La teoria della «donna forno», che (quasi) non indigna
E’ da alcuni giorni che aspetto, ma ormai ho capito:
nessuno, eccettuati i pochi anche se battaglieri non conformisti, si
indignerà per la teoria della “donna forno”, che domenica scorsa Le Iene hanno propinato ai telespettatori dando la parola ad una madre surrogata che l’ha esposta tutta contenta («Ero come un forno. Un forno che aiuta a crescere una famiglia») e ad una psicologa che l’ha convalidata («È bella l’idea della mamma-forno, è come una cucina che prepara il suo piatto»).
Ora, in democrazia si può essere pro utero in affitto, tirare in ballo
certi psicologi e pure richiamare sentenze che stanno spianando la
strada a questa pratica schiavista, del resto non sarebbe la prima volta
che dei giudici danno di testa: già nel marzo del 1857 la Corte
Federale Usa, caso Dred Scott contro Sanford, dichiarava lo schiavo
negro senza diritti, dunque le donne dei Paesi poveri sono avvertite.
Quel che invece non credo sia accettabile – per amore
di logica, se non altro – è accettare una cultura secondo cui se le
nostre madri o le nostre nonne hanno passato la vita tra i fornelli per i
propri mariti erano delle povere sottomesse, mentre se delle giovani di
oggi si rendono forni viventi per ricchi committenti, beh, loro sono
donne libere. Eppure pochi notano la contraddizione, così mentre a Paola
Perego han chiuso una trasmissione perché offensivo per le donne
dell’Est, in altre si può inneggiare senza problemi all’utero in affitto
che, oltre ai neonati, rende merce proprio poverette dell’Est. Per
carità, è vero, vi sono donne anche celebri – penso, per stare
all’Italia, alla scrittrice Susanna Tamaro – che stanno condannando
l’utero in affitto senza mezzi termini, ma per la teoria della “donna
forno” mi sarei aspettato il finimondo. Invece diversi, tanti, troppi
zitti. Mi sono quindi convinto, anche se ignoro dove li vendano, che
debbano esserci anche altri nuovi forni in commercio, visti tutti questi
cervelli in fumo.
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