poi il cristiano ha sulla coscienza il peso di un peccato grave, allora l'itinerario di penitenza attraverso il sacramento della Riconciliazione diventa via obbligata per accedere alla piena partecipazione al Sacrificio eucaristico. 
Il giudizio sullo stato di grazia, ovviamente, spetta soltanto all'interessato, trattandosi di una valutazione di coscienza. Nei casi però di un comportamento esterno gravemente, manifestamente e stabilmente contrario alla norma morale, la Chiesa, nella sua cura pastorale del buon ordine comunitario e per il rispetto del Sacramento, non può non sentirsi chiamata in causa. A questa situazione di manifesta indisposizione morale fa riferimento la norma del Codice di Diritto Canonico sulla non ammissione alla comunione eucaristica di quanti « ostinatamente perseverano in peccato grave manifesto ».76
38. La comunione ecclesiale, come ho già ricordato, è anche visibile, e si esprime nei vincoli elencati dallo stesso Concilio allorché insegna: « Sono pienamente incorporati nella società della Chiesa quelli che, avendo lo Spirito di Cristo, accettano integra la sua struttura e tutti i mezzi di salvezza in essa istituiti, e nel suo organismo visibile sono uniti con Cristo – che la dirige mediante il Sommo Pontefice e i Vescovi – dai vincoli della professione di fede, dei Sacramenti, del governo ecclesiastico e della comunione ».77

L'Eucaristia, essendo la suprema manifestazione sacramentale della comunione nella Chiesa, esige di essere celebrata in un contesto di integrità dei legami anche esterni di comunione. In modo speciale, poiché essa è « come la consumazione della vita spirituale e il fine di tutti i Sacramenti »,78 richiede che siano reali i vincoli della comunione nei Sacramenti, particolarmente nel Battesimo e nell'Ordine sacerdotale. Non è possibile dare la comunione alla persona che non sia battezzata o che rifiuti l'integra verità di fede sul Mistero eucaristico. Cristo è la verità e rende testimonianza alla verità (cfr Gv 14, 6; 18, 37); il Sacramento del suo corpo e del suo sangue non consente finzioni...." (5)

La Comunione spirituale, molto raccomandata dal Concilio di Trento, suppone, è evidente e come ha spiegato sopra Giovanni Paolo II, la fede nella Presenza Reale di Gesù nei Tabernacoli; comporta il desiderio della Comunione Sacramentale; e di conseguenza comporta comunque sia uno "stato di grazia" almeno di desiderio in attesa di risolvere ogni pendenza nella Confessione e con una conversione attiva, cioè, assumendo uno stato di vita che rifletta tutti e dieci i Comandamenti; esige il ringraziamento per il dono ricevuto da Gesù in attesa di poterLo ricevere sacramentalmente.


La Preghiera

La formula conosciuta e diffusasi nella Chiesa è di Sant'Alfonso Maria de Liguori che così dice:

“Gesù mio, credo che voi siete realmente nel Santissimo Sacramento. Vi amo sopra ogni cosa. Vi desidero nell’anima mia. Giacché ora non posso ricevervi sacramentalmente, venite almeno spiritualmente nel mio cuore… (pausa). Come già venuto, Vi abbraccio e tutto mi unisco a Voi. Non permettete che io mi abbia mai a separare da voi".

e vi si aggiunge la comunione alla Preghiera della Chiesa:

"Eterno Padre Vi offro il Corpo e il Sangue del Vostro amatissimo Figlio, e Signore Nostro Gesù Cristo: in espiazione dei nostri peccati, per la conversione dei peccatori, in suffragio delle Anime del Purgatorio e per le necessità della Santa Chiesa".
si fa sosta silenziosa e si conclude dicendo un Pater Noster, Ave Maria e Gloria Patri.

Così come è consigliabile farsi accompagnare dalla potente Avvocata che abbiamo presso Gesù, la Sua Madre:

"O Maria, preparami a ricevere degnamente Gesù.
Tu vedi come è ridotta l'anima mia;
Tu conosci fino in fondo la mia miseria, ma a chi altri potrei rivolgermi se non a Te affinchè Tu possa spianare la strada ostruita dai miei peccati?
Ti invoco quale mia Avvocata presso il Tuo dilettissimo Figlio.
Non abbandonarmi proprio ora che ho maggiormente bisogno di essere salvato/a dal precipizio in cui mi trovo.
Portami al Tuo amatissimo Gesù!
Brucia Madre mia ogni mio mal pensiero, brucia tutto ciò che vedi di indegno dentro di me;
abbatti ogni ostacolo che mi separa dal Tuo dolcissimo Figlio".

Si può pregare con le parole ufficiali della Chiesa:

« Adoro te devote, latens Deitas...
Ti adoro con devozione, o Dio che ti nascondi,
che sotto queste figure veramente ti celi:
a te il mio cuore si sottomette interamente,
poiché, nel contemplarti, viene meno.
La vista, il tatto e il gusto si ingannano a tuo riguardo,
soltanto alla parola si crede con sicurezza.
Credo tutto ciò che disse il Figlio di Dio:
nulla è più vero della sua parola di verità ».

O la bellissima preghiera di sant'Ignazio da farsi anche con la Comunione sacramentale:

Anima di Cristo, santificami.
Corpo di Cristo, salvami.
Sangue di Cristo, inebriami.
Acqua del costato di Cristo, lavami.
Passione di Cristo, confortami.
O buon Gesù, esaudiscimi.
Fra le tue piaghe ascondimi.
Non permettere ch'io mi separi da te.
Dal nemico maligno difendimi.
Nell'ora della morte chiamami.
E comanda che io venga a te.
Affinché ti lodi con i tuoi santi nei secoli eterni.
Così sia.

La Comunione spirituale, fatta con queste intenzioni e con il degno proposito di correggere il proprio stile di vita conformandolo ai Comandamenti, produce gli stessi effetti della Comunione Sacramentale, ma non la sostituiscono!

 In fondo, compito proprio di questa pia pratica, è quel ricondurci a quella innocenza iniziale con la quale ci accostammo per la prima volta alla Prima Comunione.
Diceva san Padre Pio che non è importante la quantità di Comunioni sacramentali ricevute, ma la qualità e di essere vigili che la condizione di peccatori non sia stata tale da averci meritato la condanna anzichè la grazia. E così diceva che se la nostra condizione rischiasse davvero di nuocerci, è meglio desiderare la Comunione anzichè prenderla con superbia, tornando ai primordi della nostra innocenza fanciullesca quando ricevemmo il Divin Sacramento in stato di grazia.

Vi ricordiamo  che, queste Preghiere, possono  ( e magari "debbono" ) farsi anche per la Comunione sacramentale, specialmente quella a Maria Santissima come preparazione e quelle di ringraziamento riportate, comprensive del silenzio orante, di quell'atteggiamento atto ad interiorizzare quanto dal Cielo si è ricevuto.

Quanto sia preziosa la Comunione spirituale lo disse Gesù stesso a Santa Margherita Maria Alacoque, molto assidua nel mandare i suoi desideri di fiamma a chiamare Gesù nel Tabernacolo. Una volta le disse: “Mi è talmente caro il desiderio di un’anima di ricevermi, che lo mi precipito in essa ogni volta che mi chiama con i suoi desideri più puri”.

Quanto sia stata amata dai Santi la Comunione spirituale non ci vuol molto a intuirlo. La Comunione spirituale soddisfa almeno in parte a quell’ansia ardente di essere sempre “uno” con chi si ama. Gesù stesso ha detto: “Rimanete in Me e io rimarrò in voi” (Giov. 15, 4). E la Comunione spirituale aiuta a restare uniti a Gesù, sebbene lontani dalla sua dimora. Altro mezzo non c’è per placare gli aneliti di amore che consumano i cuori dei Santi. “Come una cerva anela ai corsi delle acque, così la mia anima anela a Te, o Dio” (Salm. 41, 2): è il gemito amoroso dei Santi. “O Sposo mio diletto - esclama S. Caterina da Genova - io desidero talmente la gioia di stare con Te, che, mi pare, se fossi morta risusciterei per riceverti nella Comunione”.

In sostanza, la Comunione spirituale deve spingere il fedele a ricevere poi Gesù Sacramentalmente Vivo e vero, presente, nell'Ostia Santa.

La situazione di degrado etico e morale a cui abbiamo fatto cenno all'inizio, al contrario, spinge ad una equiparazione (un termine così oggi di moda, sic!) tra le due pratiche, finendo per voler sostituire la Comunione spirituale con quella sacramentale per chi è impossibilitato a riceverla, si veda il caso appunto dei "divorziati-risposati", lasciando questi nel loro stato peccaminoso e, peggio ancora, finendo per legittimare la loro situazione irregolare.

Del resto è Gesù stesso che dice:
“Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama. Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui (..) Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole..." (Gv.14,21-26)

Il Santo Curato d'Ars racconta due episodi significativi:

Il primo  relativo ad una moglie disperata per la morte del marito, ma ancor più angosciata perchè l'uomo non aveva mai voluto pregare con lei, nè andare in Chiesa, non frequentava i Sacramenti da quando fece la Prima Comunione. Il Santo ebbe un sogno che gli rivelò che mentre la moglie diceva il rosario, spesse volte, il burbero marito, ripeteva mentalmente le Ave Maria, specialmente in quel "prega per noi peccatori, adesso e nell'ora della nostra morte, come esprimendo un desiderio inconscio,  fino a farlo in modo abituale, ma senza mai dare a vederlo alla moglie. E per questo si era salvato l'anima!
Il secondo relativo ad un altro uomo che, lontano dalla vita sacramentale, aveva però un amore fanciullesco verso la Madre di Dio per la quale curava e portava i fiori all'edicola lungo la strada. Questo gli bastò per salvarsi l'anima.
E diceva allora il Curato: vedete quanto ci è utile coltivare i buoni pensieri e almeno desiderare di essere in qualche modo salvati?

La condizione è l'amore gratuito ed incondizionato!

Scrive sant'Alfonso Maria de' Liguori nel suo "Visite al Santissimo Sacramento e a Maria santissima" a proposito della Comunione spirituale:

"La Comunione spirituale consiste, secondo san Tommaso d'Aquino, in un desiderio ardente di ricevere Gesù sacramentato ed in un abbraccio amoroso come già fosse ricevuto.
Quanto poi siano gradite a Dio queste comunioni spirituali e quante grazie egli per mezzo loro dispensi, il Signore lo diede ad intendere a quella sua serva suor Paola Maresca fondatrice del monastero di Santa Caterina da Siena in Napoli, quando le fece vedere, come si narra nella sua vita, due vasi preziosi, uno d'oro e l'altro d'argento; e le disse che in quello d'oro Egli conservava le sue Comunioni sacramentali, e in quello d'argento le sue Comunioni spirituali.
Sopra tutto basta sapere che il santo Concilio di Trento molto loda la Comunione spirituale ed anima i fedeli a praticarla. Perciò tutte le anime divote sogliono spesso praticare questo santo esercizio della Comunione spirituale.
Si esorta dunque chi desidera avanzarsi nell'amore di Gesù Cristo fare la Comunione spirituale almeno una volta in ogni visita al Santissimo Sacramento ed in ogni Messa che si sente..."



La Comunione spirituale è un esercizio dell'Anima che vuole tendere al perfezionamento, che ama Gesù sopra ogni cosa "e lo desidera" molto più dei suoi affetti umani e terreni.
La Comunione sacramentale è e rimane aspirazione e desiderio di ogni uomo che vuole concretizzare questo desiderio. Scrive infatti san Tommaso d'Aquino:
"Tuttavia non è inutile la Comunione sacramentale; perché questa produce l'effetto del Sacramento più perfettamente del solo desiderio" (6)

E' per questo che la grandezza di questa pia pratica si è così diffusa nel popolo di Dio!

Essa può essere fatta in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento, e tutte le volte che si vuole, anzi, i Santi la consigliano e la raccomandano almeno dieci volte al giorno.
Efficace perchè può essere fatta persino nella condizione di peccato mortale a patto che, con il desiderio di voler ricevere Gesù, si desideri anche la conversione, il "piacere a Dio" e non agli uomini.
Sarebbe del resto incoerente "pretendere" che Gesù venga ad abitare in un cuore che non ha alcuna intenzione di progredire nella salvezza, e la via della salvezza è la conversione!

Il n° 1650 del CCC dice:

“1650. Oggi, in molti paesi, sono numerosi i cattolici che ricorrono al divorzio secondo le leggi civili e che contraggono civilmente una nuova unione. La Chiesa sostiene, per fedeltà alla parola di Gesù Cristo (« Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un'altra, commette adulterio contro di lei; se la donna ripudia il marito e ne sposa un altro, commette adulterio »: Mc 10,11-12), che non può riconoscere come valida una nuova unione, se era valido il primo matrimonio. Se i divorziati si sono risposati civilmente, essi si trovano in una situazione che oggettivamente contrasta con la Legge di Dio. Perciò essi non possono accedere alla Comunione eucaristica, per tutto il tempo che perdura tale situazione. Per lo stesso motivo non possono esercitare certe responsabilità ecclesiali. La riconciliazione mediante il sacramento della Penitenza non può essere accordata se non a coloro che si sono pentiti di aver violato il segno dell'Alleanza e della fedeltà a Cristo, e si sono impegnati a vivere in una completa continenza”.

Il n° successivo completa il testo:

“1651. Nei confronti dei cristiani che vivono in questa situazione e che spesso conservano la fede e desiderano educare cristianamente i loro figli, i sacerdoti e tutta la comunità devono dare prova di una attenta sollecitudine affinché essi non si considerino come separati dalla Chiesa, alla vita della quale possono e devono partecipare in quanto battezzati:
«Siano esortati ad ascoltare la Parola di Dio, a frequentare il Sacrificio della Messa, a perseverare nella preghiera, a dare incremento alle opere di carità e alle iniziative della comunità in favore della giustizia, a educare i figli nella fede cristiana, a coltivare lo spirito e le opere di penitenza, per implorare così, di giorno in giorno, la grazia di Dio”.

Il Catechismo riassume la dottrina della Chiesa di lunga data, e tiene anche conto dei vari dibattiti avviati nel corso degli ultimi decenni.



A questo pensiero ci conduce l'altro prezioso Documento di Giovanni Paolo II, laddove spiega:

"La Chiesa, tuttavia, ribadisce la sua prassi, fondata sulla Sacra Scrittura, di non ammettere alla comunione eucaristica i divorziati risposati. Sono essi a non poter esservi ammessi, dal momento che il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell'unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall'Eucaristia. C'è inoltre un altro peculiare motivo pastorale: se si ammettessero queste persone all'Eucaristia, i fedeli rimarrebbero indotti in errore e confusione circa la dottrina della Chiesa sull'indissolubilità del matrimonio.
La riconciliazione nel sacramento della penitenza - che aprirebbe la strada al sacramento eucaristico - può essere accordata solo a quelli che, pentiti di aver violato il segno dell'Alleanza e della fedeltà a Cristo, sono sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l'indissolubilità del matrimonio. Ciò comporta, in concreto, che quando l'uomo e la donna, per seri motivi - quali, ad esempio, l'educazione dei figli - non possono soddisfare l'obbligo della separazione, assumono l'impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi..." (7)

Facciamo notare una frase imponente di Giovanni Paolo per giustificare quanto dice:

"La Chiesa, tuttavia, ribadisce la sua prassi, fondata sulla Sacra Scrittura..."

Questa affermazione chiude ogni dibattito sulla validità della Dottrina, ma senza dubbio tiene le porte aperte per come comprenderla sempre meglio, per come metterla in pratica, come affrontare i tanti drammi di oggi.
Ecco come la Comunione spirituale può essere utile e può aiutare tutti noi a compiere passi in avanti verso Gesù, verso l'autentica conversione, ma non certo per sostituire la Comunione sacramentale, o per equipararla.

Sia lodato Gesù Cristo.
Sempre sia lodato.

Note

2) si legga la discussione, qui, approfondita da Sandro Magister
3) si veda la saggia risposta di Amici Domenicani, qui.
5) ibidem  sopra
6) San Tommaso d'Aquino Summa Theologiae, III, q. 80, art. 1, ad 3.
7) Giovanni Paolo II - Familiaris Consortio

http://www.cooperatoresveritatis.it/it/la-comunione-spirituale-uso-e-abuso#.U4SNK_JU_bs.facebook