venerdì 31 agosto 2012

lingua latina

Papa Benedetto, incorreggibile: ancora Latino per tutti ....


Tornielli ci segnala la notizia, data per certa, dell'imminente pubblicazione di un nuovo"Motu Proprio" di Benedetto XVI. Anche questa volta c'entra il latino, ma non direttamente o solo per la celebrazione liturgica. Il Papa intenderebbe fondare una Pontificia Accademia per la diffusione dell'uso della lingua di Roma e della Chiesa, non solo per quello che riguarda l'uso strettamente ecclesiale, ma in maniera larga, intendendo il latino come importante patrimonio culturale, da far conoscere e studiare, lingua di accesso a tutto il sapere dell'Occidente antico, medievale e moderno.
Davvero Papa Benedetto dimostra di avere una "fissazione" per la lingua dell'Urbe, e con queste abili mosse, evidentemente, cerca di dare importanti segnali "politici", per esempio ai responsabili di seminari, studentati religiosi e alle Facoltà ecclesiastiche, dove gode - ahimé - di migliore stampa l'ebraico biblico che non il latino, tanto necessario per leggere praticamente tutte le fonti della Chiesa antica (compresi gli Atti del Vaticano II), eppure così ideologicamente trascurato.

Speriamo che il Motu Proprio in pubblicazione abbia più fortuna dell'abortita Veterum Sapientia di Giovanni XXIII, di cui si è recentemente festeggiato il 50° anniversario, o della lettera strappalacrime di Paolo VI Sacrificium laudis (da rileggere e meditare).... Chi ha orecchie per intendere, metta in pratica...

Se ci pensiamo è proprio strano che possano essere ordinati preti nella CHIESA LATINA, in barba al Diritto Canonico, che stabilisce così a proposito della competenza linguistica dei ministri ordinati:
Can. 249 - Institutionis sacerdotalis Ratione provideatur ut alumni non tantum accurate linguam patriam edoceantur, sed etiam linguam latinam bene calleant necnon congruam habeant cognitionem alienarum linguarum, quarum scientia ad eorum formationem aut ad ministerium pastorale exercendum necessaria vel utilis videatur.
I candidati al sacerdozio dimostreranno il loro zelo per le anime preparandosi bene al futuro ministero. Non importa se sono bravi a giocare a curling o se suonano divinamente le maracas, è meglio che passino il tempo 1) a studiare accuratamente la lingua nazionale (nella quale si presume dovranno predicare, parlare ai singoli in confessione, scrivere....); ma (2) anche siano bene competenti nella lingua latina, (non dice 'calleant', ma rafforza 'bene calleant'), e infine (3) abbiano una sufficiente conoscenza delle lingue straniere, il cui studio per la formazione del clero o per l'esercizio del futuro ministero sia valutato come necessario o utile.
Prima dei corsi di inglese o spagnolo o perfino ebraico biblico è richiesta una buona competenza nella lingua latina. Non per colloquiare con l'accento di Cicerone, ma almeno per saper leggere e capire un messale o un breviario, non dico del 1962, ma anche ben più recenti (purtroppo vengono ancora scritti in latino).

Ricordiamo ai giovani seminaristi che, a differenza del fuoco di Pentecoste, lo Spirito Santo che ricevono nell'ordinazione sacra - solitamente - non infonde il dono delle lingue. Ci devono pensare prima i singoli (e anche dopo), con tanta fatica e applicazione. Ma la scienza acquisita col sudore e per amore delle anime non vale certo meno della scienza infusa!
E poi, non si sa mai, metti che un domani si debba concelebrare con sacerdoti cinesi, russi e norvegesi, magari si può usare la Preghiera Eucaristica in una lingua comune; perfino il latino potrebbe, a volte, rivelarsi utile.... Domani però.
Così il Papa vuole promuovere il latino
Benedetto XVI pubblicherà un motu proprio per istituire la «Pontificia Academia Latinitatis». E in Vaticano traducono «indirizzo email» con «inscriptio cursus electronici»

ANDREA TORNIELLI (per Vaticaninsider)
CITTÀ DEL VATICANO: «Foveatur lingua latina». Papa Ratzinger vuole far crescere la conoscenza della lingua di Cicerone, di Agostino e di Erasmo da Rotterdam, nell’ambito della Chiesa ma anche della società civile e della scuola e sta per pubblicare un motu proprio che istituisce la nuova «Pontificia Academia Latinitatis». Fino ad oggi Oltretevere ad occuparsi di mantenere in vita l’antico idioma era stata una fondazione, «Latinitas», rimasta sotto l’egida della Segreteria di Stato e ora destinata a scomparire: oltre a pubblicare l’omonima rivista e a organizzare il concorso internazionale «Certamen Vaticanum» di poesia e prosa latina negli anni si è occupata di tradurre in latino parole moderne.

L’imminente istituzione della nuova accademia pontificia che si affianca alle undici già esistenti – tra le quali ci sono le più note dedicate alle scienze e alla vita – è confermata in una lettera che il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio della Cultura, ha inviato a don Romano Nicolini, un sacerdote riminese grande propugnatore del ritorno dell’ora di latino nella scuola media inferiore. Ravasi ha ricordato che l’iniziativa dell’Accademia è «voluta dal Santo Padre» ed è promossa dal dicastero vaticano della cultura: vi faranno parte «eminenti studiosi di varie nazionalità, con finalità di promuovere l’uso e la conoscenza della lingua latina sia in ambito ecclesiale sia in ambito civile e quindi scolastico». Un modo per rispondere, conclude il cardinale nella lettera, «a numerose sollecitazioni che ci giungono da diverse parti del mondo».

Sono passati cinquant’anni da quando Giovanni XXIII, ormai alla vigilia del Concilio, promulgò la costituzione apostolica «Veterum sapientia» per definire il latino come lingua immutabile della Chiesa e ribadirne l’importanza, chiedendo alle scuole e università cattoliche di ripristinarlo nel caso fosse stato abbandonato o ridotto. Il Vaticano II stabilirà di mantenere il latino in alcune parti della messa, ma la riforma liturgica post-conciliare ne avrebbe abolito ogni traccia nell’uso comune. Così, mentre mezzo secolo fa prelati di ogni parte del mondo riuscivano a capirsi parlando l’idioma di Cesare e i fedeli mantenevano un contatto settimanale con esso, oggi nella Chiesa il latino non gode di buona salute. E sono altri ambiti, laici, interessati a promuoverla.

Oltretevere continuano comunque a lavorare studiosi che propongono neologismi per tradurre le encicliche papali e i documenti ufficiali. Un lavoro non facile è stato quello di tradurre in latino l’ultima enciclica di Benedetto XVI, «Caritas in veritate» (luglio 2009), dedicata alle emergenze sociali e alla crisi economico finanziaria. Alcune scelte dei latinisti della Santa Sede sono state criticate da «La Civiltà Cattolica», l’autorevole rivista dei gesuiti, che ha ritenuto discutibile la scelta dei termini «delocalizatio», «anticonceptio» e «sterilizatio», approvando invece le scelte di «plenior libertas» per liberalizzazione, e di «fanaticus furor» per fanatismo». Tra le curiosità, l’espressione «fontes alterius generis» per tradurre le fonti alternative e «fontes energiae qui non renovantur» per le risorse energetiche non rinnovabili.

L’iniziativa del Papa di istituire una nuova Pontificia Accademia è un segnale significativo, di rinnovata attenzione. «Il latino educa ad avere stima delle cose belle – spiega don Nicolini, che ha diffuso nelle scuole medie diecimila copie di un opuscolo gratuito introduttivo alla lingua latina e sta diffondendo l’appello per farla tornare tra le materie curricolari – e ci educa anche a dare importanza alle nostre radici».

Tra coloro che si occupano di rinnovare il lessico latino per poter comunicare ancora oggi nella lingua ciceroniana c’è don Roberto Spataro, 47 anni, è docente di Letteratura cristiana antica e segretario del Pontificium Institutum Altioris latinitatis, voluto da Paolo VI presso l’attuale Università Pontificia Salesiana di Roma. «Come tradurrei “corvo”? Mi aspettavo questa domanda… Ecco, direi: “Domesticus delator” o “Intestinus proditor”», risponde il sacerdote. E spiega come nascono i neologismi latini: «Esistono due scuole di pensiero. La prima, che potremmo definire anglosassone, ritiene che prima di creare un neologismo per tradurre parole moderne bisogna passare al setaccio tutto ciò che è stato scritto in latino lungo i secoli, non soltanto il latino classico. L’altra scuola, che per comodità definirei latina, ritiene che si possa essere più liberi nel creare una circonlocuzione che renda bene l’idea e il significato della parola moderna, mantenendo però il sapore del latino classico, ciceroniano».

Spataro appartiene alla seconda scuola e invita «a sfogliare l’ultima edizione del “Lexicon recentis latinitatis”, curato da don Cleto Pavanetto, eccellente latinista salesiano, e pubblicato nel 2003, con ben 15.000 vocaboli moderni resi in lingua latina». Ad esempio, fotocopia si traduce “exemplar luce expressum”, banconota diventa “charta nummária”, basket-ball “follis canistrīque ludus”, best seller è “liber máxime divénditus”, i blue-jeans sono “bracae línteae caerúleae”, mentre goal è “retis violátio”. Gli hot pants diventano “brevíssimae bracae femíneae”, l’IVA si traduce “fiscāle prétii additamentum”, mountain bike è “bírota montāna”, paracadute diventa “umbrella descensória”. Nel Lexicon mancano però i riferimenti al web. «In effetti non ci sono – spiega don Spataro – ma negli ultimi nove anni tra chi scrive e parla in latino si sono coniate nuove espressioni. Così internet è “inter rete”, e l’indirizzo email “inscriptio cursus electronici”».


Testo preso da: Cantuale Antonianum http://www.cantualeantonianum.com/#ixzz259ANC3My
http://www.cantualeantonianum.com

paolo vi

giovedì 30 agosto 2012

campane

Le campane

http://traditioliturgica.blogspot.it/

Vox Dilecti mei pulsantis 



Le campane sono un mezzo utilizzato dalle chiese cristiane per richiamare l'attenzione a momenti particolari della giornata.
Indicano, innanzitutto, un fatto evidente: il Cristianesimo, come ogni altra religione, non è un fatto individualistico e privato ma sociale. Il fatto che il suono delle campane si diffonda in tutto lo spazio circostante, richiama ogni realtà a qualcosa di ben preciso che appartiene all'universo religioso, un universo non confinato, dunque, nel solo spazio della coscienza individuale.

Nei paesi in cui si confessa la laicità dello Stato e che, parallelamente, confessano la religione come fatto privato, la presenza del suono delle campane è un po' una "contraddizione", un segno che testimonia tutto un diverso ordine di cose, dal momento che non esiste luogo in cui questo suono non possa penetrare.

In conseguenza di ciò oggi si nota il tentativo di alcuni d'imporre un limitato scampanio mentre, nella grande campagna francese, molti crescono senza avere mai sentito il suono frequente d'una campana od essere entrati in una chiesa.

Oltre ad annunciare la presenza o l'imminenza di una funzione liturgica, le campane ne marcano i momenti salienti. Succedeva, così, che le campane suonassero in corrispondenza dell'elevazione dell'ostia e del calice (nel rito latino) e che continuino a suonare all'inizio della grande Dossologia e del grande Ingresso (nel rito greco-bizantino) quando il pane e il vino sono portati in processione.

Il suono delle campane annuncia, altresì, la Resurrezione di Cristo, sia in Oriente che in Occidente, durante la veglia del Sabato santo. 

Nei monasteri latini tradizionali, le campane segnano l'inizio del canto del breviario nelle varie ore liturgiche poiché la preghiera santifica lo scorrere del tempo e le campane stanno a ricordarlo particolarmente.

Nel famoso quadro l' "Angelus", si ritrova tale aspetto: una coppia di contadini, al suono delle campane, ferma il suo lavoro e recita la preghiera mariana. L'annuncio del tempo, prima ancora che indicare un'ora, indicava la santificazione della stessa. Certamente l'angelus non era come la preghiera liturgica delle ore, essendo solo un esercizio di pietà, ma voleva, in qualche modo, conservare ancora la santificazione di una particolare ora presso chi non era né chierico né monaco. Una pratica oramai totalmente dimenticata dalla massa della società.



A proposito di questo tema è stato scritto: 
"Le campane oltre il normale incarico di segnalare l'ora dei servizi religiosi, ebbero anche altri uffici congeneri, tuttora vivi nelle chiese [l'autore scriveva decenni fa' e questa pratica oramai è morta]; come quello di avvertire dell'agonia e morte di un fedele, perché si preghi per l'anima sua, costume di provenienza monastica; di scongiurare i temporali o meglio gli spiriti maligni che, secondo la credenza medioevale, ne sarebbero i suscitatori; di preannunciare la sera precedente il digiuno del dì successivo; di segnare l'ora del coprifuoco; di imprimere una nota di gioia nelle circostanze solenni della chiesa; ed altri ancora di carattere civile (l'orologio), ma sempre per un interesse collettivo". (Cfr. Mario Righetti, Storia Liturgica, I, Marietti, p. 484).

Le campane, come ogni altro elemento della chiesa, sono benedette e consacrate con una funzione particolare presieduta dal vescovo. In questo modo il loro suono non è considerato come ogni altro ma, in qualche modo, gli viene attribuito il valore di una "benedizione" che si diffonde su ovunque lo ascolti e lo accolga con animo ben disposto.

Il rito tradizionale latino di consacrazione delle campane (che in qualche modo ha elementi simili a quello bizantino) è stato descritto da Mario Righetti come segue:

"Il rituale della cerimonia, che di regola è demandato al vescovo, si trova già sostanzialmente abbozzato nel [rituale] gelasiano del secolo VIII, e poi meglio rifinito nel Pontificale romano-germanico, dal titolo Ordo ad signum ecclesiae benedicendum. Esso comporta tre elementi principali:

1) La lustrazione della campana con acqua miscelata di sale ed olio. 
L'olio più tardi (XIII secolo) venne omesso. La prima delle due formule relative enuncia in dettaglio gli scopi della benedizione, che non sono frutto di magia, ma effetto della virtù dello Spirito Santo:

Benedic, Domine, hanc aquam benedictione caelesti et assistat super eam virtus Spiritus sancti, ut cum hoc vasculum ad invitandos filios eclesiae preparatum, in ea fuerit tinctum, ubicumque sonnuerit ejus tintinnabulum, longe recedat virtus inimicorum... incursio turbinum... calamitas tempestatum... et credscat in eis devotionis augmentum ut festinanter ad piae matris Ecclesiae gremium, cantent tibi canticum novum in eclesia sanctorum, deferentes in sono praeconium tubae, modulationem psalterii...

Il pensiero della nota festiva che desta il suono della campana in chi ne ascolta la voce simbolica, ha suggerito a questo punto il canto dei se salmi di Laudes: ps. 145-150. Nel frattempo il vescovo coll'acqua benedetta che ha confezionato, lava la campana entro e fuori, concludendo la lustrazione con una orazione a Dio, affinché al suono di quello strumento

... fideles invitentur ad praemium...; crescat in eis devotio fidei, procul pellantur omnes insidiae inimici... ventorum flabra fiant salubriter ac moderate suspensa, prosternat aereas potestas dextera tuae virtutis. Per.

2) Le unzioni sacre. 
Astersa la campana, viene consacrata col Crisma. Il rito è d'origine gallicana, e, dato l'oggetto, non si presenta certamente ben indovinato; ma ci voleva per completare l'analogia col battesimo. Il vescovo pratica undici unzioni; sette sulla superficie esterna della campana, quattro all'interno. Negli Ordines più antichi, come nel Gellonense, le ultime unzioni soltanto sono compiute col Crisma; le prime con altro olio sacro senza distinguere fra quello dei catecumeni o degli infermi. Attualmente è prescritto quest'ultimo. Il Pontificale romano al secolo XIII dà la formola dell'unzione: Consecretur ut sanctificetur, Domine, signum istud in honorem S. Mariae Matris Christi, vel sancti illius, in nomine P. et F. et S.S. Amen.

La formula accenna ad una intitolazione della campana; l'uso infatti di darle un nome sacro in occasione del suo battesimo, è già attestato nel sec. X. Il Baronio riferisce che pp Giovanni XIII, nel 961, fu il primo a imporre un nome ad una campana, quella di s. Giovanni in Laterano, facendovi iscrivere il nome Joannes.

Anche le unzioni hanno carattere apotropaico. Risulta dal sal. 28 Afferte Domino filii Dei..., prescritto durante la cerimonia, che afferma la potenza sovrana della voce di Dio su tutti gli elementi, ripetendone l'alto concetto in sette versetti successivi. Per questo, il Pontificale romano-germanico portava in rubrica: Quot vicibus in psalmis dicit: Vox Domini... totidem (episcopus) signa faciat cum chrismate...

3) Le fumigazioni d'incenso.
Unta la campana, il vescovo le sottopone un incensiere fumante, thimiamate, thure et myrra, in modo che i vapori profumati si raccolgano e tutto riempiano l'imbuto campanario. L'incenso vuol essere innanzitutto un atto in onore allo strumento, divenuto res sacra; ma in pari tempo continua la linea esorcistica che compenetra tutto il rito. La Schola, infatti, durante la fumigazione, esegue gli ultimi sette versetti del sal. 76 Voce mea ad Dominum clamavi... nei quali si riafferma l'idea della onnipotenza di Dio sugli elementi. Dal canto suo il vescovo nella colletta che segue, dopo aver richiamato la forza taumaturga di Gesù nel sedare la tempesta sul lago di Cafarnao, prega il Signore che dum huius vasculi sonitus transit per nubila, Ecclesiae tuae conventum manus servet angelica, fruges credentium, mentes et corpora, salvet protectione sempiterna.

La pericope evangelica circa la visita di Cristo alla casa di Marta e Maria in Betania, la cui lettura chiude tutto il rito, fu un'aggiunta di Durando; ma non se ne intende bene il significato. Al suo posto il Pontificale romano del secolo XIII metteva la recita delle Litanie dei Santi". (Crf. Ibid, V, pp. 523-525). 

Da quanto detto, risulta che la campana non è considerata come un oggetto funzionale ma, quasi, come una realtà vivente, come, d'altronde, l'intero tempio. Essa ha un nome, un rito simile a quello battesimale (ora inesistente in ambito latino) e le si attribuisce una forza che deriva dalla grazia divina.
E' esattamente questo che spiega l'atteggiamento devozionale nella liturgia bizantina di consacrazione delle campane di cui alleghiamo eloquente documentazione fotografica (patriarcato di Mosca). Un atteggiamento che l'Occidente cristiano ha praticamente dimenticato rinsecchendo, in molti suoi ambiti, pure la sua stessa fede.













mercoledì 29 agosto 2012

Comunione Eucaristica

Comunione in ginocchio o in piedi? A san Zeno (Vr) i foglietti preparati dal parroco don Brugnoli con alcune paterne raccomandazioni


Vi ricordate di don Andrea Brugnoli? Il parroco di san Zeno alla Zai (Vr) che, tra altre cose, ha studiato i "4 passi" da suggerire ai suoi confratelli sacerdoti per seguire l'esempio del Santo Padre circa la distribuzione della S. Comunione in ginocchio e in bocca?
Ecco, a ulteriore completamento di quella bella iniziativa, don Andrea ha ideato un foglietto sulla S. Comunione e sui "6 passi" per accostarVisi. Molte copie di questa brochure vengono poste in fondo alla sua chiesa e vengono prese dai fedeli.

Sul foglietto il pio lettore può anche trovare risposte a domande ricorrenti: "Si può fare la Comunione ad ogni Messa?", "Comunione in bocca o in mano?", "Quali sono i frutti della Comunione?"

Pubblicamo una perché ciò possa essere utile o di ispirazione per altri sacerdoti (come negli intenti di don Andrea).
Speriamo che altri sacerdoti desiderosi di seguire il Papa, vogliano e possano prendere spunto, ed riescano ad ottenere (anche mediante questi mezzi) la stessa conversione di cuore e di disposizione d'animo che suscita don Andrea Brugnoli nei suoi parrocchiani grazie al suo esempio e alla sua pastolare: ars-orandi-ars celebrandi-ars credendi- ars vivendi.
Complimenti ancora a don Andrea.


S. Pietro e Giuda


Lacrime e menzogne: Pietro e Giuda


Cari fratelli e sorelle!
Nelle scorse domeniche abbiamo meditato il discorso sul «pane della vita», che Gesù pronunciò nella sinagoga di Cafarnao dopo aver sfamato migliaia di persone con cinque pani e due pesci. Oggi, il Vangelo presenta la reazione dei discepoli a quel discorso, una reazione che fu Cristo stesso, consapevolmente, a provocare. Anzitutto, l’evangelista Giovanni – che era presente insieme agli altri Apostoli – riferisce che «da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui» (Gv 6,66). Perché? Perché non credettero alle parole di Gesù che diceva: Io sono il pane vivo disceso dal cielo, chi mangia la mia carne e beve il mio sangue vivrà in eterno (cfr Gv 6,51.54); veramente parole in questo momento difficilmente accettabili, comprensibili. Questa rivelazione – come ho detto – rimaneva per loro incomprensibile, perché la intendevano in senso materiale, mentre in quelle parole era preannunciato il mistero pasquale di Gesù, in cui Egli avrebbe donato se stesso per la salvezza del mondo: la nuova presenza nella Sacra Eucaristia.
Vedendo che molti dei suoi discepoli se ne andavano, Gesù si rivolse agli Apostoli dicendo: «Volete andarvene anche voi?» (Gv 6,67). Come in altri casi, è Pietro a rispondere a nome dei Dodici: «Signore, da chi andremo? – Anche noi possiamo riflettere: da chi andremo? – Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (Gv 6,68-69). Su questo passo abbiamo un bellissimo commento di Sant’Agostino, che dice, in una sua predica su Giovanni 6: «Vedete come Pietro, per grazia di Dio, per ispirazione dello Spirito Santo, ha capito? Perché ha capito? Perché ha creduto. Tu hai parole di vita eterna. Tu ci dai la vita eterna offrendoci il tuo corpo [risorto] e il tuo sangue[, Te stesso]. E noi abbiamo creduto e conosciuto. Non dice: abbiamo conosciuto e poi creduto, ma abbiamo creduto e poi conosciuto. Abbiamo creduto per poter conoscere; se, infatti, avessimo voluto conoscere prima di credere, non saremmo riusciti né a conoscere né a credere. Che cosa abbiamo creduto e che cosa abbiamo conosciuto? Che tu sei il Cristo Figlio di Dio, cioè che tu sei la stessa vita eterna, e nella carne e nel sangue ci dai ciò che tu stesso sei» (Commento al Vangelo di Giovanni, 27, 9). Così ha detto sant’Agostino in una predica ai suoi credenti.
Infine, Gesù sapeva che anche tra i dodici Apostoli c’era uno che non credeva: Giuda. Anche Giuda avrebbe potuto andarsene, come fecero molti discepoli; anzi, avrebbe forse dovuto andarsene, se fosse stato onesto. Invece rimase con Gesù. Rimase non per fede, non per amore, ma con il segreto proposito di vendicarsi del Maestro. Perché? Perché Giuda si sentiva tradito da Gesù, e decise che a sua volta lo avrebbe tradito. Giuda era uno zelota, e voleva un Messia vincente, che guidasse una rivolta contro i Romani. Gesù aveva deluso queste attese. Il problema è che Giuda non se ne andò, e la sua colpa più grave fu la falsità, che è il marchio del diavolo. Per questo Gesù disse ai Dodici: «Uno di voi è un diavolo!» (Gv 6,70). Preghiamo la Vergine Maria, che ci aiuti a credere in Gesù, come san Pietro, e ad essere sempre sinceri con Lui e con tutti.
(Benedetto XVI, Angelus, Domenica 26 agosto 2012)

Giuda — « Si sarebbe potuto vendere questo profumo e darne il ricavato ai poveri ». Sempre la maschera della virtù sulla smorfia dell’invidia. È in nome dell’ordine, della morale e del buon senso che Giuda ha venduto il suo Maestro.
(Gustave Thibon, L’uomo maschera di Dio, trad. it., SEI, Torino 1971, p. 220)

Educazione dell’amore. — Gli apostoli dormivano nel Getsemani mentre il maestro agonizzava. La loro delusione si sfumava in stupore, la disperazione si rifugiava nel sonno. Colui al quale si erano dati con tutto il loro ess­ere, senza distinguere nel loro attaccamento il puro dal­’impuro, il dono di sé ed il desiderio d’un regno temporale, non era più che un vinto che stava per morire. Presto Pietro lo rinnegherà — e poi piangera per averlo rinnegato, ed un nuovo amore germinera attraverso le rovine della sua fede sconvolta fino alle fondamenta. Questa metamorfosi era il solo scampo offerto alla sua anima, così debole, così impura ancora, ma affascinata per sempre dall’appello del Figlio di Dio. Non poteva ritornare indietro. « Signore, con chi andremmo? », aveva detto una volta per tutte. In quella miserabile pasta umana schiacciata dalla delusione, vegliava il lievito indimenticabile del primo amore, e la speranza macinata nel tempo avrebbe lievitato nell’eter­nità. È il supremo esempio dell’alternativa offerta a tutte le crisi dell’amore: restare allo stesso livello e mutare og­getto oppure restare attaccati allo stesso oggetto mutando di livello — correre sulla terra od elevarsi nel cielo.
(Gustave Thibon, L’uomo maschera di Dio, trad. it., SEI, Torino 1971, pp. 106-107)

martedì 28 agosto 2012

san Giovanni Battista

Quanta in uno facínore sunt crímina!


 
Ex libro sancti Ambrósii Epíscopi de Virgínibus

Quóniam beáti Ioánnis Baptístæ non strictim prætereúnda est recordátio,
ínterest ut quis
et a quibus
et quam ob causam,
quo modo
et quo témpore sit occísus,
advértere debeámus.

Ab adúlteris iustus occíditur,
et a reis in iúdicem capitális scéleris poena convértitur.

Deínde præmium saltatrícis,
mors est Prophétæ.
Postrémo (quod étiam omnes bárbari horrére consuevérunt)
inter épulas atque convívia consummándæ crudelitátis
profértur edíctum;

et a convívio ad cárcerem,
de cárcere ad convívium ferális flagítii circumfértur obséquium.

Quanta in uno facínore sunt crímina!

lunedì 27 agosto 2012

MAGNE PATER AUGUSTINE, Inno 2. Gregoriano, studio di Giovanni Vianini,...

Sant' Agostino




Magne Pater Augustine,Preces nostras suscipe
Et per eas Conditori
Nos unire satage:
Atque rege gregem tuum,
Summum decus praesulum.

Amatorem paupertatis
Te collaudant pauperes:
Assertorem veritatis
Amant veri judices:
Frangis nobis favos mellis,
De Scripturis disserens.

Quae obscura prius erant
Nobis plana faciens,
Tu de verbis Salvatoris
Dulcem panem conficis,
Et propinas potum vitae
De Psalmorum nectare.

Tu de vita clericorum
Sanctam scribis regulam,
Quam qui amant et sequuntur
Viam tenent regiam,
Atque tuo sancto ductu
Redeunt ad patriam.

Regi regum salus, vita,
Decus, et imperium:
Trinitati laus et honor
Sit per omne saeculum,
Quae concives nos adscribat
Supernorum civium.
Quartieri a luci rosse, Sepe: no a ghetti!

 


​Dopo le coppie di fatto, i quartieri a luci rosse. È ancora l’arcivescovo di Napoli cardinale Crescenzio Sepe a chiedere attenzione ai veri problemi della città e dei napoletani e a richiamare alla seria responsabilità politica ed amministrativa il sindaco Luigi De Magistris, la cui ultima idea è la realizzazione in città di quartieri ad hoc per mettere un freno alla prostituzione.

Una proposta bocciata dal Presule e bollata come «tema ad effetto per occupare spazi nei giornali e nelle televisioni». L’omelia durante la celebrazione eucaristica per la festa di santa Patrizia, ieri mattina nella chiesa di San Gregorio Armeno, ha offerto l’occasione per criticare il progetto annunciato qualche giorno fa dal sindaco a commento dei dati sulla prostituzione in città (2mila clienti al giorno) e valutato dal cardinale «un diversivo e una distrazione alle migliaia di giovani che non vedono alcuno spazio e che sono costretti a considerare il lavoro un miraggio», in mancanza, ha sottolineato, di «idee e proposte concrete rispetto ad argomenti seri e di interesse generale».

Sepe ha osservato che nessuno «pretende soluzioni miracolose a problemi antichi e recenti, aggravati da una crisi economica senza precedenti», ma, ha ammonito, «non ci si può lasciare andare a frivolezze». Per l’arcivescovo non servono «ghetti dove si commercializzano anime, carne e valori» bensì luoghi di accoglienza che, ha precisato, «non sono prerogativa soltanto delle strutture ecclesiali, religiose o cattoliche, ma un dovere anche e prima ancora di chi ha responsabilità istituzionale. Le luci rosse – è stata la sua amara conclusione – sono fatte per abbagliare e ingannare, senza risolvere i problemi della nostra gente».

La risposta del sindaco De Magistris alle dure annotazioni del cardinale sulle sue proposte è giunta nel pomeriggio di ieri. «Rimango ferito e dispiaciuto per l’attacco politico verso l’amministrazione», ha scritto in una lunga nota il primo cittadino. Ripiegando poi su odiose accuse («Lei che si è occupato di ben altre case quando era a Roma sa bene che noi vogliamo case aperte, trasparenti, luoghi liberi») e su ironie fuori luogo («Si tratta di una semplice proposta di chi vede, nel silenzio generale, aumentare nel Paese la prostituzione soprattutto minorile [...] Un fenomeno “scomodo” da affrontare, di cui oggi, infatti e finalmente, parla anche il cardinale Sepe»).
 

s. monica


S. MONICA: Madre di tante lacrime



                                                                         Molte mamme di oggi non vivono tempi facili.
Non è stato facile nemmeno per Monica, la santa che ricordiamo nel mese di agosto. Anche lei ha dovuto tribolare non poco per il figlio Agostino.
Con un figlio adolescente in casa è difficile dormire sempre sonni tranquilli. Questo perché alcuni comportamenti dei figli sono fonte di apprensione e di preoccupazioni, di angoscia e di lacrime.
Educare un figlio o una figlia adolescente nella civiltà contadina e pre-industriale riservava meno problemi di oggi. La nostra società post-moderna (e qualcuno aggiunge anche post-cristiana) si qualifica per la sua forte connotazione consumistica. E nel grande mare del consumismo i giovani nuotano molto bene, grazie al sostegno finanziario dei genitori, spesso acriticamente generosi. Con i soldi facili (talvolta troppo facili) a portata di mano e con una personalità ancora non strutturata in quanto a valori e forza di volontà, l’adolescente cade più facilmente vittima dell’uso e dell’abuso del fumo, dell’alcol e della droga, dei divertimenti aggressivi e pericolosi, dei comportamenti devianti sfocianti, talvolta, nella prostituzione e nell’Aids. E i primi a essere angosciati e distrutti da queste tragedie sono i genitori.



Alcune mamme versano lacrime per i figli persi perché vittime delle sette pseudo religiose, o schiavi dei giochi d’azzardo, o diventati succubi delle cattive compagnie che li porteranno alla devianza sociale e ai guai con la legge. Altre piangono per i figli in carcere per propria colpa o all’ospedale per malattie incurabili di cui non hanno colpa.
Aspettate il prossimo fine settimana con la cosiddetta “febbre del sabato sera”, e ci sarà qualche mamma che in ansia aspetterà il ritorno del figlio o della figlia dalla discoteca (lo “sballo” settimanale). Purtroppo qualcuna cambierà la propria ansia in lacrime e dolore: il figlio che aspetta non tornerà più perché è già entrato nelle statistiche delle “vittime del sabato sera”.
A tutte queste mamme in difficoltà Monica, madre anche lei, può essere di aiuto e di conforto, di speranza e di esempio. Il figlio Agostino riconobbe che grande merito della propria conversione era della madre, grazie alle sue continue preghiere e alle tante lacrime versate. Si riferiva a questo fatto quando, nelle famose Confessioni, scrisse: “Non è possibile che un figlio di tante lacrime perisca”. E le tante lacrime erano di Monica e quel figlio che non poteva perire era lui stesso, Agostino.

Monica vinse il vino e convertì il marito
Monica nacque a Tagaste nell’odierna Algeria del nord, nell’anno 331, da genitori cristiani, ma che non erano eccessivamente preoccupati di dare una seria educazione cristiana ai figli (come molti genitori oggi). Se nel caso di Agostino l’educatrice alla fede e alla vita cristiana di ogni giorno fu la madre Monica, per quest’ultima fu invece la nutrice di famiglia, che aveva già tenuto in braccio suo padre.
Questa donna era quindi parte della famiglia, ben voluta, di ottima condotta e saggezza. E possiamo immaginare anche un po’ anziana. Agostino fa un grande elogio di lei: “Era energica nel punire con santa severità quando era opportuno e ricca di saggezza nell’istruire”. La dottrina del permissivismo in educazione, seguita da non pochi genitori ed educatori di oggi, non faceva parte del bagaglio di questa nutrice: era severa ma con saggezza, correggeva ma con tatto, sapeva anche punire ma con giustizia. Nei migliori trattati di pedagogia non deve mancare un capitolo sui “castighi” e giustamente. Questo anche perché il peccato originale e le sue conseguenze sono una verità di fede, e non è stato ancora cancellato (o superato) dalla tecnologia moderna. Del resto di castighi ne parlava un super educatore come Don Bosco, che di ragazzi se ne intendeva. Dice Agostino che la nutrice di sua madre era saggia nell’istruire e coscienziosa quando doveva correggerla.
Monica non era nata santa, lo diventò con pazienza, con costanza ed umiltà. Nella sua vita non riscontriamo, come in altre sante, una partenza bruciante sulla strada della perfezione evangelica fin da fanciulla. Aveva i propri difetti e difficoltà che seppe superare. Un esempio: a Monica piaceva il vino. E non poco. L’aveva raccontato lei stessa, nella sua grande umiltà, al figlio Agostino. Questo è segno di santità: “Quando i genitori credendola sobria, le ordinavano secondo i costumi, di andare ad attingere vino, ella, prima di versare il vino nel fiasco… ne beveva un pochino”. Solo un po’, naturalmente. All’inizio. Ma bevi oggi, bevi domani, la debolezza era diventata un’abitudine negativa, una schiavitù (oggi si direbbe una dipendenza).
La nutrice, alla quale non sfuggiva nulla e che aveva intuito tutto, ebbe il coraggio di intervenire. Un giorno, bisticciando con la ragazza le rinfacciò quella debolezza chiamandola “ubriacona”. Qualche “padroncina” di oggi avrebbe minacciato rappresaglie feroci o addirittura il licenziamento per quella “vecchia domestica” che osava tanto e non si faceva gli affari suoi. Monica invece accettò la verità anche se le faceva male, riconobbe l’abitudine non lodevole, e se ne liberò. Anche questo è santità.

Tante preghiere e lacrime per il figlio Agostino
Nel 353 Monica andò sposa ad un certo Patrizio, romano, dal quale avrà tre figli. Questi non era cristiano, aveva un carattere un po’ violento e non era nemmeno un buon esempio di fedeltà. Una donna meno forte e convinta nella fede cristiana avrebbe invocato subito la separazione o il divorzio. Monica no, voleva rimanere fedele al proprio matrimonio (“nella buona e nella cattiva sorte”) ma senza chiudere gli occhi sulle “malefatte” del suo compagno di vita.
E così la seconda battaglia che lei vinse, dopo il vino, fu quella del marito. Battaglia paziente, dolorosa, lunga, ma vittoriosa: riuscì infatti a guadagnare al Signore anche lui. Questi morirà nel 371, dopo essere diventato buon cristiano grazie alla preghiera incessante, alle lacrime e alla pazienza della moglie Monica. Scrisse Agostino: “Così non ebbe più da piangere quelle sue infedeltà che aveva dovuto tollerare quando egli non era ancora credente”. Anche questo è santità.
Ma la più grande sofferenza e nello stesso tempo la più grande gioia a Monica arriveranno dal figlio Agostino. Lei stessa l’aveva educato cristianamente, con la parola e con l’esempio, gli aveva messo nel cuore e sulle labbra fin da bambino il nome di Gesù, che nonostante tutte le peripezie filosofiche ed esistenziali, non dimenticherà mai.
Già qualche anno prima della morte del marito, quel figlio tanto intelligente le dava molte preoccupazioni. Sarà lei stessa che nel 371 lo manderà a Cartagine a proseguire gli studi. E sarà nello stesso anno che Agostino incomincerà la convivenza (come si vede era molto “moderno”) con una donna, dalla quale, l’anno dopo, avrà anche un figlio, Adeodato. Questa scelta fuori dal matrimonio fu per Monica un duro colpo: vedeva infatti il figlio allontanarsi dagli insegnamenti che gli aveva dato e anche dalle regole della propria fede cristiana (era nel frattempo passato all’eresia manichea). Per questi motivi, tornato a Tagaste lei, pur tra le lacrime, in un primo tempo non volle riaverlo in casa, finché confortata da un sogno, lo riammise presso di sé.

Agostino convertito: missione compiuta
Nel 375 Agostino si trasferì a Cartagine per insegnarvi eloquenza, mentre dopo l’incontro col vescovo manicheo Fausto, cominciava la sua crisi filosofica. Monica continuò sempre a invitarlo al ritorno alla vera fede, e non cesserà mai di pregare, tra le lacrime, per la conversione del figlio.
Questi invece, con uno stratagemma, riuscì a sfuggirle, imbarcandosi nottetempo per Roma (383), dove, dopo aver superato una lunga malattia, cominciò ad insegnare eloquenza e retorica. Finché ottenne un posto, tramite il prefetto di Roma Simmaco, a Milano.
Forse Agostino credeva che più andava verso nord, più la madre rimaneva… lontana. E si sbagliava di grosso. Monica non aveva ormai nessun interesse, nessuna preoccupazione, nessun obiettivo terreno che la sua conversione. E questo amore, anche se tra le lacrime, non si lasciava spaventare dalle distanze e dai disagi che comportavano i viaggi di allora. E così Monica, per amore del figlio prodigo, fuggito lontano, dopo aver viaggiato con il mare in tempesta, arrivò nell’anno 385 a Milano, accompagnata da Navigio, fratello di Agostino.
Qui la Mano Provvidenziale di Dio li aspettava entrambi con l’incontro con il vescovo della città, Ambrogio “un uomo di Dio”, e un “vescovo noto in tutto il mondo”. Tutti e due seguirono le sue omelie, tutte e due rimasero molto bene impressionati (anche se Agostino all’inizio badava più alla forma retorica che alla sostanza). Ambrogio predicava, Monica pregava (e faceva opere di carità), Agostino pensava, e passava di crisi in crisi e di filosofia in filosofia, dal manicheismo allo scetticismo, dai neo accademici e ai neoplatonici. La grazia di Dio intanto, per vie misteriose come sempre, lavorava su tutti.
La tanto sospirata conversione di Agostino arrivò alla fine del 386, e con il battesimo suo (e del figlio Adeodato) per mano del vescovo Ambrogio nella Pasqua del 387. Questo era il sigillo sul grande travaglio di Agostino nella sua ricerca della verità, e la fine delle tante preghiere e lacrime di Monica per lui. Missione compiuta. Non aveva altri obiettivi terreni. Il Paradiso, questa volta, non poteva più attendere.
Alcuni mesi dopo il battesimo infatti progettarono di tornare in patria. Arrivati ad Ostia tutti e due, madre e figlio convertito, ebbero la famosa estasi di cui si parla nelle Confessioni. Era un piccolo saggio (di Dio) e assaggio per loro di vita eterna, che cambiò la prospettiva di vita per entrambi. Così Agostino riferisce le ultime parole della madre: “C’era una cosa sola per la quale desideravo rimanere un poco su questa terra: vederti cristiano cattolico prima di morire. Dio me lo ha concesso abbondantemente, perché ti vedo divenuto suo servo che addirittura disprezza la felicità terrena. Che cosa dunque sto a fare qui?”. Infatti moriva poco dopo, sempre a Ostia, all’età di 56 anni, mentre Agostino ne aveva 33, e stava per cominciare la sua prodigiosa opera. Grazie alla perseveranza, alla pazienza, al coraggio, alle preghiere e alle “tante lacrime” di una grande donna e di una grande madre, Monica.
Nulla è lontano da Dio
Pochi giorni dopo l’estasi di Ostia (piccolo assaggio della Patria definitiva o Paradiso) Monica colpita dalla febbre, si mise a letto, e si preparò all’incontro con Dio, che lei desiderava con tutte le forze. Non aveva nessuna preoccupazione né di morire né di essere lontano dalla sua terra, dove aveva preparato con cura la propria tomba accanto al marito. Fece solo una raccomandazione ai presenti: si ricordassero di lei nell’Eucarestia. Alla domanda se non aveva paura di lasciare il proprio corpo in terra straniera, così lontana dalla propria patria, lei rispose: “Nulla è lontano da Dio, e non c’è da temere che alla fine del mondo egli non ritrovi il luogo da cui risuscitarmi” (Dalle Confessioni 9).
Monica e Agostino in estasi a Ostia
Pochi giorni prima che lei morisse… accadde, credo per misteriosa disposizione delle tue vie, che ci trovassimo lei ed io soli… C’era un grande silenzio… Parlavamo, fra noi, soavissimamente, dimentichi del passato e protesi verso l’avvenire. Ci domandavamo, davanti alla presenza della verità e cioè di te, o Signore, quale fosse mai quella vita eterna dei beati che “nessun occhio vide, nessun orecchio udì, che rimane inaccessibile alla mente umana”. Aprivamo avidamente il nostro cuore al fluire celeste della tua fonte, la fonte della vita, che è in te, per esserne un poco irrorati, per quanto era possibile alla nostra intelligenza, e poterci così formare un’idea di tanta sublimità.
Eravamo giunti alla conclusione che qualsiasi piacere dei sensi del corpo, anche nel maggior splendore fisico, non solo non deve essere paragonato alla felicità di quella vita, ma nemmeno nominato; ci rivolgemmo poi con maggior intensità d’affetto verso l’“Ente in sé”, ripercorrendo a poco a poco tutte le creature materiali fin su al cielo da cui il sole, la luna e le stelle mandano la loro luce sulla terra. E la nostra vista interiore si spinse più in alto, nella contemplazione, nell’esaltazione, nell’ammirazione delle tue opere; e arrivammo al pensiero umano, e passammo oltre, per raggiungere le regioni infinite della tua inesauribile fecondità, nelle quali nutri Israele con il cibo della verità, dove la vita è la sapienza che dà l’essere a tutte le cose presenti, passate e future: ed essa non ha successione, ma è come fu, come sarà, sempre. Anzi meglio, non esiste in lei un “fu”, un “sarà”, ma solo “è”, perché è eterna: il fu e il sarà non appartengono all’eternità. E mentre parlavamo e anelavamo ad essa la cogliemmo un poco con lo slancio del cuore e sospirando vi lasciammo unite le primizie dello spirito per ridiscendere al suono delle nostre labbra, dove la parola trova il suo inizio e la sua fine. Quale possibilità di confronto tra essa e il tuo Verbo, che permane in se stesso, e non invecchia e rinnova tutto? (Confessioni X).

Il corpo di Santa Monica fu tumulato nella chiesa di Sant’Aurea di Ostia.
Il 9 aprile 1430 le sue reliquie furono traslate a Roma nella chiesa di S. Trifone, oggi di S. Agostino, e poste in un pregiato sarcofago, opera di Isaia da Pisa (XV secolo).
Significato del nome Monica : “monaca, solitaria, eremita” (greco).

Fonti principali: Mario Scuddu, Anche Dio ha i suoi campioni, Editrice Elledici, Torino
Sant’Agostino, Le confessioni, IX e X

domenica 26 agosto 2012

s. monica

S. AGOSTINO E S. MONICA: L'ESTASI DI OSTIA


Nel viaggio di ritorno da Milano dopo il 387 Agostino e Monica soggiornarono a Ostia in attesa di potersi imbarcare per l'Africa. In questa città Monica trovò la morte, ma prima di morire Agostino ricorda un fatto curioso che li vide protagonisti: un'estasi platonica.

Pochi giorni prima che lei morisse... accadde, credo per misteriosa disposizione delle tue vie, che ci trovassimo lei ed io soli... C’era un grande silenzio... Parlavamo, fra noi, soavissimamente, dimentichi del passato e protesi verso l’avvenire. Ci domandavamo, davanti alla presenza della verità e cioè di te, o Signore, quale fosse mai quella vita eterna dei beati che “nessun occhio vide, nessun orecchio udì, che rimane inaccessibile alla mente umana”. Aprivamo avidamente il nostro cuore al fluire celeste della tua fonte, la fonte della vita, che è in te, per esserne un poco irrorati, per quanto era possibile alla nostra intelligenza, e poterci così formare un’idea di tanta sublimità.
Eravamo giunti alla conclusione che qualsiasi piacere dei sensi del corpo, anche nel maggior splendore fisico, non solo non deve essere paragonato alla felicità di quella vita, ma nemmeno nominato; ci rivolgemmo poi con maggior intensità d’affetto verso l’“Ente in sé”, ripercorrendo a poco a poco tutte le creature materiali fin su al cielo da cui il sole, la luna e le stelle mandano la loro luce sulla terra. E la nostra vista interiore si spinse più in alto, nella contemplazione, nell’esaltazione, nell’ammirazione delle tue opere; e arrivammo al pensiero umano, e passammo oltre, per raggiungere le regioni infinite della tua inesauribile fecondità, nelle quali nutri Israele con il cibo della verità, dove la vita è la sapienza che dà l’essere a tutte le cose presenti, passate e future: ed essa non ha successione, ma è come fu, come sarà, sempre. Anzi meglio, non esiste in lei un “fu”, un “sarà”, ma solo “è”, perché è eterna: il fu e il sarà non appartengono all’eternità. E mentre parlavamo e anelavamo ad essa la cogliemmo un poco con lo slancio del cuore e sospirando vi lasciammo unite le primizie dello spirito per ridiscendere al suono delle nostre labbra, dove la parola trova il suo inizio e la sua fine. Quale possibilità di confronto tra essa e il tuo Verbo, che permane in se stesso, e non invecchia e rinnova tutto? (Confessioni X).

Immagine:
Agostino e Monica in estasi, di A. Scheffer, Louvre, Parigi 
 
Tratto da:

Benedetto XVI: "La falsità è il marchio del diavolo".

Benedetto XVI: la falsità è il marchio del Diavolo e bisogna credere per conoscere



 
"Siate sempre sinceri con Gesù e con tutti", non seguite l'esempio di Giuda, la cui colpa più grande fu la falsità, "che è il marchio del diavolo". Seguendo l'itinerario tracciato dal Vangelo di oggi, Benedetto XVI ha commentato la reazione dei discepoli al discorso di Gesù nella sinagoga di Cafarnao. Ai fedeli radunati nel cortile della residenza estiva di Castel Gandolfo per la recita dell'angelus, il Papa ha precisato che tanti preferirono lasciare il Maestro, trovando incomprensibili le sue parole: "Io sono il pane vivo disceso dal cielo, chi mangia la mia carne e beve il mio sangue vivrà in eterno". Mancò, dunque, un atto di fiducia e di abbandono verso il Figlio di Dio, che di lì a poco avrebbe ...

Papa

La vera libertà

La libertà che noi ci aspettiamo con ragione dalla Chiesa e nella Chiesa non si realizza per il fatto che noi introduciamo in essa il principio della maggioranza… Essa dipende invece dal fatto che nessuno può imporre il proprio volere sugli altri, bensì tutti si riconoscono legati alla parola e alla volontà dell’Unico, che è il nostro Signore e la nostra libertà. (Joseph card. Ratzinger, al Meeting di CL del 1990)

venerdì 24 agosto 2012

anno della fede

9 domande sull’Anno della Fede

Il prossimo 11 ottobre avrà inizio l’Anno della Fede indetto da Benedetto XVI. Di che si tratta? Che cosa desidera il Santo Padre? Che cosa possiamo fare noi? Ecco, a due mesi dall’inizio, le risposte a queste domande.

1. Che cos’è l’Anno della Fede?

L’Anno della Fede “è un invito a un’autentica e rinnovata conversione al Signore, unico Salvatore del mondo” (Porta Fidei, 6).

2. Quando inizia e quando finisce?

Inizia l’11 ottobre 2012 e finirà il 24 novembre 2013.

3. Perché sono state scelte queste date?

L’11 ottobre 2012 ricorrono due anniversari: il 50° anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II e il 20° anniversario della promulgazione del Catechismo della Chiesa Cattolica. Il giorno della chiusura, il 24 novembre 2013, è la solennità di Cristo Re.

4. Perché il Papa ha indetto un Anno della Fede?

“Mentre nel passato era possibile riconoscere un tessuto culturale unitario, ampiamente accolto nel suo richiamo ai contenuti della fede e ai valori da essa ispirati, oggi non sembra più essere così in grandi settori della società, a motivo di una profonda crisi di fede che ha toccato molte persone”. Per questo il Papa invita “a un’autentica e rinnovata conversione al Signore, unico Salvatore del mondo”. L’obiettivo principale di questo anno è che ogni cristiano possa riscoprire il cammino della fede per mettere in luce con sempre maggiore evidenza la gioia e il rinnovato entusiasmo dell’incontro con Cristo”.

5. Quali mezzi ha indicato il Santo Padre?

Come ha esposto nel Motu Proprio “Porta Fidei”: intensificare la celebrazione della fede nella liturgia, e in particolare nell’Eucaristia; dare testimonianza della propria fede; riscoprire i contenuti della propria fede, esposti principalmente nel Catechismo.

6. Dove avrà luogo?

Come ha detto Benedetto XVI, la portata sarà universale. “Avremo l’opportunità di confessare la fede nel Signore Risorto nelle nostre cattedrali e nelle chiese di tutto il mondo; nelle nostre case e presso le nostre famiglie, perché ognuno senta forte l’esigenza di conoscere meglio e di trasmettere alle generazioni future la fede di sempre. Le comunità religiose come quelle
parrocchiali, e tutte le realtà ecclesiali antiche e nuove, troveranno il modo, in questo Anno, per rendere pubblica professione del Credo”.

7. Dove trovare indicazioni più precise?

In una nota pubblicata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede. Vi si propone, per esempio:

- Incoraggiare i pellegrinaggi dei fedeli alla Sede di Pietro.

- Organizzare pellegrinaggi, celebrazioni e incontri presso i principali Santuari.

- Organizzare simposi, convegni e raduni che favoriscano la conoscenza dei contenuti della dottrina della Chiesa Cattolica e tengano aperto il dialogo tra fede e ragione.

- Leggere e rileggere i principali documenti del Concilio Vaticano II.

- Accogliere con maggiore attenzione le omelie, le catechesi, i discorsi e gli altri interventi del Santo Padre.

- Produrre trasmissioni televisive o radiofoniche, filmati e pubblicazioni, anche a livello popolare, accessibili a un ampio pubblico, sul tema della fede.

- Far conoscere i santi di ogni territorio, autentici testimoni della fede.

- Stimolare l’apprezzamento del patrimonio artistico religioso.

- Preparare e divulgare sussidi dal carattere apologetico per aiutare i fedeli a rispondere meglio ai loro interrogativi.

- Organizzare momenti di catechesi destinati ai giovani affinché scoprano la bellezza della fede.

- Accostarsi con maggior fede e frequenza al sacramento della Penitenza.

- Usare nelle scuole il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica.

- Organizzare gruppi di lettura del Catechismo e intensificarne la diffusione e la vendita.

8. Quali documenti posso leggere ora?

Il Motu Proprio di Benedetto XVI “Porta Fidei”;

La nota con le indicazioni pastorali per l’Anno della Fede;

Il Catechismo della Chiesa Cattolica;

I 40 “riassunti sulla fede cristiana”.

9. Dove possono trovare altre informazioni?

Visita il website www.annusfidei.va

La Pietà - Michelangelo Buonarroti

MESSA

Il Messaggero di S. Antonio per la diffusione della Messa in rito antico


Ho appreso questa notizia oggi, consultando Le Forum Catholique. Mi sono cercata una fonte italiana ed ho trovato l'articolo di Cantuale Antonianum già del giugno scorso, che pubblico di seguito, non senza sottolineare la confusione nonché l'impropria equivalenza del termine "messa in latino", che sta ad indicare le "due forme" del Rito Romano: quella usus antiquior e quella novus ordo: anch'essa in latino nell'originale. L'equivalenza è evidentemente impropria perché è ovvio che le due forme, pur se hanno in comune la lingua latina, sono diversificate da anni-luce di differenze.

Una novità editoriale, un "unicum" nel suo genere, è il sussidio da poco uscito per i tipi delle Edizioni Messaggero Padova - passato quasi inosservato anche nei blog specializzati -. Si tratta del libretto dal titolo Eucharisticum Mysterium, che contiene (per la prima volta insieme), uno vicino all'altro, l'ordo missae del 1970 e del 1962, ovvero il testo (in latino con italiano a fronte) della Messa di Paolo VI e della Messa del Beato Giovanni XXIII, con tutte le rubriche tradotte e belle introduzioni.

Il tutto ha compilatori di assoluto primo piano: il prof. Manlio Sodi, direttore di Rivista Liturgica (edita anche questa dal Messaggero di Padova) e per anni preside della Facoltà di Teologia dei Salesiani di Roma, curatore dei Monumenta Liturgica Concilii Tridentini, uno dei massimi esperti dei testi della liturgia romana lungo la storia. Le traduzioni e revisioni sono affidate nientemeno che al Pontificium Institutum Altioris Latinitatis, la scuola per latinisti alle dirette dipendenze del Papa.

Infine, la presentazione dell'opera è affidata addirittura a Mons. Guido Marini, Maestro delle celebrazioni liturgiche pontificie.

osa viene a dire una pubblicazione di questo genere, a cui collaborano tanti esperti, e che viene diffusa da una delle case editrici cattoliche più popolari? Il significato è abbastanza ovvio: bisogna superare steccati e barriere ideologiche contro il latino nella Messa. Sia la messa "nuova" che la messa "antica" sono da conoscere nella loro lingua originale, e - con l'aiuto di sussidi come questo - si possono anche celebrare. Non in concorrenza, ma nello spirito di mutua valorizzazione, accettazione e complementarietà che esse esprimono, mettendo in luce, in modi diversi ma non avversi, le ricchezze della Parola di Dio e dei tesori dell'eucologia della Chiesa Romana.
Esortandovi a sostenere queste interessanti e lodevoli iniziative editoriali, diffondendole e facendole conoscere, vi posto come bonus le parole prefatorie di Mons. Marini.
Il 2010 è stato l’anno di due importanti anniversari: il 40° della promulgazione del Messale di Paolo VI (1970) e 1440° di quella del Messale di san Pio V(1570). Come è noto, con il «motu proprio» Summorum Pontificum del 7 luglio 2007, Benedetto XVI ha stabilito che nel Rito Romano sussistono, a particolari condizioni, due modalità celebrative dell’Eucaristia: la «forma ordinaria» (Paolo VI) e la «forma straordinaria» (san Pio V, nell’edizione del suo Messale promulgata nel 1962 dal beato Giovanni XXIII).

Il 2012 è l’anno di due grandi eventi ecclesiali: il Sinodo dei Vescovi, sul tema «La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana», e l’inizio dell’Anno della fede, indetto da Benedetto XVI nel cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II e a vent’anni dalla pubblicazione del Catechismo della Chiesa Cattolica.

È dunque con gratitudine che, in questo contesto della vita della Chiesa, il presente volume è da accogliere. Non è compito di questa presentazione entrare nel dettaglio di quanto vi si afferma in generale e per questioni più particolari. Vi si troverà, comunque, uno strumento molto utile perché ogni «Anno della fede» - l’anno liturgico - possa essere «un’occasione propizia anche per intensificare la celebrazione della fede nella liturgia, e in particolare nell’Eucaristia» («motu proprio» Porta fidei, n. 9).

Leggere con attenzione il sussidio potrà significare per molti una riscoperta o un approfondimento della bellezza della Celebrazione eucaristica nel suo svilupparsi armonico attraverso la storia. Infatti, come afferma Benedetto XVI in Sacramentum caritatis: «Guardando alla storia bimillenaria della Chiesa di Dio, guidata dalla sapiente azione dello Spirito Santo, ammiriamo, pieni di gratitudine, lo sviluppo, ordinato nel tempo, delle forme rituali in cui facciamo memoria dell’evento della nostra salvezza. Dalle molteplici forme dei primi secoli, che ancora splendono nei riti delle antiche Chiese d’Oriente, fino alla diffusione del rito romano; dalle chiare indicazioni del Concilio di Trento e del Messale di san Pio V fino al rinnovamento liturgico voluto dal Concilio Vaticano II: in ogni tappa della storia della Chiesa la Celebrazione eucaristica, quale fonte e culmine della sua vita e missione, risplende nel rito liturgico in tutta la sua multiforme ricchezza» (n. 3).

Allo stesso tempo, questa pubblicazione sarà di aiuto a procedere nella direzione tanto auspicata di una cordiale accoglienza della liturgia della Chiesa, nel suo Rito ordinario, da promuovere con rinnovata fedeltà al Concilio Vaticano II, e nel suo Rito straordinario, che tanti tesori ha ancora oggi da donare a tutti noi. «Non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del Missale Romanum — afferma Benedetto XVI nella lettera inviata ai Vescovi di tutto il mondo per presentare il citato «motu proprio» —. Nella storia della Liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso. Fa bene a tutti conservare le ricchezze che sono cresciute nella fede e nella preghiera della Chiesa, e dare loro il giusto posto» (7 luglio 2007).

Oggi più che mai la liturgia della Chiesa ha bisogno di essere avvicinata, approfondita e vissuta in cordiale sintonia con le indicazioni del magistero pontificio e in un clima di serenità e saggezza.

La presente pubblicazione, curata dal Pontificium Institutum Altioris Latinitatis, va in questa direzione. È auspicabile che essa continui a essere percorsa e condivisa da molti, da tutti.

Mons. Guido Marini
Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie
Città del Vaticano, 19 marzo 2012 Solennità di san Giuseppe
...Passo passo verso la riconciliazione liturgica e l'uso delle due forme dell'unico rito romano ....
_______________________________
Testo preso da: Il Messaggero di Sant'Antonio per la diffusione delle Messe in Latino
http://chiesaepostconcilio.blogspot.it/2012/08/il-messaggero-di-san-antonio-per-la.html

giovedì 23 agosto 2012

ideologia postconciliare

Card. Giacomo Biffi,
LAMENTAZIONE SUI TEMPI PRESENTI.



L'ideologia postconciliare
Essa deriva sì storicamente dal Vaticano II e dal suo magistero, ma attraverso un processo di "distillazione fraudolenta" immediatamente posto in atto all'indomani dell'assise ecumenica.
L'operazione potrebbe schematicamente essere descritta così:la prima fase sta nella lettura discriminatoria dei passi conciliari, che distingue tra quelli accolti e citabili, e quelli da passare sotto silenzio;nella seconda fase si riconosce come vero insegnamento del concilio non quello effettivamente formulato, ma quello che la santa assemblea ci avrebbe dato se non fosse stata afflitta dalla presenza di molti padri retrogradi e insensibili al soffio dello Spirito;con la terza fase si arriva a dire che la vera dottrina del concilio non è quella di fatto canonicamente approvata ma quella che avrebbe dovuto essere approvata se i padri fossero stati più illuminati, più coraggiosi, più coerenti.
Con un metodo esegetico siffatto - non enunciato mai in modo esplicito, ma non per questo meno implacabilmente applicato - è facile immaginare i risultati.
I quali, per quanto remoti siano dalla verità cattolica, vengono sempre messi in conto al Vaticano II; e chi si azzarda anche timidamente a dissentire è segnato col marchio infamante di "preconciliare", quando non è addirittura classificato coi tradizionalisti ribelli o con gli esecrati integralisti.
E poiché tra i "distillati di frodo" dal Vaticano II c'è anche il principio che nessun errore può essere condannato nella Chiesa a meno di peccare contro il dovere della comprensione e del dialogo, nessuno osa più denunciare con vigore e con tenacia i veleni che stanno progressivamente intossicando il popolo di Dio.
Concilio e "postconcilio"
Credo che il lavoro preliminare da compiere sia di distinguere accuratamente il concilio dal "postconcilio", in modo che si possa accogliere il primo con totale cordialità e valutare il secondo alla luce del primo e di tutto l'insegnamento rivelato con animo libero da qualunque intimidazione e da qualunque ricatto culturale.
Questa distinzione non deve turbare un cuore credente. Chi alla luce della fede riflette sulla storia della salvezza, sa benissimo che nella nostra vicenda come non c'è evento nefasto dal quale Dio non ricavi qualche bene per i suoi figli, così non c'è divino capolavoro che il demonio non tenti di tramutare per qualche aspetto in occasione di malessere e di rovina. Il che vale anche per il Vaticano II, opera senza dubbio provvidenziale e supernamente ispirata.
Gli "idoli" postconciliari
Propiziati dal "postconcilio", nella coscienza della cristianità contemporanea si celano, come nella sella del cammello di Rachele (Gn 31,19.34), molti svariati idoletti. Non tentiamo di ricordarli tutti ovviamente; ci limitiamo a segnalare quelli che più vistosamente influenzano tanto la ricerca teoretica quanto l'attività pastorale.
1. La "antropolatria"
Nei primi decenni del secolo XIX Feuerbach affermava che "il segreto della teologia è l'antropologia" e vagheggiava l'avvento di una teologia di nuovo genere, contrassegnata dal fatto "che essa pone nell'al di qua l'essere divino che la teologia comune, per paura e incomprensione, pone nell'al di là".
Viene da pensare che il pensatore tedesco, sia pure anonimamente, abbia fatto scuola presso molti cattolici della seconda metà del secolo XX e che la sua aberrante intuizione, probabilmente veicolata dalla grande ubriacatura marxista, dopo tanto tempo sia stata tacitamente ricevuta.
L'uomo sembra divenuto l'unico oggetto dei nostri pensieri, dei nostri interessi, della nostra adorazione. E, nel desiderio di coglierlo in se stesso, nella sua autonoma e singolare natura, si è addirittura proposto da qualcuno che anche il credente debba guardare l'uomo "ut si Deus non daretur", come se Dio non ci fosse, prescindendo cioè dal suo Creatore e valutando soltanto l'umanità come tale, presa a sé e separata da qualunque dipendenza e da qualunque superiore significazione.
Sennonché l'uomo è intrinsecamente e non per un sopraggiunto rivestimento "immagine di Dio" e totale relazione a lui; e dunque escludere Dio sia pur metodologicamente dalla prospettiva sull'uomo vuol dire snaturare l'uomo e non coglierlo nella sua verità.
Se con l'espressione "autonomia delle realtà temporali" si intende che le cose create non dipendono da Dio, che l'uomo può adoperarle senza riferirle al Creatore, allora tutti quelli che credono in Dio avvertono quanto false siano tali opinioni. La creatura, infatti, senza il Creatore svanisce. Del resto tutti coloro che credono, a qualunque religione appartengano, hanno sempre inteso la voce e la manifestazione di lui nel linguaggio delle creature. Anzi, l'oblio di Dio priva di luce la creatura stessa (Gaudium, et spes, 36).
Si arriva così anzi a una contraddizione esistenziale. Noi siamo "adoratori costituzionali": privati ideologicamente del vero Dio, rivolgiamo necessariamente altrove i nostri insopprimibili impulsi latreutici e ci poniamo ad adorare le creature, prima di ogni altra l'uomo. D'altra parte, l'uomo avulso dal suo Archetipo e dalla sua Sorgente è così fragile, debole, manipolabile, che, nell'atto stesso in cui crediamo di adorarlo, poniamo le premesse della sua profanazione.
E' facile rilevare come lo smarrimento del Padre abbia di solito fatalmente condotto sia al culto indebito della personalità e alla venerazione del tiranno sia alla schiavizzazione dei fratelli.
Naturalmente questa "antropolatria" non ha niente a che vedere con l'"antropocentrismo" di chi riconosce nell'uomo "il culmine dell'universo e la suprema bellezza del creato", colui che detiene "la sovranità su tutti gli esseri viventi", come dice sant'Ambrogio.
L'antropocentrismo è prerogativa essenziale del disegno divino, in quest'ordine di cose liberamente eletto tra gli infiniti possibili, dal momento che il Padre ha collocato Cristo Gesù, uomo divinamente personalizzato, al centro di tutto e in lui ha chiamato tutti gli uomini a sé, facendoli partecipare, mediante l'inabitazione dello Spirito Santo, prima alla sua natura e poi alla sua stessa gloria. Come si vede, il vero antropocentrismo include nel suo stesso contenuto concettuale il rapporto privilegiato col Padre, col Figlio e con lo Spirito Santo, e non lascia spazio ad alcuna forma di antropolatria.
Antropolatria e antropocentrismo, anche se all'esterno possono presentare qualche somiglianza, nella realtà sono dunque diversi e incompatibili.
L'antropolatria è propria di chi ha "cambiato la gloria dell'incorruttibile Dio con l'immagine e la figura dell'uomo corruttibile" (Rm 1,23); ed è l'approdo obbligato di chi, perdendo di vista l'Autore dell'essere e della vita, ha in sostanza una visione atea del mondo. L'antropocentrismo è proprio di chi onora l'uomo per quello che l'uomo è; esso non insidia affatto il culto del vero Dio, costituisce la predella da cui ci si può lanciare al riconoscimento del Padre.
La cultura antropolatrica dà regolarmente origine a società disumane, nelle quali l'uomo - teoricamente adorato - è di fatto avvilito, reso servo, privato di ogni scopo plausibile dell'esistere. La cultura antropocentrica è un appello intrinseco al Padre e al suo disegno d'amore, senza di che l'uomo non solo non può essere visto come il centro di tutte le cose, ma appare piuttosto un frammento trascurabile di materia alla deriva sul mare dell'insignificanza.
L'esteriore somiglianza può talvolta indurre in equivoci; ma non - c'è dialogo o convivenza possibile tra antropolatria e antropocentrismo, a meno che l'una o l'altra comincino a non essere più nei fatti quello che il loro nome significa in sé.
In realtà la questione della riscoperta del Padre è preliminare a ogni serio discorso su un umanesimo non illusorio.
Una delle citazioni più frequentemente ripetute in questi anni è la splendente frase di Ireneo: "La gloria di Dio è l'uomo vivente". Se ne coglierebbe meglio la verità, si eviterebbe il pericolo di travisamenti ideologicamente strumentalizzati, si dimostrerebbe maggior rispetto verso il pensiero dell'antico scrittore, se ci si abituasse a riferirla nella sua integrità: "La gloria di Dio é l'uomo vivente; ma la vita dell'uomo sta nella contemplazione di Dio".
2. La "cronolatria"
Il secondo idolo è stato indicato da J. Maritain, quando ha parlato di "cronolatria" o "adorazione dell'attualità". La lucidità della denuncia del pensatore francese non ha però impedito che questo "culto" si estendesse e si affermasse sempre più nella cristianità, al punto da essere ormai un'abitudine mentale acquisita che neppure sente più il bisogno di giustificarsi.
Senza affermarsi mai espressamente, essa trapela in modo spesso involontario e quindi tanto più significativo dal linguaggio d'uso corrente, nel quale l'aggettivazione del biasimo teorico non è: falso, errato, illogico, cattivo, aberrante; ma piuttosto: superato, sorpassato, attardato, vecchio. Non conta tanto la verità quanto la formulazione recente. Le idee, come le uova, devono essere "di giornata".
Talvolta si sente perfino squalificare un teologo o un vescovo con la frase: "è fermo al concilio di Trento"; dove è mirabile il fatto che la condanna sia espressa con l'indicazione non di ciò che, una volta dimostrato, potrebbe costituire una giusta critica (e cioè, ad esempio, la non consonanza con l'insegnamento del Vaticano II), ma di ciò che dovrebbe se mai rappresentare un titolo di merito (e cioè la fedeltà alla dottrina di un magistero solenne che, per quanto antico, resta tuttora autorevole). E con questa disinvoltura "cronolatrica" ci si dispensa dall'addurre le prove di una eventuale infedeltà al magistero più recente.
Allo stesso modo, veniamo spesso esortati a pregare per gli "uomini del nostro tempo", come se qualcuno fosse mai tentato di ricordare nelle sue orazioni gli assiro-babilonesi; o a vivere nel "mondo di oggi", contro il pericolo di sconfinare inavvertitamente nell'epoca carolingia; o a impegnarci a "essere moderni", che è un po' come se una mucca si impegnasse ad avere la coda.
Non ci si meraviglia allora di notare che il tema della "vita eterna" si faccia sempre più raro nei discorsi ecclesiastici, dove invece hanno sempre più larga parte le questioni del "tempo presente". Queste è giusto e doveroso affrontare senza evasioni alienanti, ma non "invece di quella", bensì "alla luce di quella": solo con la coscienza sempre pungente della "vita eterna" e della sua impareggiabile rilevanza è possibile "redimere il tempo presente", ridonandogli senso e spessore.
Naturalmente non c'è niente di male nell'uso di queste locuzioni, le quali possono anche avere la buona finalità di richiamare il cristiano da un atteggiamento "astratto" e troppo remoto dalle condizioni esistenziali. Ma, considerate come un "vezzo linguistico", sono la spia di un atteggiamento spirituale indebitamente ossessionato dal culto dell'attualità.
Si ha talvolta l'impressione che i credenti si ritengano piuttosto mobilitati a riscattare il tempo presente, non dalla vanità e dalla malizia dei "giorni cattivi" (cfr. Ef 5,16), ma proprio dalla incombenza oppressiva dell'eterno, il quale - se è troppo insistentemente rammemorato - si teme non lasci spazio all'inserimento nel quotidiano.
Il caso è preoccupante: quando si scambia il fondamento della libertà con la ragione della tirannia, la medicina con la malattia, la fonte dell'energia con la causa della paralisi, le speranze di sopravvivere sono poche.
Di solito, poi, prevaricare nei confronti della fede porta anche ad attentare alla ragione. E in effetti la "cronolatria", rovesciando la prospettiva cristiana, guasta altresì i meccanismi del raziocinio.
"Lo spirito che si inquieta per la verità e arriva a cogliere la verità, trascende il tempo". Perciò "sottoporre le cose dello spirito alla legge dell'effimero, che è quella della materia e del puro fatto biologico", vuol dire soffocare la vita stessa dell'anima.
Quando resta se stessa e non viene traviata, "la ragione non si preoccupa di essere inserita o di accettare la storia, né allo stesso modo si interessa e si dà pena di essere contemporanea, ma solo di essere 'ragione', perciò di essere vera".
3. La "cosmolatria"
Di tutte le idolatrie che ci affliggono, l'adorazione del mondo è senza dubbio la più clamorosa. Oggi uno può impunemente parlare male della Sposa di Cristo senza avere il minimo fastidio ecclesiale; ma se azzarda a scrivere due righe contro il "mondo", deve aspettarsi almeno qualche tiratina di orecchie anche da parte dei recensori più benevoli e pii.
Questa "cosmolatria" fa tanto più spicco in quanto stride con tutta la consuetudine linguistica dell'ascetica tradizionale: la "fuga dal mondo", la "rinuncia al mondo", il "disprezzo del mondo" dai primordi del cristianesimo fino a pochi anni fa sono, stati temi classici della riflessione e della predicazione; ebbene, di essi nelle comunità cristiane di oggi non si trova più traccia. Al loro posto si propone l' "inserimento nel mondo" e perfino il "servizio del mondo".
A esaminare con attenzione alcuni testi ecclesiastici recenti (per esempio, alcuni formulari suggeriti da qualche parte per le preghiere dei fedeli) si ha l'impressione che i due vocaboli "mondo" e "Chiesa" rispetto all'uso di prima si siano semplicemente scambiati di senso. Si implora sempre infatti che la Chiesa capisca, riconosca, si converta, abbandoni il suo egoismo e la sua volontà di potenza ecc.; e per contro si prega perché il mondo venga riconosciuto e appagato nelle sue aspirazioni, aiutato nelle sue necessità, esaltato nei suoi valori. Ad ascoltare certe celebrazioni del mondo viene da domandarci perché mai a Gesù Cristo sia venuto in mente di fondare la Chiesa, peggiorando notevolmente le cose.
Almeno sul piano terminologico è innegabile la rottura con tutta la tradizione precedente. Ma è davvero soltanto una questione di vocabolario?
All'origine di questo mutamento c'è la "Gaudium et spes"; ma si tratta della "Gaudium et spes" passata al filtro della ideologia postconciliare e, così mortificata, acriticamente accolta da molti strati della cristianità.
Affrontando il tema dei rapporti tra Chiesa e mondo contemporaneo, il Vaticano II ha compiuto un'opera preziosa di chiarificazione e di illuminazione.
Mettendosi nella prospettiva della Genesi e della Somma teologica, vale a dire considerando la natura umana e il mondo in ciò che li costituisce in se stessi, la Costituzione pastorale afferma senza esitazioni la loro bontà radicale e l'invito al progresso che, per quanto ostacolato dall'ambiguità della materia e dalle ferite del peccato, è iscritto nella loro essenza. E mostra, non solo in maniera generale ma con analisi molto accurata e con tutta la generosità che deriva dalla divina carità, come la Chiesa, restando perfettamente nel campo della sua missione esclusivamente spirituale e nell'ambito delle "cose di Dio", possa e voglia aiutare il mondo e la specie umana nel loro sforzo di avanzare verso i loro fini temporali.
A dire il vero si trova qui nuovamente affermata la dottrina perenne della Chiesa - ma con connotazioni nuove ed eccezionalmente importanti, dal momento che è riaffermata sotto il segno della libertà - non più per rivendicare il diritto della Chiesa di intervenire ratione peccati nelle cose del mondo al fine di combattere il male (a questo, credo, sarà sempre obbligata, sotto una forma o l'altra), ma per dichiarare il suo diritto, e la sua volontà, di animare, stimolare, assistere dall'alto, ratione boni perficiendi, se posso dire, e senza attentare all'autonomia del temporale, gli sviluppi del mondo verso il raggiungimento di un bene più grande.
Ma l'ideologia postconciliare, oltrepassando indebitamente questa prospettiva, ha letto il documento come se esso avesse voluto offrire - a proposito delle relazioni tra il "mondo", di cui si parla ripetutamente negli scritti apostolici, e la Chiesa - un insegnamento in netto contrasto con quello delle pagine di san Giovanni e di san Giacomo.
Il prevalere di questa ideologia ci spiega come mai in questo tempo di esasperato biblismo ci siano molte frasi del Nuovo Testamento che non si ascoltano mai: è una sorta di censura tacita ma severissima, esercitata sul Libro di Dio.
Proprio perché la parola di Dio non sia incatenata (cfr. 2 Tm 2,9), ne trascriviamo un po' per comodità del lettore."Il mondo non può odiare voi, ma odia me, perché di lui io attesto che le sue opere sono cattive" (Gv 7,7)."Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori" (Gv12,31)."Lo Spirito di verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce" (Gv 14,27)."Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelto dal mondo, per questo il mondo vi odia" (Gv 15,18-19)."Quando sarà venuto, egli convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia, al giudizio" (Gv 16,8)."Voi piangerete e vi rattristerete, ma il mondo si rallegrerà" (Gv 16,20)."Abbiate fiducia; io ho vinto il mondo!" (Gv 17,9)."Io ho dato loro la mia parola e il mondo li ha odiati perché essi non sono del mondo, come io non sono del mondo" (Gv 17,14)."Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto" (Gv 17,25)."Non amate né il mondo, né le cose del mondo! Se uno ama il mondo, l'amore del Padre non è in lui" (1 Gv 2,15)."Il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno!" (1 Gv 2,17)."La ragione per cui il mondo non ci conosce è perché non ha conosciuto lui" (1 Gv 3,1)."Non meravigliatevi, fratelli, se il mondo vi odia" (1 Gv 3,13)."Tutto ciò che è nato da Dio vince il mondo; e questa é la vittoria che ha sconfitto il mondo: la nostra fede. E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio?" (1 Gv 5,4-5)."Noi sappiamo che siamo da Dio, mentre tutto il mondo giace sotto il potere del maligno" (1 Gv 5,19)."Una religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro Padre è questa: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni e conservarsi puri da questo mondo" (Gc 1,27)."Gente infedele! Non sapete che amare il mondo è odiare Dio? Chi dunque vuol essere amico del mondo si rende nemico di Dio!" (Gc 4,4)."Il mondo con tutta la sua sapienza non ha conosciuto Dio" (1 Cor 1,21)."Noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio" (1 Cor 2,12)."La sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio" (1 Cor 3,19)."La tristezza del mondo produce la morte" (2 Cor 7,10)."Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo" (Gal 6,14).
Sappiamo benissimo che, accanto a queste frasi, ci sono nel Nuovo Testamento altre espressioni nelle quali la parola "mondo" indica la creazione di Dio che è buona, e l'umanità che è in attesa della salvezza ed è amata da Dio. Non potremmo non saperlo, perché sono passi che giustamente ci vengono sempre ricordati da tutte le parti; sicché un problema del loro recupero oggi, dopo la Gaudium et spes, fortunatamente non si pone. Si pone invece per quelle che abbiamo sopra elencate: dove è andata a finire tutta questa tematica nella cristianità dei nostri tempi? Anche a supporre che si sia mutato soltanto il linguaggio, sotto quali locuzioni dei nostri giorni questa dottrina si cela?
Tutto sembra farci pensare che si tratti non del disuso di una terminologia, ma di un insegnamento esplicito della Rivelazione che non ha più posto nell'odierna riflessione teologica e pastorale. Così, privo delle naturali difese immunizzatrici, l'organismo ecclesiale resta pericolosamente esposto al contagio di quella "cosmolatria" che stiamo qui denunciando.
Occorre ripartire dal dato rivelato preso nella sua integrità, senza operarvi nessuna aprioristica selezione.
Una frase del vangelo di Giovanni ci ricorda da sola tutta la multiformità della parola di Dio a proposito di "mondo"."Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe" (Gv 1,10).In due righe il vocabolo compare tre volte e sempre con sfumature diverse."Era nel mondo": si riferisce al fatto della incarnazione e alla presenza del Verbo nella realtà creaturale. E' una indicazione che non implica alcuna valutazione. Nello stesso senso la parabola del seme dice: "il campo è il mondo" (Mt 13,38).
"Il mondo fu fatto per mezzo di lui": qui è implicitamente affermata l'originaria bontà del mondo, e quindi la presumibile disposizione di accoglienza verso il Figlio di Dio. Allo stesso modo è detto che "Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito" (Gv 3,16).
"Eppure il mondo non lo riconobbe": qui la parola "mondo" esprime il grande enigma della opposizione sistematica, permanente, ineliminabile, nella quale si è imbattuta e si imbatterà sempre l'iniziativa salvifica. E il discepolo di Gesù è ripetutamente ammonito di non perdere mai di vista e non sottovalutare questa tragica realtà.
Il mondo è dunque o un semplice spazio o una realtà nativamente buona ma da redimere o una forza malvagia che resiste alla redenzione e cerca di vanificarla. Nessuna di queste tre verità va trascurata
Ciò che non c'è nel Nuovo Testamento è l'idea che la Chiesa debba essere istruita, illuminata o addirittura salvata dal mondo. Neppure c'è l'idea che il mondo sia realtà così buona e santa da non aver bisogno della restaurazione di Cristo, attualizzata nella Chiesa.
Chi muove dalla pur giusta convinzione dell'intrinseco e inalienabile valore delle cose, create da Dio e da lui riconosciute come "buone" (cfr. Gn 1), e ritiene che qui si esaurisca quanto il cristiano ha da dire sul "mondo", rischia obiettivamente di non riconoscere la presenza attiva e continua del male, di banalizzare la redenzione e di rendere superflua la croce di Cristo. Molti atteggiamenti rilevabili nei cristiani di oggi nei confronti del "mondo" sarebbero plausibili in un ordine di cose di incontaminata innocenza; un ordine bello in sé e desiderabile, che però non esiste.
L'irenismo a ogni costo nei confronti di tutto e di tutti è forse una nostalgia per la pace del Paradiso terrestre (dove per altro non mancava il serpente); o, se si vuole, è un'abusiva pregustazione dello stato d'animo che ci rallegrerà nell'eterna Gerusalemme: rispetto al tempo di lotta che stiamo vivendo è una indebita anticipazione.
Il "servizio del mondo". Parrebbe anche utile una breve riflessione circa il "servizio del mondo", che ci viene indicato spesso come dovere della Chiesa e dei credenti.
L'affermazione è carica di ambiguità e, se non è chiarita, può alla lunga provocare una visione distorta dell'impegno cristiano. Gli equivoci possibili sono due: sul concetto di "mondo" e sul dovere del "servizio".
Per "mondo" qui si può intendere solo l'umanità che - dolorante, sviata, senza luce - è in attesa della salvezza. Non certo il "mondo" per il quale il Signore non ha pregato e che poi dalla parola di Dio siamo invitati a odiare; della cui oscura esistenza non dobbiamo mai dimenticarci.
E il "servizio" più urgente e necessario che può essere reso agli uomini decaduti e infelici è l'annuncio del Salvatore e del progetto d'amore che il Padre ha pensato per noi: questa é la vera "promozione umana", che poi diventa la molla propulsiva di ogni altro "progresso" nel benessere, nella pace sociale, nella giustizia terrena.
Va anche detto che l'unico a dover essere propriamente e direttamente servito da noi è il Figlio di Dio, Gesù Cristo. "Ci sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore" (1 Cor 12,5). Nessun altro può essere riconosciuto come padrone.
Vero è che l'unico nostro Signore si è fatto "servo" di tutti: e noi, se vogliamo veramente e concretamente servirlo, dobbiamo servirlo anche associandoci a lui in questo servizio degli altri e attendendo dunque alle necessità reali di tutti.
La delucidazione, che può sembrare sottile e puntigliosa, è invece essenziale: noi, servi di Cristo, diventiamo in lui servi degli uomini; ma non per questo siamo tenuti a dare agli uomini sempre ciò che a loro piace o che da noi essi si aspettano. Noi abbiamo il "foro".
Un secondo esempio significativo è dato dal fenomeno del monachesimo, che, chiudendosi nel microcosmo del monastero per inseguire l'ideale di una vita evangelica perfettamente coerente, di fatto ha contribuito in modo determinante al sorgere della nuova Europa. E' curioso notare nella storia ecclesiale che il programma spirituale e culturale della "fuga dal mondo" di solito riesce ad animare un'azione incisiva nella società e a riplasmarla effettivamente alla luce del Vangelo. Basti pensare all'incidenza nella realtà sociale e politica del suo tempo di sant'Ambrogio, che pure ha scritto un "De fuga saeculi" e teorizza continuamente nei suoi scritti l'urgenza della solitudine.
4. La "schizolatria"
La quarta "latria" nasce ed è alimentata da una "fobia". La paura ossessiva dell'integralismo - cioè dell'abitudine mentale a risolvere tutti i problemi umani di ogni ordine e grado deducendo immediatamente le soluzioni dai princìpi di fede - induce alcuni incauti al culto esasperato della divisione degli ambiti e alla esaltazione della totale impermeabilità tra un piano e l'altro dell'impegno umano.
Alcune annotazioni si impongono a questo proposito. L'inerzia mentale, lo schematismo linguistico, l'incapacità a seguire l'effettivo succedersi dei mutamenti culturali cospirano a tenere nascosto agli occhi di molti il fatto che un integralismo cattolico - che pur ha avuto una sua lunga e deleteria stagione - oggi non esiste più se non in frange trascurabili della cristianità. E' morto da un pezzo, anche se il suo fantasma è continuamente evocato da alcuni sprovveduti e da molti interessati. A lottare contro le ombre non c'è pericolo di farsi male, e perciò sono numerosi i prodi che si slanciano in queste battaglie.
Per contro esistono - graffianti, acritici, sicuri di sé - altri integralismi di vario colore: c'è un integralismo marxista, un integralismo radicale, un integralismo laicista, un integralismo liberale, perfino un integralismo mazziniano. Ogni "parrocchia" politica in Italia ritiene di avere una concezione totalizzante della realtà, in grado di portare luce su ogni questione, ivi comprese quelle che si riferiscono alla coscienza morale, ai contenuti dell'impegno religioso. alle forme di esercizio del, magistero ecclesiale. Tutte queste "parrocchie" si adoperano a tenere viva la fobia dell'integralismo cattolico; e il più delle volte viene contrassegnato con questa etichetta ogni desiderio di coerenza cristiana ed è condannata a questo titolo ogni determinazione di irradiare la fede nella cultura e nella vita. Né c'è da stupirsene; stupisce piuttosto che questo tipo di intolleranza trovi consensi in molti credenti anche sinceri.
Ma la schizolatria è soprattutto un attentato alla retta visione cristiana della realtà. Essa sembra dimenticare totalmente l'esistenza di un solo Signore, nel quale, per mezzo del quale, in vista del quale tutto esiste, sia nell'ordine della redenzione sia nell'ordine della creazione. Conseguentemente colpisce al cuore l'unità del piano divino e la stessa ultima intelligibilità di questo universo di fatto esistente.
Ci sia consentito riprodurre qui alcune pagine lucidissime di Inos Biffi, meritevoli di rilettura e di approfondita meditazione.
"Il primo punto di partenza non esatto è la suddivisione, anzi la distinzione tra piano creaturale/o di natura, e piano redentivo/o della grazia. Questa distinzione, che per qualcuno arriva persino alla separazione, non è teologicamente accettabile e proponibile. Essa viene a misconoscere il dato primo dell'attuale e concreto ordine di realtà: ed è il progetto originario, assoluto e totalizzante - su cui abbiamo già insistito - consistente nella predestinazione dell'uomo e dell'universo in Gesù Cristo risorto da morte. E', indubbio che Dio avrebbe potuto concepire un altro ordine di provvidenza; è indiscutibile che solo la fede - che fa uditori della Parola - trasmette integralmente questo disegno originario di fronte al quale tutti gli altri sono ipotetici: ma questo è in ogni modo un fatto, fuori del quale esiste solo, obiettivamente, la non esistenza o l'ipotesi.
Una teologia corretta non accetterà mai un ordine naturale e ad esso giustapposto un ordine soprannaturale concretamente esistenti e che si tratterebbe di tenere uniti. E di conseguenza: una specie di natura-ragione neutra, valida per tutti, non riferita a Gesù Cristo, di 'pura' entità 'creaturale' (ossia dipendente dalla pura creazione). Ne deriva che, se per mediazione si dovesse intendere l'atto di chi si sforza di mettere insieme tali due ordini inizialmente separati, essa è semplicemente scorretta e impossibile. Purtroppo ci è dato di constatare che un certo linguaggio e certe impostazioni concettuali traducono esattamente questa inconsistente dicotomia.
Manca un pensiero che traduca, oltre la cultura religiosa e storica, una dottrina teologica criticamente fondata. La verità è un'altra: nel disegno originario in Gesù Cristo è compresa la "ragione", la "filosofia", l'incontrovertibilità, dell'essere e vi è compresa non come sostituibile dalla fede, ma nella sua specificità. Per il fatto di essere creata in Gesù Cristo la ragione non smette di essere tale: l'accoglienza per fede del disegno divino in Cristo non la degenera e non la umilia. Per poter giustamente parlare di mediazioni bisogna uscire da questo equivoco. Il cristiano va anche più avanti: egli intende la grazia non solo non adulterante, ma di fatto sanante la ragione: la redenzione in certo modo rende la ragione a se stessa.
Un secondo punto di partenza non esatto sarebbe quello di porre da un lato il dato della fede, dall'altro il dato della storia, e quindi della temporalità, della politica, come se alla fede non appartenesse la storicità, la politicità, in una parola sola: l'antropologia filosofica. Ci sono dati di intelligibilità e di struttura antropologica
la cui mortificazione significherebbe la mortificazione dello stesso disegno originario. Il cristiano non prende a prestito dalla filosofia pagana-neutra la dimensione razionale dell'uomo: piuttosto, eventualmente, riconosce che al di fuori dell'orizzonte della fede consapevole esistono valori obiettivamente appartenenti al piano di salvezza, il quale non si separa e non si distingue affatto - in concreto! - dal piano "creaturale" come abbiamo ora detto.
Facendo storia, cultura, politica, ecc., il cristiano non fa altro che rilevare e determinare una dimensione del contenuto della sua fede, mettendo in atto la razionalità che è un reale ingrediente del disegno divino: un ingrediente che richiede riflessione, ricerca, confronto; che conclude a gradi più o meno di certezza, che lascia spazi di ipoteticità e margini di pluralismo. Se è vero in un certo senso che non c'è passaggio diretto dalla fede alla politica, è altrettanto vero che la politica mette in opera elementi che non sono discordi o àlteri rispetto al piano integrale originario. S'è parlato, con preciso fondamento, di 'umanesimo integrale'.
Occorrerebbe più compiutamente parlare di 'cristianesimo integrale'. Ancora: si è detto - e giustamente in una determinata prospettiva - che si deve distinguere per unire: nella nostra prospettiva va detto che si deve 'distinguere nell'unito'. Una mediazione che fosse configurata come lo sforzo o l'impegno di tenere insieme la salvezza e la storia, il vangelo e la politica, come se fossero costitutivamente separati, è una pura ideologia, in quanto immagina radicalmente fuori il secondo versante dall'ordine salvifico; oppure m quanto si rappresenta piuttosto miticamente la storia come entità a sé da 'battezzare'. L'originario costitutivo impone una filosofia, con le sue proprietà caratterizzanti: essa è un compito del credente - e ognuno, dotto o indotto, la pone, sia pure con diversa teorizzazione. E' vero che il cristianesimo non può fare a meno della filosofia, ma il motivo è perché l'uomo creato da Dio in Gesù Cristo è un essere 'filosofico', con quel che ne consegue".
5. La "bibliolatria"
Il culto della Sacra Scrittura, la riscoperta del suo valore vitale, gli studi di cui è fatta oggetto rappresentano certamente una preziosa conquista del nostro tempo. Possiamo anzi dire che ancora non è letta, meditata, amata abbastanza dai cattolici: è augurabile che si abbia a progredire su questa strada a passo più spedito e con animo più risoluto.
Pure c'è qualcosa che ci inquieta nel modo attuale di accostarci al Libro di Dio e ci spinge a formulare alcune osservazioni, che proponiamo candidamente trascurando il rischio non ipotetico di essere fraintesi e mal giudicati.
Noi non siamo il "popolo del Libro"; a rigore non siamo neppure il "popolo della Parola": siamo il "popolo dell'avvenimento". La Parola di Dio risuona all'interno dell'evento salvifico e, rendendolo non solo un fatto ma anche una illuminazione, non solo una "res" ma anche un "signum" eloquente, non solo un "mistero" ma anche un "evangelo", lo offre alla nostra contemplazione perché la contemplazione ci porti alla partecipazione intera della vita.
La "pagina sacra" è il mezzo privilegiato con cui possiamo arrivare alla "Parola" per nutrircene e vivere con intelligenza nell'evento. Non è dunque un assoluto, ma è ordinata all'avvenimento. L'avvenimento resterà nel Regno eterno, quando la Bibbia non avrà più sussistenza e valore.
Per circa un secolo la Chiesa non ha avuto un canone dei libri sacri cristiani, senza che per questo potesse dirsi manchevole di qualche elemento essenziale. Anche quando i vangeli non erano ancora stati scritti né erano state ancora raccolte le lettere degli apostoli, la Parola di Dio risuonava con tutta la sua forza nella Chiesa e la salvezza era presente e operante.
Chi si colloca integralmente all'interno dell'avvenimento, si pone nelle condizioni di leggere giustamente la Sacra Scrittura e di coglierne il senso ultimo. Chi non si colloca integralmente, o almeno non con sempre rinnovata coscienza, all'interno dell'avvenimento, per quanto numerose, erudite, scientificamente vagliate si facciano le sue citazioni è sempre in pericolo di rimanere all'esterno del Libro di Dio e di non gustare la sua saporosa sostanza.
A cominciare dal demonio, che nelle narrazioni sinottiche appare bravissimo nell'addurre i passi ispirati a sostegno delle sue argomentazioni, la storia delle aberrazioni teologiche è caratterizzata dall'abbondante ricorso da parte degli eretici ai testi scritturistici. E per la verità anche ai nostri giorni assistiamo talvolta ad "alluvioni" di frasi bibliche che nascondono una fondamentale infedeltà alla Parola di Dio.
Ma c'è una insidia più subdola e perniciosa: l'uso abbondante e quasi ossessivo della Bibbia - staccato però dalla consapevolezza sempre richiamata dell'avvenimento salvifico, il quale include anche la Sacra Scrittura e la trascende - può condurre a una visione meramente "culturale" del cristianesimo e rendere l'atto di fede non più un "assenso reale" ma un puro "assenso nozionale" mentre - come splendidamente dice san Tommaso, "actus credentis non terminatur ad enuntiabile sed ad rem": l'atto di fede non ha come suo ultimo approdo una serie di nozioni ma una realtà.
La distinzione tra "assenso nozionale" e "assenso reale" è uno dei concetti fondamentali della Grammatica dell'assenso, di J.H. Newman. In realtà, in campo teologico la questione è ancora più seria di quel che per il campo pastorale abbiamo qui cercato di dire. Il pericolo sta nell'insensibile ma sempre più vasto affermarsi della tendenza (crediamo non pienamente consapevole) a considerare la "res" - attinta nell'atto di fede, quando l'atto di fede c'è veramente - scientificamente inconoscibile come il "noumeno" kantiano, e quindi non più oggetto di attività teologica, la quale si esercita soltanto sul "fenomeno". Di qui la risoluzione della teologia nell'esegesi, e poi anche nella storiografia, nella metodologia, nello studio delle mediazioni con le filosofie contemporanee, nella psicologia religiosa, nella sociologia religiosa ecc.
Sventurato quel teologo o quell'esegeta che, pensando a Gesù Cristo, primariamente e come d'istinto si richiama a un personaggio della catechesi sinottica o a un tema della speculazione di Paolo, e non al Salvatore che si rispecchia sì nei Libri sacri ma soltanto in quanto antecedentemente a tutto esiste in sé, fuori e prima di ogni testimonianza, come qualcuno che vive.
Un uomo dal semplice cuore cattolico, alla domanda: "Dov'é Gesù?" risponde in modo del tutto ovvio e naturale: "In cielo alla destra del Padre e in chiesa nel tabernacolo", senza che gli passi lontanamente per la testa di tirare in campo la Sacra Scrittura. Questo, per lui, è l'indirizzo di una persona reale e concreta. Guai se l'interrogazione cominciasse ad avere come risposta: "Si trova nel vangelo di Luca, nel 'corpus' giovanneo, nella lettera agli Ebrei"; cominciasse cioè ad avere come risposta l'indicazione di un "luogo" letterario.
Nei modi aberranti che qui si sono descritti la Sacra Scrittura diventa non, come deve essere, una forma eccezionale di accostamento al mistero che trasforma e ci salva, ma un diaframma tra noi e il Signore Gesù. Così sarebbe un "idolo".
Da questo " idolo " deve essere purificato il santuario del nostro cuore e il "tempio" della comunità cristiana radunata in Cristo e offerta al Padre dall'impeto dello Spirito.
Alcuni segni di sanità teologica e pastorale
La rassegna delle più diffuse "idolatrie" non deve indurci a credere che tutto sia traviato nella cristianità e non ci siano più veri adoratori del Dio vivo. Bisogna anzi riconoscere che lo Spirito Santo è all'opera oggi più che mai e riesce coi suoi inattesi prodigi ad alleviare gli effetti nefasti di una insipienza ecclesiale che ha raggiunto ai nostri giorni vertici di eccezione.
E così le comunità cristiane, svigorite e disanimate da un'acutissima mondanizzazione, ricevono vitalità e conforto dall'incontro con persone, gruppi, movimenti che, con varie forme e colorazioni spirituali diverse, sinceramente si determinano a una generosa adesione all'Evangelo e a una totale partecipazione all'evento salvifico.
Il fenomeno, che complessivamente è stato una felice sorpresa dopo lo squallore di un secolarismo arido, chiassoso, senza futuro, è composito, agitato, confuso e solleva il problema di una giusta analisi e di una pacata valutazione.
Da quali segni possiamo riconoscere, nella concretezza di questo momento storico, la sanità teologica e pastorale delle forze che vanno via via affiorando nel mondo cristiano?
Dopo l'esperienza di questi decenni e dopo una lunga riflessione, ci parrebbe di poter suggerire, come contributo a un discernimento che non sia astratto e puramente nominale, l'attenzione a tre note caratteristiche. Non sono certo le sole che si richiedono né forse le più importanti in assoluto, ma sono quelle che più possono aiutare nell'ora presente.
La prima è il sentimento acuto della distinzione tra il bene e il male, la consapevolezza che tra il bene e il male è in atto una lotta irriducibile e la persuasione che in questo scontro - che è ancora in atto e lo sarà fino alla venuta del Signore - ciascuno di noi è chiamato a combattere nelle forme e secondo le possibilità che di fatto gli sono date
La seconda è la convinzione che Gesù di Nazaret, il Figlio di Dio crocifisso e risorto, è il Salvatore del mondo e non colui che deve essere salvato dal mondo. Egli è il vincitore, e noi dobbiamo essere la sua vittoria.
Perciò a lui - e quindi al cristianesimo - è necessario ricorrere perché l'uomo viva, cresca, emerga dalle sue contraddizioni e dalle sue schiavitù. Inversamente, non si arrivi mai a pensare che solo l'apporto di estranee culture possa consentire a Cristo di essere ancora vitale e al cristianesimo di essere ancora accettabile ai nostri tempi (1).
La terza è la percezione della bellezza della Chiesa e l'ammirato stupore per questo capolavoro dell'amore del Padre; o almeno la certezza di fede che la Chiesa è la realtà più bella, più santa, più nobile che l'infinita potenza di Dio di fatto ha ricavato dalla nostra terra polverosa e dalla nostra umanità disastrata.

NOTE
(1) La retorica circa il "dialogo" e il "confronto"- che sono attitudini lodevoli in se stesse, quando non diventano i nuovi nomi del cedimento e della mondanizzazione - ha innegabilmente contribuito a una "smobilitazione generale" dei cristiani, che ha pochi precedenti nella storia.
Anche l'uso acritico e indiscriminato di alcune frasi, che adoperate a proposito hanno una loro validità, ha contribuito al diffondersi dello spirito di resa o almeno alla confusione. Ne citiamo qualcuna, per non restare nel vago.
"Bisogna distinguere tra l'errore e l'errante". Principio giustissimo, ma da applicarsi con due avvertenze: che di fatto l'affermazione non si traduca nel non distinguere più tra l'errore e la verità; che ci si renda conto che, se la condanna dell'errore non deve restare un'inutile astrazione, il popolo cristiano va messo in guardia anche da colui che di fatto semina l'errore, naturalmente senza cessare di volere il suo vero bene e lasciando sempre a Dio il giudizio sulle intenzioni profonde delle persone.
"Bisogna guardare più a ciò che ci unisce che non a ciò che ci divide". Questo principio vale solo in proporzione alla vastità e all'importanza di ciò che ci unisce e all'esiguità di ciò che ci divide. Quando si ha la stessa fede nella Trinità, in Cristo, Figlio di Dio, crocifisso e risorto, nella vita eterna, è del tutto insipiente litigare su quando e come vada cantato l'alleluia. Ma quando la divisione verte sulle questioni sostanziali, il volerla accantonare e quasi dimenticare vuol dire snaturarsi nel profondo e perdere la propria identità; così l'ecumenismo diventa davvero, come amaramente è stato detto, una "comune apostasia".
"La Chiesa deve diventare credibile". Così come suona, il concetto è mal formulato e inaccettabile, perché fa delle esigenze e delle persuasioni degli uomini il metro per giudicare l'azione e la realtà dei cristiani, mentre l'unico metro resta il Signore Gesù e la sua verità. La Chiesa deve sforzarsi di essere sempre più credente; in tal modo diventerà sempre più credibile agli occhi dei non credenti ben disposti, che ricercano la verità, e sempre più incredibile agli occhi dei non credenti che non hanno nessuna voglia di credere.
 "Bisogna guardarsi dai profeti di sventura". Se la frase vuol dire di evitare coloro che tentano di uccidere le ragioni della speranza cristiana (tra le quali emergono l'esistenza di Cristo vivo e Signore, e l'inalienabile bellezza della Chiesa) allora è giusta e da approvare. Se vuol dire che bisogna sempre dire a tutti i costi e per tutte le circostanze che tutto va bene, allora è smentita dalla parola di Dio. Di solito i veri profeti sanno annunziare anche il dolore e sanno denunziare il male; gli annunziatori di facile allegria, di tranquillità senza lotta, di immancabile benessere, nella Bibbia sono i falsi profeti (cfr. Ger 14,13-16; 23,17; 27,9-10).
"Non bisogna essere manichei". Il manicheismo consiste nel credere all'esistenza di due princìpi assoluti, due dèi, uno del bene e uno del male; il manicheo non crede quindi al Dio buono, creatore di tutto, né alla sua vittoria finale. Questa è un'aberrazione da condannare. Definire manicheo invece chi vuol distinguere tra il vero e il falso, tra il buono e il cattivo, tra il giusto e l'ingiusto, tra ciò che è conforme alla volontà di Dio ed è perciò da seguire, e ciò che è difforme ed è perciò da respingere, è un modo truffaldino di combattere il cristianesimo dandogli prima una falsa e infamante etichetta.
GIACOMO BIFFI, La bella, la bestia e il cavaliere. Saggio di teologia inattuale, Milano, Jaca Book, 1984, pp. 20-41.