Preghiera "rara" per una messa senza consacrazione
IL TENTATO "GOLPE" NEL CULTO
Il gruppetto di liturgisti capitanati da p. Taft vorrebbe una
preghiera eucaristica senza consacrazione. Sarebbe una crepa nella
teologia cattolica sull’Eucaristia e sul Sacerdozio. E per ottenerla
sono pronti a forzare un caso particolare e di emergenza subìto dalla
Chiesa Caldea a seguito delle persecuzioni.
L’anafora di Addai e Mari è una preghiera eucaristica in uso nella
Chiesa assira d’Oriente (o Chiesa nestoriana), cioè una chiesa che ha le
sue origini in Mesopotamia e poi estesasi fino in India, non in
comunione con la Chiesa cattolica, né con il Patriarcato ortodosso di
Antiochia, per il fatto di non aver riconosciuto il Concilio di
Calcedonia. Nel 1966 William F. Macomber ne scoprì la più antica
versione nell’Hudra (libro liturgico) della chiesa Mar Esh’aya di Mosul.
La particolarità stava nel fatto che nel testo dell’anafora non
figuravano le parole della consacrazione.
Da allora è stato un legittimo brulichio di studi
per spiegare questa particolarità, ma in tempi più recenti, la posta in
gioco sembra essere cambiata. Era chiaro a molti che, se si fosse
riusciti a far passare l’equazione anafora senza parole di consacrazione
= anafora valida, si sarebbe creata una crepa nella teologia cattolica
sull’Eucaristia e sul Sacerdozio. L’occasione fu propiziata dalle guerre
e persecuzioni in Medio Oriente, che causarono molti spostamenti di
persone, in particolare dall’Iraq. Occorreva perciò affrontare una
questione pastorale nuova: potevano i cattolici caldei partecipare alle
Messe della Chiesa assira, che utilizzava l’anafora di Addai e Mari?
Il Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani
(PCUC) iniziò a premere insieme alla Congregazione per le Chiese
Orientali, allora presieduta dal card. Silvestrini, per ottenere il
riconoscimento della validità dell’anafora. La Congregazione per la
Dottrina della Fede (CDF) spedì almeno tre lettere, per chiedere che la
questione fosse studiata in modo più approfondito. Nel 2001 il PCUC ha
pubblicato degli Orientamenti, con annessa una disposizione
chiarificatrice, nei quali, tra le altre cose, si afferma il
riconoscimento della validità dell’anafora, ma si aggiunge anche che,
«quando dei fedeli caldei partecipano a una celebrazione assira della
Santa Eucaristia, il ministro assiro è caldamente incoraggiato a
introdurre nell'Anafora di Addai e Mari le parole dell'Istituzione».
Lo status magisteriale del documento del Pontificio Consiglio
Attenendosi ai fatti, il documento porta la firma del PCUC, ricevuto
il parere affermativo della CDF e del Sommo Pontefice. Ma esso non è
stato firmato né dal Prefetto della Congregazione, né dal Papa. Questo è
più che sufficiente per smorzare gli eccessivi entusiasmi di alcuni
liturgisti, come il gesuita p. Robert Taft, che salutò gli orientamenti
come il «documento magisteriale più importante dopo la promulgazione
dell’ultimo dogma cattolico, vale a dire dal 1950 quando Pio XII
proclamò il dogma dell’Assunta».
Sempre Taft, nel suo articolo più noto a riguardo (Messa
senza Consacrazione? Lo storico accordo sull’eucaristia tra la Chiesa
cattolica e la Chiesa assira d’Oriente promulgato il 26 ottobre 2001),
come se fosse la cosa più scontata ed evidente, ha ripetutamente
affermato che tale documento è espressione del supremo magistero della
Chiesa. Sinceramente sembra un po’ troppo, visto che questo titolo
spetta o al Magistero del Pontefice o a quello dell’episcopato
universale cum Petro et sub Petro.
Gli Orientamenti invece sono un documento che non
può rivendicare l’accoglienza dovuta al Magistero supremo, perché non si
tratta di un atto né del papa, né di un Concilio e nemmeno della CDF,
che sola si può esprimere a nome del Papa su materie che coinvolgono la
fede della Chiesa.
A conferma che questi Orientamenti non possono pretendere di avere valore magisteriale per la Chiesa universale concorre un altro elemento: la loro assenza dagli Acta Apostolicae Sedis,
che sono l’organo di promulgazione dei decreti, leggi e documenti della
Chiesa. Anzi, proprio a conclusione del documento del Pontificio
Consiglio, si esplicita che «la promulgazione di queste disposizioni fra
la Chiesa assira dell'Oriente e la Chiesa caldea è di competenza delle
due Chiese particolari e delle loro rispettive autorità (cfr. CCEO, can.
670, §1; 671, §4.5)».
Si tratta quindi di una disposizione prudenziale con
valore locale («le suddette considerazioni sull'uso dell'Anafora di
Addai e Mari […], si intendono esclusivamente per la celebrazione
eucaristica […] della Chiesa caldea e della Chiesa assira dell'Oriente»)
e non di una decisione da estendere alla Chiesa universale o di un
nuovo insegnamento teologico. Eppure diversi liturgisti, come il già
citato Taft, o Giraudo, Mazza, etc., si sono appoggiati su questo
documento per arrivare a ritenere che le parole della consacrazione o
non sono necessarie o sono addirittura un tradimento delle anafore più
antiche.
Stravaganze liturgiche
Tra le argomentazioni del documento del PCUC per motivare la propria
decisione di riconoscere la validità dell’anafora, una riguarda
l’aspetto storico. Si afferma che l’anafora di Addai e Mari «è una delle
più antiche anafore, risalente ai primordi della Chiesa […] La sua
validità non è mai stata ufficialmente confutata, né nell'Oriente né
nell'Occidente cristiani».
In effetti sorprende l’eccessiva semplificazione della questione,
che ha sciolto le briglie di molti liturgisti: se l’anafora è antica e
se la sua validità non è mai stata contestata, allora le parole della
consacrazione non sono necessarie per la validità. Si è arrivati infatti
a sostenere che le parole pronunciate da Gesù nell’Ultima Cena non
siano indispensabili, andando ben oltre il tenore degli Orientamenti e
in patente conflitto con la dichiarazione dogmatica del concilio di
Firenze del 1439 nel Decretum pro Armenis: «forma di questo
sacramento sono le parole con cui il Salvatore l’ha consacrato. Il
sacerdote, infatti, consacra parlando in persona di Cristo. E in virtù
delle stesse parole la sostanza del pane si trasforma in corpo di
Cristo, e la sostanza del vino in sangue» (DS 1321); non
diversamente si pronuncia il Catechismo della Chiesa Cattolica, § 1413,
ed il Magistero di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI sull’Eucaristia,
successivo agli Orientamenti del 2001, mai hanno autorizzato tante
stravaganze.
Secondo il gesuita Robert Taft, per esempio, a
consacrare sarebbero le parole pronunciate da Gesù una volta per tutte e
non la loro ripetizione da parte del sacerdote; Enrico Mazza e l’altro
gesuita, p. Cesare Giraudo, invece, ritengono che nessuna preghiera
eucaristica contenesse in origine le parole della consacrazione,
aggiunte solo in un secondo momento da quella che Giraudo ha definito
una “metodologia delle idee chiare e distinte”, il cui capostipite
sarebbe Pietro Lombardo, reo di non aver più saputo comprendere lo
spirito dei Padri, ma di averlo anzi travisato.
Interpretazioni differenti dello stesso fatto
E’ un dato di fatto che la più antica testimonianza dell’anafora
attualmente a nostra disposizione (X secolo) non riporta le parole di
consacrazione; ma non è un fatto che esse non fossero pronunciate. In
ambito liturgico, soprattutto quando si parla dei primi secoli, si entra
più nella sfera delle congetture che delle certezze, anche a motivo del
fatto che è solo a partire dal IV che le anafore e preghiere
eucaristiche iniziano ad essere fissate per iscritto.
Siccome i fatti non parlano da soli, spesso entrano
in gioco interpretazioni che rispondo ad una visione precostituita. Non
si può presupporre un’equivalenza tra ciò che veniva scritto e ciò che
era effettivamente pronunciato; esisteva infatti nella Chiesa antica la
disciplina del secretum arcani, cioè l’uso di tenere custoditi e
nascosti alcuni riti e formulari. C’è una testimonianza interessante di
Gabriele del Qatar, commentatore di area assiro-caldea, che afferma
esplicitamente (inizio del VII secolo): «il fatto che egli
[sacerdote] reciti l’intera parte silenziosamente, ma alla fine alzi la
voce, così che il popolo possa sentire, è dovuto anzitutto al fatto che
si sta compiendo un Mistero, e non è opportuno che tutti lo conoscano;
secondariamente, [affinché] non accada che le parole, nell’essere
ascoltate, siano imparate da laici, donne e bambini, con il risultato
che le divine parole siano ritenute come ordinarie e vengano così
disprezzate».
Non è affatto fantasioso dunque ritenere che le
parole consacratorie non fossero scritte proprio per evitarne la
“profanazione”, soprattutto in quei secoli in cui la Chiesa assira
dovette fare i conti prima con i Sasanidi e poi con la conquista
islamica, due imperi che causarono non poche persecuzioni. Più di un
commentatore dell’area assira si riferisce alle parole della
consacrazione e anche al fatto che esse venivano pronunciate a memoria e
in segreto, come attesta questo commentario di un Anonimo (VII-IX
sec.): «quando il celebrante giunge al termine della narrazione del
sacrificio, cioè quando il Signore ha consegnato il suo corpo e il suo
sangue, egli completa il gehanta (inchino) con il sigillo della Trinità,
e il popolo, poiché, essendo perfetto, conosce la preghiera segreta del
sacerdote, risponde “amen”».
C’è poi una preziosa testimonianza de visu
di un missionario anglicano, inviato ad Urmia (città di origine assira
dell’attuale Iran) sul finire del XIX secolo, il quale attesta che le
parole consacratorie «non furono mai affidate allo scritto dai siriani,
sebbene il sacerdote le abbia sempre pronunciate nella celebrazione dei
misteri».
Come minimo, bisognerebbe ridurre a mera ipotesi
possibile il fatto che l’anafora venisse effettivamente pregata senza le
parole dell’istituzione. E forse è proprio perché era risaputo che tali
parole erano pronunciate in secreto che la validità di tale anafora non
venne contestata; l’assenza delle parole di Cristo dai manoscritti non
prova dunque la loro assenza dalla celebrazione.
C’è un altro fatto che dovrebbe far riflettere su quanto
si sia voluto spingere sulla validità di tale anafora per altri scopi,
che poco hanno a che fare con la necessità pastorale dei cattolici
caldei. E’ lo stesso Macomber ad attestare che «l’ultimo messale
stampato a Trichur, in India nel 1959 […] ha [le parole della
consacrazione] come parte integrante del testo. Tutte le Messe che ho
frequentato negli ultimi anni, nelle quali è stata utilizzata l’anafora
di Addai e Mari, hanno incluso questa versione [di San Paolo] delle
parole di consacrazione. Come per il segno della Croce, essa è inclusa
quale parte integrante dell’edizione anglicana del messale e nessun
nestoriano oggi penserebbe di cambiarla».
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