di Cristiano Lugli
L’inizio della Quaresima è certamente il momento più propizio per il
cristiano che voglia definirsi tale, ovverosia cattolico integralmente e
fedele alla Legge di Dio e a quella della Santa Chiesa che offre,
specialmente attraverso la liturgia che accompagnerà fino a Pasqua,
tutti i mezzi indispensabili ed opportuni per iniziare un sempre nuovo
cammino di conversione.
I quaranta giorni che separano dall’entrata nella Settimana Santa
cominciano con il simbolo per eccellenza della mistica morte cristiana:
il Mercoledì delle Sacre Ceneri, in cinere et cilicio, attorniato
da penitenza e digiuno, ci ricorda con il simbolo dell’imposizione ciò
che saremo destinati a tornare, e cioè polvere e niente più: “memento homo, quia pulvis es et in pùlverem revertèris”.
Una vita di svago e piaceri mondani non avrà diverso esito – in senso
prettamente materiale, finanche corporeo – di quella vissuta da chi avrà
tentato con tutte le proprie forze di piacere a Dio; epperò, la vita di
quest’ultimo, avrà bensì un Giudizio diverso dal primo pur entrambi
tornando ad essere ciò che furono: polvere e null’altro che polvere.
In particolare questo periodo varcato ci ricorda qualcosa di
estremamente importante della vita di Nostro Signore Gesù Cristo, che
sono appunto i quaranta giorni di ritiro nel deserto, affrontando prove e
tentazioni, mortificazioni e digiuni. Di questo lasso di tempo sappiamo
poco tramite i Vangeli, e per poco si intende che si conosce il numero
di giorni in cui Cristo stette ritirato e le tentazioni con cui Satana
cercò vanamente di tentarlo; nient’altro. L’umile ragione, connubiata ad
una salda e forte Fede, porta ad avere quella sana sete di conoscenza
per la vita del nostro Salvatore, e per contro possono apporsi diversi
ragionamenti con interrogativi annessi riguardo a questo lungo periodo
trascorso dal Figlio di Dio nel deserto. Certamente non ci è dato sapere
né conoscere come trascorsero nel dettaglio quei giorni, anzitutto
perché non è richiesto o fondamentale saperlo, ma ciò che è certo è che
nonostante si trattasse di Dio stesso la carne avrà dovuto patire gli
stenti di quella fame e di quella sete con cui lo Spirito dovette
combattere affrontando l’umana parte. Ed è proprio su questo punto che
s’impernia un insegnamento quanto mai opportuno in questo tempo di
Quaresima, trattandosi di un vero e proprio allenamento alla
mortificazione che Gesù ha condotto con fatica e certamente dolore,
seppur la Sua soprannaturale natura fosse sostenuta proprio dal fatto
che Egli è Dio stesso.
Soffermandosi però a pensare a questo tempo è lecito domandarsi
come sia stato possibile digiunare e rimanere senza bere per quaranta
giorni: anche qui non ci è dato saperlo e la nostra rassegnazione deve
situarsi nel fatto che non si possono apporre paragoni fra noi e Cristo
ma, Lui essendo il nostro essenziale e primordiale modello, si deve
tentare con tutte le forze di cui disponiamo l’imitazione delle Sue
virtù. Ed è proprio questo ciò che fecero i primi Padri del deserto,
estendendo a tutta la loro vita, radicalmente, quei quaranta giorni di
penitenza e digiuni, sulle orme del Salvatore.
Sarebbe bello ed interessante potersi fermare a sfogliare le vite
di questi Santi monaci, gran parte di essi conosciuti ma un’altra
cospicua parte nemmeno mai comparsa – se non per qualche citazione –
davanti agli occhi degli uomini d’oggi, con estrema sintesi del pensiero
redatto ne “L’imitazione di Cristo”: Ama nesciri et pro nihilo reputari ( ama
di essere dimenticato, e reputato da nulla ), tuttavia questo non è
l’intento principale che si vorrebbe presentare in questa sede, ove il
punto focale deve essere il modello della divina virtù del distacco dai
beni, dalle passioni e dai piaceri della carne, in particolare quelli
più difficili da controllare.
Certo è che a nessuno è richiesto dappiù di ciò che è in grado di
dare attraverso i propri sforzi, così come persino il pensiero tomistico
inserisce i piaceri e le passioni fra qualcosa di abbordabile, purché
questo sia fatto nella liceità di ciò che si compie e principalmente
nella capacità di essere poi anche distaccati dall’oggetto che ci
coinvolge.
L’uomo moderno, nonché pure il cattolico moderno ( diverso da
modernista ) è tanto propenso a prendersi in carico questi suddetti
permessi, come che tutto fosse lecito e come che la vita debba essere
convogliata in qualcosa di piacevole e mai doloroso, perché d’altronde
il dolore non sarebbe qualcosa di cattolico.
Questo pensiero risulta oltraggioso e va respinto, parimenti quando
viene detto che la sofferenza deve essere tuttalpiù scelta e ricercata
solo dai Santi, quasi a far intendere che solo alcuni e non tutti siano
chiamati alla santità. Proprio la Quaresima ci invita invece a ragionare
in modo opposto al temerario filo conduttore appena citato, poiché da
essa si intuisce che sia dovere ci ciascuno cercare di provare se
stesso, con una sincera e seria introspezione, per comprendere quanto
veramente sia distaccato dai beni di cui usufruisce abitualmente.
Questi quaranta giorni sono per eccellenza la chiara ed
indispensabile necessità di ciò che potremmo definire “purificazione
interiore”, aiutati dal tempo di penitenza e contrizione offerti dalla
Santa Madre Chiesa, tanto premurosa di chiamare a conversione i propri
figli.
Addentrandoci nel lato teologico ma anche pratico di questa
determinazione a purificarsi, prenderemo a riferimento il pensiero
esposto da uno dei più grandi mistici del XVI secolo, ma che potremmo
definire, per alcune caratteristiche, senza eguali nel tempo. Lo stesso
patrono di tutti i mistici: San Giovanni della Croce, cofondoatore
insieme a Santa Teresa d’Avila dell’Ordine dei Carmelitani scalzi,
attraverso la riforma introdotta nel 1562. Sul nutrimento della grande
spiritualità del Carmelo, questo insigne Dottore della Chiesa ha
tradotto al mondo tutta l’essenza del valore purificatorio insegnato da
Gesù nel Vangelo, riassunta proprio nella magna opera “Salita del Monte Carmelo”, ove è detto che “L’anima che vuol salire sul monte della perfezione deve rinunciare a tutte le cose”.
Partendo da questo punto essenziale esposto dal mistico spagnolo ci
avvicineremo, con varie tappe, a comprendere l’importanza e il guadagno
essenziale della Quaresima, avendo così ben chiaro il forte valore che
la Chiesa sole darle dalla prima pietra fondante di San Pietro.
Il lavoro richiesto è da farsi sull’anima nostra, paragonata da San
Giovanni della Croce ad una invetriata investita regolarmente dal sole,
epperò quest’ultimo trovando un appannamento tale da non poter
irradiare l’interno “e – dice – così non la potrà illuminare e
trasformare totalmente nella sua luce, anzi tanto meno la rischiarerà,
quanto meno sarà priva di macchie. Al contrario – prosegue – se fosse
del tutto monda e netta, sarebbe illuminata e trasformata in modo tale
da sembrare il raggio stesso e mandare la stessa luce di esso”.
Sappiamo che Dio è il divino sole che irradia le anime nostre,
voglioso di poterle penetrare e rischiararle con tutta la potenza della
Sua luce, ma, per fare questo, è necessario che Egli trovi quest’anima
monda da ogni macchia di creatura, ovvero lordure dovute al peccato e a
quegli attaccamenti che nulla hanno di ordinato.
Il Signore vigila e veglia sempre, fino al punto che non appena
trova un’anima capata dal peccato mortale subito vi si getta addosso
riempiendola con la Grazia, il dono più grande, trampolino di lancio per
l’inizio di quella sublime opera di trasformazione che Dio vuole
operare in lei. Ed è proprio per questo che tanto più l’anima si
purifica dal peccato, anche veniale che sia, conformando ed
assoggettando la sua incostante volontà a quella di Dio a ragione non
solo delle cose gravi obbligatorie ma anche di quelle più piccole, tanto
più la penetrazione della Grazia di Dio farà beneficiare di copiosi
raccolti nel dominio dello spirito.
Corrisponde un premio alto, specie in virtù delle promesse fatte da Gesù, il quale dice “se uno mi ama verremo a lui e faremo dimora presso di lui” (Gv.
14,23) : non solo il gran dono della divina Grazia è garantito a chi
muore al mondo per amare Dio, ma anche la stessa permanenza dell’Uno e
Trino nella propria anima. La Grazia – dicevamo – è il ponte, lo
slancio, che con un solo grado di essa garantisce la permanenza di Dio
nell’anima; tuttavia non è Egli totalmente donato a quell’anima, non la
consuma nella perfetta unità; questo finché troverà qualche cosa, anche
se minima ed apparentemente innocua, resistente alla Sua volontà. Perché
ogni imperfezione, minuscola che sia, si oppone alla volontà di Dio,
Egli non potendo ammettere all’unione con il divino un’anima che
patteggia con qualche piccolo attaccamento contrario alla perfezione
infinita rappresentata dal Padre.
È necessario parimenti lottare con tutte le proprie forze per
discernere la nostra volontà – che va abbattuta – con quella di Dio, a
cui va unita ed abbandonata la nostra. Un’unione perfetta ha alla base
la conformità totale di volontà ed affetto: senza queste prerogative
insostituibili Dio potrà sì abitare in un’anima monda dal peccato
irradiandola con la luce della Grazia, ma non si comunicherà mai
totalmente all’anima, come afferma ancora il monaco carmelitano: “L’anima
si dispone all’unione con la purità e l’amore, ossia solamente con la
rinunzia ed il perfetto spogliamento di ogni cosa per il Signore”. Un’anima così dispostasi ha l’aiuto di Dio – continua S. Giovanni della Croce – il quale le fa “questa
grazia sovrannaturale per cui tutte le cose divine e l’anima sono
tutt’uno in una trasformazione partecipante: l’anima sembra più Dio che
anima, ed è anzi Dio per partecipazione, pur sempre ritenendo il proprio
essere distinto dal raggio, per quanto da esso illuminata”.
Questo è molto altro avrà da
insegnarci, se lo vorremo, questo Santo del Carmelo nel tempo di
Quaresima. Lui che ha calcato una via verticale, determinata ed ascetica
verso Dio, al quale si giunge solo dopo una perfetta e necessaria
purificazione interiore.
Ci aiuti San Giovanni della Croce in questo periodo propizio, a far si che le nostre anime sembrino più Dio che anime.
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