mercoledì 30 dicembre 2015

Sorridi ora, aprimi ora la porta, ancora sarà Natale, ...



Verrà il giorno 
in cui lui ritornerà 
fermandosi alla tua porta. 
Come un tempo i gradini salirà 
sicuro di essere atteso. 
Tu cosa dirai, quando lui entrerà, 
cercando tra gli altri il tuo volto? 
Paura avrai, quando ti guarderà, 
che possa trovarti cambiata. 
Sorridi ora, aprimi ora la porta, 
ancora sarà Natale, vedi che sono tornato. 
E ridi ora, aprimi ora la porta, 
con me tu riderai, ora che sono tornato. 

Polvere e vento 
con sé lui porterà ... 
profumo di terre lontane. 
Lui che ha visto i paesi e le città 
che tu hai soltanto sognato, 
chissà oltre il mare 
quante cose ha lasciato ... 
E tu che hai soltanto aspettato 
dall'ombra uscirai, spiando il suo volto, 
stupita nel primo vederlo. 

Sorridi ora, aprimi ora la porta, 
ancora sarà Natale, vedi che sono tornato. 
E ridi ora, aprimi ora la porta, 
con me tu riderai, ora che sono tornato. 

ecco a voi il divorzio cattolico


Al via i nuovi processi per i matrimoni “falliti”. Ma quanta confusione.


Il Vaticano prima tiene in vita e poi abroga l’efficiente sistema dei tribunali regionali introdotto in Italia da Pio XI. In pericolo anche il riconoscimento civile delle nuove sentenze. Le critiche di un canonista.
di Sandro Magister (16-12-2015)
Dal giorno dell’Immacolata sono in vigore in tutto il mondo i due motu proprio – il secondo per le Chiese cattoliche di rito orientale – con cui papa Francesco ha rivoluzionato i processi di nullità matrimoniale:
L’esordio è stato però alquanto tormentato. Non solo per le critiche severe che autorevoli esperti hanno rivolto all’impianto della riforma, ma anche per i tentennanti aggiustamenti apportati dalle autorità vaticane ai due motu proprio, prima e dopo la loro entrata in vigore.
Il primo di questi aggiustamenti porta la data del 13 ottobre ed è un responso a firma del presidente del pontificio consiglio per i testi legislativi, il cardinale Francesco Coccopalmerio, e del segretario dello stesso organismo, il vescovo Juan Ignacio Arrieta: > “Reverendissimo Monsignore…”

Il richiedente voleva sapere come mettere d’accordo l’imperativo della riforma di papa Francesco di creare in ogni diocesi un tribunale per le cause di nullità matrimoniale con l’ordinamento stabilito per l’Italia da papa Pio XI con il motu proprio Qua cura dell’8 dicembre 1938, che assegnava la trattazione di tali cause a dei tribunali interdiocesani, uno per ogni regione.
La risposta del pontificio consiglio per i testi legislativi è stata che il motu proprio Qua cura di Pio XI restava in Italia “in pieno vigore”. E quindi se un vescovo intendeva staccarsi dal rispettivo tribunale regionale per istituire un tribunale nella propria diocesi, doveva prima “ottenere la relativa dispensa della Santa Sede”, facendone richiesta al tribunale della segnatura apostolica.
Il cardinale Coccopalmerio, oltre che presidente del pontificio consiglio per i testi legislativi, è stato anche membro delle commissione creata da papa Francesco il 27 agosto 2014 per preparare la riforma dei processi matrimoniali. Tutto faceva presumere, quindi, che la sua risposta fosse definitiva, anche perché l’organizzazione processuale introdotta in Italia da Pio XI ha dato fino ad oggi buona prova, sia per la facilità di accesso ai tribunali, sia per la serietà dei processi, sia per la quasi gratuità degli stessi, con i maggiori costi a carico della conferenza episcopale.
Invece, meno di un mese dopo, ecco arrivare da un’altra istanza vaticana – e su mandato del papa – una presa di posizione di segno diverso, se non opposto.
È il 4 novembre e nel Palazzo della Cancelleria si tiene l’atto di apertura del nuovo anno accademico dello Studio rotale. Tre giorni dopo, L’Osservatore Romano riferisce che nell’introdurre la cerimonia il decano della Rota romana, monsignor Pio Vito Pinto – già presidente della commissione di stesura dei motu proprio –, ha letto la seguente dichiarazione:
«Il Santo Padre, al fine di una definitiva chiarezza nell’applicazione dei documenti pontifici sulla riforma matrimoniale, ha chiesto al decano della Rota romana che venga chiaramente manifestata la mens del supremo legislatore della Chiesa sui due motu proprio promulgati l’8 settembre 2015:
1. Il vescovo diocesano ha il diritto nativo e libero in forza di questa legge pontificia di esercitare personalmente la funzione di giudice e di erigere il suo tribunale diocesano;
2. I vescovi all’interno della provincia ecclesiastica possono liberamente decidere, nel caso non ravvedano la possibilità nell’imminente futuro di costituire il proprio tribunale, di creare un tribunale inter-diocesano; rimanendo, a norma di diritto e cioè con licenza della Santa Sede, la capacità che metropoliti di due o più province ecclesiastiche possano convenire nel creare il tribunale inter-diocesano sia di prima che di seconda istanza».
Questa volta del motu proprio Qua cura di Pio XI non si fa parola. L’orizzonte non è più italiano ma mondiale. Ma l’insistenza sul “diritto nativo e libero” che ogni vescovo diocesano ha di erigere il suo tribunale fa intuire che a giudizio del papa – la sua “mens” – non c’è più bisogno di alcuna “dispensa” da norme precedenti, né in Italia né altrove.
Evidentemente, però, questa dichiarazione di monsignor Pinto, a nome del papa, non brilla di quella “chiarezza” che a parole decanta. Tant’è vero che un mese dopo Francesco si sente in dovere di intervenire nuovamente, ma in forma più diretta e ufficiale, con un rescritto “ex audientia” consegnato il 7 dicembre al decano della Rota romana, ancora lui, e reso pubblico l’11 dicembre: > Rescritto del Santo Padre Francesco…
Il rescritto si articola in un’introduzione e in due parti. La prima delle due parti è di poche righe e archivia per sempre il Qua cura di Pio XI e altre norme analoghe del passato:
«Le leggi di riforma del processo matrimoniale succitate abrogano o derogano ogni legge o norma contraria finora vigente, generale, particolare o speciale, eventualmente anche approvata in forma specifica (come ad es. il motu proprio Qua cura, dato dal mio antecessore Pio XI in tempi ben diversi dai presenti)».
Nella seconda sezione si vieta il ricorso alla Rota romana «dopo che una delle parti ha contratto un nuovo matrimonio canonico, a meno che consti manifestamente dell’ingiustizia della decisione». Ed è il punto sottoposto a severa critica dal canonista Guido Ferro Canale, nella nota alla fine di questo servizio.
Mentre nell’introduzione la frase emblematica è la seguente:
«Le leggi che ora entrano in vigore vogliono proprio manifestare la prossimità della Chiesa alle famiglie ferite, desiderando che la moltitudine di coloro che vivono il dramma del fallimento coniugale sia raggiunta dall’opera risanatrice di Cristo, attraverso le strutture ecclesiastiche, nell’auspicio che essi si scoprano nuovi missionari della misericordia di Dio verso altri fratelli, a beneficio dell’istituto familiare».
Si può notare come qui si continui ad adottare una formula, quella del “fallimento coniugale”, che già nel motu proprio Mitis iudex Dominus Iesusaveva sollevato critiche da parte di giuristi.
Dire “matrimonio fallito”, infatti, non è la stessa cosa che dire “matrimonio nullo”. La nullità è propria di un matrimonio che non è mai stato tale, mentre il fallimento può riguardare un matrimonio in sé validissimo.
L’uso dell’espressione “matrimonio fallito” può indurre a pensare che le sentenze di nullità siano equiparabili a dei divorzi, cioè proprio ciò che lo stesso papa Francesco sembra temere là dove scrive, nel proemio del motu proprio Mitis iudex Dominus Iesus, a proposito della facilità e rapidità dei nuovi processi:
«Non mi è sfuggito quanto un giudizio abbreviato possa mettere a rischio il principio dell’indissolubilità del matrimonio».
Ma c’è di più. La riforma dei processi matrimoniali promulgata da papa Francesco può incontrare serie difficoltà di applicazione anche in campo civile, oltre che in campo ecclesiastico.
In paesi a regime concordatario come l’Italia le sentenze di nullità emesse da un tribunale ecclesiastico hanno effetti civili attraverso la “delibazione” – o “exequatur” –, cioè l’atto con cui il tribunale civile attribuisce forza esecutiva alla sentenza del tribunale ecclesiastico, equiparandola a una sorta di divorzio.
La “delibazione” è data però a condizione che la sentenza del tribunale ecclesiastico – come anche di un tribunale straniero – sia stata emessa dopo un regolare contraddittorio nel quale le parti abbiano avuto pari opportunità di accusa e di difesa.
Ora, il processo “più breve” con giudice unico il vescovo, la maggiore novità introdotta e incoraggiata dalla riforma di Francesco, che può arrivare a sentenza in meno di due mesi con una procedura sommaria, per un tribunale civile italiano manca dei requisiti indispensabili per una “delibazione”.
È quindi facile prevedere il contrasto che ne deriverà tra i due regimi giuridici, quello dell’Italia e quello della Chiesa.
Ma il caso italiano sarà solo uno fra tanti.
Eleggendo ogni vescovo a economo della grazia nella sua diocesi, con poteri fulminei di scioglimento dei matrimoni “falliti”, papa Francesco ha posto un precedente che avrà seri effetti anche extra ecclesiam, con contraccolpi giuridici diversi da nazione a nazione.
Tornando al rescritto papale del 7 dicembre, nel quale si vieta il ricorso alla Rota romana «dopo che una delle parti ha contratto un nuovo matrimonio canonico, a meno che consti manifestamente dell’ingiustizia della decisione», ecco qui di seguito le conseguenze che ne derivano, a giudizio di un giovane canonista di valore come Guido Ferro Canale.
L’analisi è molto tecnica ma nello stesso tempo chiara. Anche se dopo una sentenza di nullità e un nuovo matrimonio canonico si palesasse l’ingiustizia della sentenza, Ferro Canale mostra che le contraddizioni del dispositivo rendono comunque impraticabile un ricorso alla Rota. In pratica – scrive – varrà da qui in avanti la regola che «nel dubbio si sta per le nuove nozze». E ciò «equivale a negare l’indissolubilità del primo matrimonio», attribuendo di fatto a una pur dubbia sentenza, una volta celebrate le nuove nozze, l’effetto d’aver sciolto il precedente vincolo matrimoniale.
Ma lasciamo la parola al canonista.

Dal rimedio per divorziati al “divorzio cattolico”
di Guido Ferro Canale
La riforma dei processi di nullità matrimoniale varata con il motu proprio Mitis iudex ha suscitato molte perplessità e una ridda di commenti critici; che io sappia, però, soltanto il professor Danilo Castellano, in un’intervista su questo sito, si è soffermato su una delle innovazioni a mio avviso più criticabili, ossia il nuovo canone 1675, secondo cui il giudice, prima di ammettere alla trattazione un giudizio di nullità, «deve avere la certezza che il matrimonio sia irreparabilmente fallito, in modo che sia impossibile ristabilire la convivenza coniugale».
PAPA-VOLO-USA-1000x600Dovrebbe essere piuttosto evidente che vi sono matrimoni falliti che non sono affatto nulli e, viceversa, matrimoni nulli che non falliscono (almeno per molto tempo). Subordinare l’avvio del processo, cioè dell’accertamento sulla validità del vincolo del matrimonio-atto, ad una condizione estrinseca come il fallimento del matrimonio-rapporto, equivale ad affermare che la Chiesa non ha interesse ad accertare la verità su un sacramento, a meno che non sia sopravvenuta una crisi irreversibile della coppia. Il che, sia detto per inciso, lascerebbe sprovvisti di tutela proprio i coniugi più coscienziosi – o scrupolosi – che, agitati da dubbi sulla validità del loro matrimonio, volessero vederli risolti dall’autorità ecclesiastica, senza però aver fatto “saltare” la loro unione. A tutto vantaggio, invece, di separati e divorziati che convivano, i quali, proprio in forza della nuova convivenza, ben potranno dirsi impossibilitati (almeno moralmente) a ristabilire quella di prima.
A dire il vero, un’interpretazione rigorosa e attenta ai diritti delle parti dovrebbe evitare simili effetti perniciosi, riducendo il can. 1675 ad un obbligo di informazione previa, che non comporterebbe l’inammissibilità o l’improcedibilità per mancanza di una previsione legale espressa (cfr. cann. 10 e 18). Tuttavia, è lecito dubitare della mens legislatoris, dato che le Regole procedurali annesse al motu proprio riservano la nuova investigatio praeiudicialis a separati o divorziati che dubitano o sono certi della nullità del proprio matrimonio (n. 3) e, nel preambolo, assegna ai tribunali in materia matrimoniale il compito di rispondere ai fedeli che chiedono la verità sull’esistenza del vincolo sui collapsi matrimonii.
Ma, comunque sia, l’innovazione testé menzionata impallidisce rispetto al rescritto ex audientia del 7 dicembre, pubblicato l’11 successivo dal bollettino della sala stampa della Santa Sede.
In esso – che, pur denominato “rescritto”, presenta in realtà tutti i requisiti formali del breve, tranne forse il suggello dell’anulus Piscatoris – papa Jorge Mario Bergoglio ha voluto risolvere definitivamente il dubbio interpretativo sulla possibilità, per i vescovi italiani, di ricostituire i tribunali diocesani e, soprattutto, impartire disposizioni per un primo adeguamento alla riforma delle norme speciali della Rota romana.
Nel fare ciò, Francesco ha ripreso, rendendole stabili, alcune facoltà speciali accordate da Benedetto XVI, per un triennio, al decano della Rota stessa, con un rescritto ex audientia singolarmente emanato proprio l’11 febbraio 2013, il giorno della sua rinuncia al pontificato. Tale rescritto prevedeva tra l’altro, per quanto interessa in questa sede, il divieto di introdurre ricorsi per nuova proposizione di causa, se, divenuta esecutiva la sentenza di nullità, una delle parti avesse contratto nuovo matrimonio canonico.
La nuova proposizione di causa è il rimedio accordato dal diritto (can. 1644) contro le sentenze in materia di stato delle persone – quindi anche sullo stato libero o coniugato – non più impugnabili in altro modo, quando si danno nuove prove o nuovi argomenti,che rendono probabile la riforma della sentenza stessa (cfr. istruzione Dignitas connubii, art. 292). Nel caso, quindi, avremmo una dichiarazione di nullità probabilmente sbagliata, che però non viene sottoposta a nuova verifica giudiziale, in virtù di un dato assolutamente estrinseco alla verità sul primo matrimonio, ossia la sopravvenienza del secondo. Il quale però – è evidente – sta o cade con la nullità del primo.
Questa previsione delle facoltà speciali è stata, perciò, vivamente criticata in dottrina, tra gli altri da Mons. Joaquin Llobell, uno dei massimi studiosi viventi del processo canonico, materia di cui è professore ordinario alla Pontificia Università della Santa Croce. Probabilmente per questo motivo non è stata ripresa dal Mitis iudex, che, al nuovo can. 1681, conferma che la nuova proposizione di causa è sempre esperibile sul presupposto degli argomenti nuovi e gravi.
Il motu proprio, ci informa ora il rescritto del 7 dicembre, abroga o deroga «ogni legge o norma contraria finora vigente, generale, particolare o speciale», quindi, con la sua entrata in vigore, sarebbe caduta anche la preclusione in discorso; ma, presumibilmente su iniziativa del decano della Rota, essa è stata riproposta nel rescritto stesso, al punto 3, peraltro in una versione attenuata, si suppone per tener conto delle critiche ricevute. La nuova versione recita: «Dinanzi alla Rota romana non è ammesso il ricorso per la N.C.P. (Nova Causae Propositio), dopo che una delle parti ha contratto un nuovo matrimonio canonico, a meno che consti manifestamente dell’ingiustizia della decisione».
Anzitutto, chiariamo che il divieto, formalmente limitato alla Rota romana, in realtà è generale, perché la N.C.P. si propone al tribunale di terza istanza (cfr. il nuovo can. 1681), che, nella Chiesa latina, è appunto la Rota. Vi sono solo altri tre giudici competenti in pianta stabile per il terzo grado, e tutti per un ambito territoriale circoscritto: la Rota della nunziatura apostolica in Spagna (che giudica anche in quarto grado), il tribunale del primate di Ungheria e quello di Friburgo in Brisgovia; quindi, per un verso la generalità dei fedeli di rito latino è soggetta ai nuovi limiti posti alla N.C.P.; peraltro ci si può chiedere se essi non debbano estendersi anche a questi tribunali locali, dato che non ha senso né offrire maggiori possibilità di azione solo ai fedeli che ivi abbiano introdotto le proprie cause, né attribuire al tribunale del papa una competenza minore rispetto agli altri, né, infine, conculcare il diritto di appello – in questo caso, per N.C.P. – alla sede apostolica, che spetta ad ogni fedele in virtù del primato pontificio (cfr. can. 1417 §1). È vero, come osservava Mons. Llobell in sede di commento alle facoltà speciali, che le norme restrittive di diritti non possono essere estese dall’interprete a casi ivi non previsti (cfr. can. 18); tuttavia, la lettura restrittiva, in sé appropriata, porta ad esiti assurdi e, per giunta, contrastanti con un corollario del primato di giurisdizione del papa. Per quanto possa sembrare strano che si modifichi in dicembre – senza neanche dirlo esplicitamente – una norma riconfermata in agosto, sono dell’avviso che il rescritto, di fatto, modifichi il nuovo can. 1681, introducendo una regola di procedura valida per l’intera Chiesa latina, anche nei casi che potrebbero essere portati ad un giudice di terza istanza diverso dalla Rota.
Ciò detto, veniamo agli effetti della restrizione così introdotta.
Probabilmente, l’estensore materiale del rescritto ha creduto di aver trovato una formula idonea a superare le critiche formulate riguardo alla corrispondente facoltà speciale. Di fatto, tuttavia, ha peggiorato notevolmente la situazione. Se prima infatti si poteva pensare ad una disposizione di carattere eccezionale e transitorio, legata alla necessità di smaltire l’arretrato della Rota, ora ci troviamo di fronte ad una norma permanente. E anche il supposto miglioramento, che fa salvo il caso in cui «consti manifestamente dell’ingiustizia della decisione», crea molti più problemi di quelli che risolve. La formula impiegata, in effetti, è la stessa che il can. 1645 § 1 impiega per descrivere il presupposto della restitutio in integrum; e il successivo § 2 stabilisce tassativamente quali siano i casi di manifesta ingiustizia. Difficile non pensare che quest’elenco valga anche per la N.C.P., come modificata dal rescritto del 7 dicembre.
Senonché, dalla semplice lettura del can. 1645 § 2, è agevole desumere che difficilmente potrà rientrarvi il caso, in la verità non così raro, in cui una parte, in genere quella che ha chiesto e ottenuto la declaratoria di nullità, confessi di aver mentito e/o manovrato ingiustamente a tale scopo: non sembra che si tratti di dolo di una parte in danno dell’altra (n. 3), sia perché potrebbe esservi stata collusione di entrambe (o indifferenza dell’altro coniuge all’esito del giudizio canonico) sia perché, dal punto di vista spirituale, l’autore della frode processuale danneggia anzitutto sé stesso; di sicuro, poi, non ci troviamo in presenza di prove scoperte false (n. 1), perché la falsità era nota fin dall’inizio, almeno al ricorrente; e la sua dichiarazione confessoria, anche se redatta per iscritto, non si qualificherebbe certo come un documento “scoperto” dopo la sentenza (n. 2). Inoltre, le prove false debbono essere state assunte ad unico fondamento della decisione; il che lascia scoperti quei casi in cui sono state valutate decisive insieme con altri elementi, dimodoché la riforma della sentenza appaia probabile, ma non certa. Queste ipotesi sarebbero normalmente coperte dalla N.C.P., ma non lo sono in caso di restitutio in integrum.
La differenza si spiega agevolmente: la restitutio non si applica mai alle sentenze di nullità matrimoniale, ma soltanto alle decisioni passate in giudicato; per questo i suoi presupposti sono più stringenti, perché è maggiore la stabilità dell’accertamento giudiziale pregresso.
A questo punto, ci si può chiedere se non si potrebbe evitare il vuoto di tutela supponendo che la N.C.P. resti possibile in tutti i casi di manifesta ingiustizia, anche se non inclusi nel can. 1645 § 2.
Ma a questa lettura è di ostacolo sia il tenore dello stesso § 2 («Non si ritiene che consti palesemente l’ingiustizia, se non quando…»); sia il fatto che in linea di principio il rescritto pone un divieto e che, per questa via, si verrebbe ad ampliare un’eccezione (cfr. can. 18); sia, soprattutto, l’analogia innegabile, perché, anche se si desse per richiamato, anzi riprodotto, solo il can. 1645 § 1 (dunque il presupposto della manifesta ingiustizia), si dovrebbe comunque concludere che, se alla pronunzia pro nullitate è seguito un nuovo matrimonio canonico, essa ha acquisito la stabilità propria del giudicato (cfr. can. 1642 § 1); inevitabile, a questo punto, ammettere la N.C.P. nei soli casi previsti per larestitutio.
Non si dice, beninteso, che la sentenza di nullità matrimoniale è passata in giudicato: ciò è escluso dal can. 1644, dal nuovo can. 1681 e anche dal fatto che si continui a parlare di N.C.P., anziché dichiarare semplicemente applicabile larestitutio. Tuttavia, nel rescritto del 7 dicembre si accorda la stabilità caratteristica del giudicato alla situazione «sentenza di nullità più nuovo matrimonio canonico». E questo è inaccettabile sotto ogni punto di vista.
In primo luogo, il giudicato consegue ad una vicenda interna al processo, l’esaurimento dei mezzi di impugnazione diversi dalla restitutio (cfr. can. 1642 § 1: «La cosa passata in giudicato gode della stabilità del diritto e non può essere direttamente impugnata se non a norma del can. 1645 § 1»). Mai lo si lega ad un evento estrinseco e sopravvenuto, quale è appunto il nuovo matrimonio. E neppure si può dire che esso determini la cessazione dell’interesse alla verità sul primo vincolo, perché è evidente che, se questo è valido, sono nulle le nuove nozze.
Non solo. Un ricorso ammissibile per N.C.P. getta, per definizione, un dubbio probabile sulla declaratoria di nullità. La certezza morale che correggeva il giudizio è venuta meno ed è tornata probabile la tesi pro vinculo. E ciò significa che il coniuge che si è risposato si trova in probabile stato di adulterio. Fosse o non fosse in buona fede – potrebbe trattarsi anche della parte innocente rispetto all’inquinamento delle prove – qui si afferma che egli non ha diritto a una risposta su questo dubbio. E non ce l’ha perché il nuovo matrimonio canonico aggiunge un quid pluris di stabilità alla sentenza, per la cui revisione non basta più un semplice dubbio.
Ciò equivale a dire che la nuova unione è meritevole di tutela in sé stessa, senza neanche un riferimento all’eventuale buona fede dei suoi contraenti. Al punto di precludere l’accertamento della verità su quella precedente. E nonostante il potenziale carattere peccaminoso. Non è mai lecito compiere un’azione se si dubita che sia peccato, altrimenti l’accettazione del rischio equivale a commettere proprio il peccato che si teme sussista (perfino se di fatto non sussistesse: è il vero senso della regola per cui non bisogna mai agire contro la propria coscienza). Eppure, qui o si afferma il contrario, o si offre un modo nuovo di risolvere il dubbio.
Però, questa sorta di regola per cui «nel dubbio, si sta per le nuove nozze» equivale a negare o la dipendenza del secondo matrimonio dal primo, oppure, che è lo stesso, l’indissolubilità di questo. Di fatto, in effetti, si finisce per dire che la sentenza di nullità – se vi si aggiunge il nuovo matrimonio – non ha più efficacia dichiarativa, o di mero accertamento, ma costitutiva: rende nullo ciò che non lo era. Perché è passibile di revisione solo nei casi in cui lo sarebbe il giudicato, che facit de albo nigrum, aequat quadrata rotundis et falsum mutat in verum.
All’apparire del Mitis iudex, da più parti si è gridato al “divorzio cattolico”. Si tratta di un giudizio che non condivido, criticando, semmai, l’impostazione del giudizio di nullità come terapia per coppie in crisi e/o situazioni irregolari.
Ma ora, poco importa se in modo obliquo e per vie traverse, questa nuova logica è sfociata nell’esito da tanti auspicato e da tanti altri temuto: il nuovo matrimonio canonico, seppur indirettamente e non in tutti i casi, scioglie il precedente.
Signore e signori, ecco a voi il divorzio cattolico.

un vestito per i preti

Una riflessione per i consacrati ...


«Il sacerdote deve essere tutto di Dio; la Chiesa per questo lo riveste di una lunga tunica. L'abito sacerdotale deve mostrare che il ministro sacro quasi non ha corpo, è volto a Dio con tutte le sue forze, e cerca solo la salvezza delle anime. 

Ora, se l’abito talare ha una forma secolaresca, se il capo è coltivato mondanamente con i ciuffi (e magari i riccioli ed i profumi), se di sotto ad una succinta sottana fanno mostra i calzoni, che cosa rappresenta più un sacerdote per il popolo?
Quell’esteriore non lo raccomanda, ed in se stesso è un segno troppo evidente di poco spirito e poca rinunzia al mondo. Se si veste mondanamente, spegne la sua luce, e mostra in sé tutt'altro che la corsa dell'anima verso Dio. 

Il sacerdote dunque col suo abito talare, lungo, composto, povero ma pulito, col suo mantello che lo avvolge come se avesse le ali ripiegate, pronte al volo, col capo segnato dalla croce del Redentore, col corpo composto, spirante ordine e modestia, con gli occhi bassi, alieni assolutamente da ogni malsana curiosità, passa nel mondo proprio come un angelo, dà un senso di pace e di conforto, dà un senso di speranza nelle angustie della vita perché egli rappresenta la carità, e passa come lampada che illumina, dissipando con la sua sola presenza le tenebre degli errori. 

La grandezza sacerdotale non può rimanere celata, non è un brillante sepolto nella miniera, deve rifulgere innanzi a tutti nell'atteggiamento e nella vita del sacerdote, poiché egli è la lampada posta sul candelabro ed è come città edificata sulla cima dei monti. 

Or, come il carattere sacro lo distingue nettamente dagli altri uomini, così deve distinguerlo l'abito e la vita, ed egli deve essere rifulgente di splendori soprannaturali. Non può dire che l'esteriorità non conta nulla, né può accomunarsi agli usi del mondo con la scusa che l'abito non fa il monaco; l'abito non lo fa ma lo rivela, e possiamo dire anche che lo aiuta internamente. Un soldato che non veste la divisa non si sente soldato; “subcoscientemente” si sente ancora libero cittadino, e non avverte la sua fusione al corpo militare cui appartiene come parte di un tutto inseparabile.»

("Nei raggi della grandezza e della vita sacerdotale"
di Dain Cohenel - pseudonimo di don Dolindo Ruotolo –

per gentile concessione de La stola non è un optional, neanche sotto la casula)

O piccolo Bambino, mio unico tesoro







O piccolo Bambino, 
mio unico tesoro, 
tu mi appari tutto raggiante di amore. 
Io mi abbandono a te.
O Gesù, mio piccolo fratello, 
non voglio altra gioia se non di farti piacere.
Mio piccolo re, donami le virtù della tua infanzia.
 Santa Teresina di Gesù Bambino

martedì 29 dicembre 2015

una nuova messa x una nuova chiesa

L’indulto di Agatha Christie



 da Radiospada
di Luca Fumagalli
Lo scrittore Julien Green, nom de plume di Julian Hartridge Green, un anglicano convertitosi al cattolicesimo, dopo che ebbe la ventura di assistere per la prima volta alla nuova messa di Paolo VI, stupito per averla trovata incredibilmente simile al rito protestante, si rivolse alla sorella Mary chiedendole: «Ma, allora, perché mai ci siamo convertiti?».
Quello di Green è solamente uno dei tanti aneddoti che raccontano dello sconcerto che molti provarono innanzi alle innovazioni liturgiche introdotte con il Concilio Vaticano II. Furono soprattutto i paesi a maggioranza protestante, tra cui l’Inghilterra, i primi focolai della contestazione. Le sparute comunità cattoliche che lì risiedevano colsero immediatamente e più facilmente di altri la pericolosa somiglianza tra il Novus Ordo Missae e i riti luterani e calvinisti dei propri connazionali. Non a caso fu un’eminente psicologa norvegese, la dr. Borghild Krane, la prima a lanciare l’allarme a tutti i cattolici del mondo affinché si organizzasse un’azione comune per preservare il secolare patrimonio liturgico della messa tradizionale.
L’appello ebbe come esito la nascita di numerose associazioni tra il 1964 e il 1965, anno in cui i delegati di sei stati europei si riunirono a Roma e decisero di costituire un coordinamento internazionale, comunemente noto come “Una Voce“, formalizzato a Zurigo l’8 gennaio 1967. La britannica Latin Mass Society, con il suo amore per il rito tridentino, occupò sin da subito un posto di grande rilievo tra i gruppi federati.
È testimonianza dello spirito vivace e intraprendente dell’associazione un primo appello inviato nel 1965 a Paolo VI in cui veniva denunciato come «la discontinuità rispetto all’uso della lingua latina nella santa messa» si sarebbe tradotta in una «grande privazione spirituale». Nel documento si implorava poi Montini di poter almeno «continuare a celebrare regolarmente la messa in latino» accanto al Novus Ordo in lingua volgare.La supplica non ottenne alcuna risposta e la riforma fu varata nella confusione generale, mostrando da subito le diverse falle in cui presto si inserì l’ulteriore “fumo di Satana” della creatività liturgica e dell’eterodossia.
Con l’introduzione del nuovo messale, onde evitare che le grandi tradizioni della Chiesa finissero nella discarica della storia come un mucchio d’inutile ferraglia, la Latin Mass Society, nella figura dello scrittore e poeta Alfred Marnau, decise di prendere nuovamente l’iniziativa. Occorreva questa volta rompere gli indugi con un’azione incisiva ed eclatante. Marnau propose quindi di inoltrare una petizione a Paolo VI. A differenza di tutte le richieste precedenti, puntualmente cadute nel vuoto, questa volta avrebbe dovuto essere sottoscritta anche da eminenti personalità della cultura, dell’arte, dello spettacolo e della politica, anche lontani dal cattolicesimo.
Elaborato il testo della richiesta e approvato il piano d’azione, agli inizi del 1971 Marnau, spinto dall’urgenza, in quasi tre settimane raccolse 57 firme tra cui quelle di personaggi del calibro di Graaham Greene, Herman Grisewood, Kathleen Raine, Cacil Day Lewis e, naturalmente, Agatha Christie il cui nome è stato successivamente associato all’indulto concesso dallo stesso Montini.
L’esito felice dell’iniziativa è però da attribuire alle doti diplomatiche dell’allora arcivescovo di Westminister, il cardinale John Carmel Heenan. Fu lui, nell’udienza del 29 ottobre del 1971, che convinse Paolo VI ad accogliere le richieste dei fedeli inglesi. C’è chi arrivò persino a sostenere che l’atteggiamento benevolo nei confronti dell’appello fu determinato dalla scoperta da parte di Montini della firma della Christie, di cui era un noto estimatore. Molto più verosimilmente, Paolo VI rimase favorevolmente colpito dagli argomenti del cardinale, tra l’altro suo stretto collaboratore. Heenan, anticipando ogni possibile obiezione, puntò soprattutto sulla recente canonizzazione dei Quaranta Martiri – morti per difendere la messa in latino – e, soprattutto, garantì che l’eventuale indulto non avrebbe prodotto alcuna frattura in senso alla Chiesa inglese. Montini si rese poi conto che quella richiesta non era la solita petizione promossa dai “nostalgici” della Latin Mass Society, ma un accorato appello che proveniva da quel mondo moderno che tanto gli stava a cuore e con il quale era così desideroso di dialogare.
La vicenda si concluse dunque positivamente. Il 5 novembre 1971 fu ufficialmente comunicata la decisione al cardinale Heenan: Paolo VI avrebbe concesso ai fedeli inglesi il tanto agognato indulto.
L’incredibile storia dell’iniziativa che portò a «salvare la messa tridentina in Inghilterra» è raccontata per la prima volta al pubblico italiano nel saggio L’indulto di Agatha Christie, frutto dalla prolifica penna di Gianfranco Amato, presidente nazionale dell’organizzazione “Giuristi per la Vita” e da tempo impegnato in prima linea nella lotta contro l’ideologia gender. Il libro, completo e interessante, si occupa non solo di ripercorrere le fasi della resistenza inglese al nuovo messale, ma anche e soprattutto di studiare le innovazioni conciliari. È proprio riguardo quest’ultimo punto, però, che il lavoro di Amato mostra le pecche più evidenti. Non convince, infatti, la teoria per cui il Concilio fu un evento positivo rovinato solo dalle interpretazioni tendenziose successivamente operate dai teologi progressisti; così, allo stesso modo, poco chiare appaiono le ragioni che sostennero l’opportunità di un indulto. In ultimo, lo spirito di “restaurazione ratzingeriana” che permea il libro – pubblicato per la prima volta nel marzo 2013 – al vaglio della storia mostra tutta la sua chimerica inconsistenza.
Al netto di questo, comunque, L’indulto di Agatha Christie merita di essere letto, quantomeno per riscoprire le origini storiche e le tappe che portarono una periferia della cattolicità, almeno per qualche tempo, a diventare un portastendardo della «tradizione vivente» della Chiesa. Là, nelle nebbiose brughiere inglesi, qualcuno custodiva ancora un barlume di quel mondo ritenuto ormai perduto in mezzo al fango del progressismo più folle e ideologico.
Il libro: G. AMATO, L’indulto di Agatha Christie. Come si è salvata la Messa Tridentina in Inghilterra, Verona, Fede & Cultura, 2013, pp. 220, prezzo 18 Euro.

lunedì 28 dicembre 2015

liturgia gay

VICOLO CIECO PER LA CHIESA TEDESCA, CHE STA DISCUTENDO UN RITO SPECIALE PER «SPOSARE» LE COPPIE LGBT



Germania, un vescovo cattolico c'è.
Il vescovo di Ratisbona, Rudolf Voderholzer, ha criticato duramente la Conferenza Episcopale tedesca per un volantino, distribuito quale settimana fa, in cui si afferma che una forma di teoria del genere non estremistica è “basilarmente compatibile con la fede cattolica”.



MARCO TOSATTI
19/12/2015
Il vescovo di Ratisbona, Rudolf Voderholzer, ha criticato duramente la Conferenza Episcopale tedesca per un volantino, distribuito quale settimana fa, in cui si afferma che una forma di teoria del genere non estremistica è “basilarmente compatibile con la fede cattolica”.  

Il presule cattolico celebrava la festa di S. Wolfgang, vescovo di Ratisbona da poco prima dell’anno Mille. Il ministero pastorale del vescovo, ha detto, “include il dovere e la responsabilità di agire come un guardiano, di alzare la sua voce, se necessario, per richiamare l’attenzione alle discrepanze o agli errori, per quanto ciò possa essere opportuno o inopportuno”.  

E ha aggiunto: “Di recente è sorta di nuovo questa necessità”. Voderholzer ha notato che la conferenza episcopale ha pubblicato un volantino in cui “era scritto che queste teorie sono basilarmente compaatibili con la fede cattolica, in contrasto con le forme estreme di gender mainstream, e rivendica di stare formulando la posizione cattolica su questo tema”. “Nella mia opinione, questo appare impossibile – in fine, non esiste qualche cosa che sia il ‘gender light’. Il concetto abbassa il ponte levatoio e apre i cancelli a posizioni irriconciliabili con la fede cristiana. E il volantino non solo manca di presentare la posizione cattolica, la lascia fuori completamente”. Fra l’altro il presule ha notato che il volantino “è stato diffuso a nome della Conferenza Episcopale, di cui sono membro, senza che io avessi visto in precedenza il contenuto e tanto meno senza averlo approvato”.  

Fra l’altro, il volantino si guarda bene dal menzionare per il lettore “il largo numero di dichiarazioni che riguardano le teorie del genere, anche se non ce n’è carenza”. Il presule ricorda che il Papa si è espresso in maniera critica almeno otto volte.  

Il volantino, dice il vescovo, sostiene che “le teorie di genere sono un importante contributo al servizio dell’uguaglianza di tutti gli uomini, mentre l’ostilità che tali teorie esprimono verso la creazione divina è attribuibile solo alle esagerazioni di una piccola minoranza”; ma afferma il vescovo, “la teoria del genere implica una negazione della natura di uomo e donna”. E ha concluso: “L’essenza dell’uomo e della donna è il potenziale di diventare un padre e il potenziale di divenatre una madre, rispettivamente. Questi non sono ruoli scambiabili”. 
Se questo accade nella Chiesa centralizzata e controllata da Roma, sarà interessante vedere che cosa succederà nella Chiesa decentralizzata del futuro.... 

UN RITO SPECIALE PER «SPOSARE» LE COPPIE LGBT



Nella diocesi di Limburg, in Germania, si sta discutendo di un rituale speciale per benedire le coppie omosessuali. Secondo un reportage della Frankfurter Allgemeine Zeitung il rettore dell’Istituto dei gesuiti per Filosofia e Teologia, padre Ansgar Wucherpfennig, avrebbe dichiarato di aver già benedetto l’unione di coppie omosessuali, come anche altri preti avrebbero fatto; ma non con una cerimonia pubblica.

E allo stesso tempo il Decano della Chiesa cattolica di Francoforte, Johannes zu Eltz, avrebbe “annunciato una prima discussione relativa a una benedizione della Chiesa e a una cerimonia per gli omosessuali”, che avrebbe definito “una questione di giustizia che non possiamo sopprimere”. Secondo il Decano “è importante trattare gli omosessuali con apertura e apprezzamento”. Padre Wucherpfennig ha dichiarato che “gli omosessuali hanno trovato il loro posto nella Chiesa, anche come membri critici”.  

Le dichiarazioni di padre Wucherpgennig, riprese da LifesiteNews , hanno suscitato un commento critico da parte di un noto blogger cattolico, Mathias von Gersdorff che ha rilevato che il gesuita “è noto er le sue stravaganti posizioni teologiche”. “Queste triste dichiarazioni dimostrano una volta di più come certi circoli ecclesiastici in Germania vogliono ignorare il Magistero cattolico e la pratica della Chiesa universale per entrare in un ‘Cammino speciale tedesco’. Da notare che il precedente vescovo di Limburg, Franz Peter von Tebartz-van Elst, di recente rimosso dalla sua diocesi, si è fortemente opposto alla benedizione di una coppia omosessuale fatta nel 2008 da sacerdote locale, Peter Kollas. 

domenica 27 dicembre 2015

Gaudete, gaudete! Christus est natus




Gaudete, gaudete! Christus est natus
Ex Maria virgine, gaudete! 
Rejoice, rejoice! Christ is born
Of the Virgin Mary — rejoice!

Tempus adest gratiæ
Hoc quod optabamus,
Carmina lætitiæ
Devote reddamus. 

The time of grace has come—
This that we have desired,
Verses of joy
Let us devoutly return.

Deus homo factus est
Natura mirante,
Mundus renovatus est
A Christo regnante. 

God has become man,
To the wonderment of Nature,
The world has been renewed
By the reigning Christ.

Ezechielis porta
Clausa pertransitur,
Unde lux est orta
Salus invenitur. 

The closed gate of Ezechiel
Is passed through,
Whence the light is born,
Salvation is found.

Ergo nostra contio
Psallat iam in lustro;
Benedicat Domino:
Salus Regi nostro. 

Therefore let our gathering
Now sing in brightness
Let it give praise to the Lord:
Greeting to our King.


dolcezza di natale




ego dilecto meo et dilectus meus mihi 

qui pascitur inter lili ...

sabato 26 dicembre 2015

Laetare nunc, sterilis,



Ingressa Ambrosiana, 

LAETARE NUNC STERILIS, " 

In Nativitate Domini, Ad Missam in Nocte Sancta

Laetare nunc, sterilis, quae sitiebas,
et exultet deserta :
et gaudete, solitudines Jordanis :
quia Dominus noster venit,
et redemit nos.

il papa è morto, la tomba di Pietro è vuota, Roma è distrutta


I primi cristiani di nuovo, 

non gli ultimi. 

Uno strano sogno alla Vigilia


:
:

12144786_437857639741531_1045654242895536113_nil Mastino

Qualcuno me lo ha fatto notare, io stesso ne sentivo una sorta di dovere morale: scrivere un quasi scalfariano “sermone” natalizio. Ma per dire cosa? Più che non aver nulla da raccontare, erano fin troppe le cose da narrare: da dove cominciare? Quali fatti selezionare? Come rielaborarli in modo incisivo? È allora che un pigro come me si arrende: i pigri parlano quando non c’è nulla da dire, non quando c’è troppo. Onde, mi sono arreso: non scrivo nulla.

Mi è rimasto impresso quando, ridendo, Antonio Socci mi domandò «stai prendendo nota di tutto? Occorre annotare ogni cosa: per un domani. Domani, quando tutto sarà passato, dovremo rendere testimonianza degli accadimenti paradossali di questi tempi, dei quali siamo stati testimoni, vittime, capri espiatori anche. Non ci si crederà, ma sarà bellissimo raccontarlo». Sperando ci sia rimasto qualcuno ad ascoltare.

Ma insomma, il fatto è che sto scrivendovi per dire che non ho nulla da dire, essendo troppe le cose che andrebbero dette. Ma quando le parole finiscono – essendo il numero delle parole inferiore al numero dei fatti, di questi tempi –iniziano i sogni.

12143144_1021073464638393_310290561974342240_n




















Già, perché di un sogno nella notte di questa Vigilia voglio brevemente 
narrarvi, sogno in senso letterale non metaforico, fatto onirico.

Qualcuno mi spiegava che i sogni sono di tre tipi: «Se il sogno è da attribuirsi al classico peccato sopra la cintola o gastrimargico, non ha significato, reminiscenze psicologiche. Se il sogno è confuso, turbato, è un incubo malefico. Se invece è limpido, chiaro e ben impresso, quasi a rivederlo, ha un senso. In questo caso ogni dettaglio ha valore, letterale o simbolico…».

Sono stato sino a tardi a leggere, il libro di Milly Gualteroni “Strappata all’abisso: dagli psicofarmaci alla fede”, consigliato da Messori – bello e terribile, ve ne dirò a suo tempo. Era già l’alba quando mi sono assopito, profondamente.
Ricordo che è stato prima di svegliarmi, e ho come l’impressione sia stato un sogno lunghissimo, pieno di accadimenti, dettagli, che non ho voglia di riportare alla mente e rievocare.
Vengo al fatto onirico.

134205232-3b0f0797-530d-4dac-809b-3633092be9c5Anche in questo sogno è la vigilia di Natale, è notte fonda, di un umido freddo: la messa “della comunità dei cristiani” – chissà perché penso questa formula nel sogno – si celebrerà a un’ora indeterminata della notte, in un posto che non è ancora chiaro. Mi aggiro per questo paese che riconosco essere meridionale, mi pare la città di Mesagne, presso Brindisi, è molto vecchia, non ha nulla di moderno è così come poteva apparire 100 anni fa, ma è piena di cattedrali gotiche, guglie, chiese romaniche, barocche, e sono tutte vuote, chiuse, spente.

La città è vuota, illuminata solo da flebili e sporadiche luci giallastre e celestine smerigliate dalla nebbia fluttuante. Sembra una città settecentesca dopo la peste, dove tutti sono scappati, ed è silenzio, desolazione, solitudine e morte. Eppure, paradossalmente – con amarezza lo noto – su alcune rarissime case sono accese delle lucine natalizie.

Giunge alle mie spalle un cardinale, giovane, molto giovane e nero, che sembra conoscermi bene, è vestito come me, da laico, infagottato tra i piumini, le sciarpe, i cappelli di lana. Mi prende sotto braccio, quasi a sedare i brividi di freddo.
«Laddove vedi delle lucine natalizie sulle porte, lì abitano ancora dei cristiani, ma non deve sapere nessuno del significato: è per riconoscerci tra di noi», dice il cardinale nero. Camminiamo, camminiamo in questa città desolata, soli, in cerca di qualcosa, di una meta, di un segno che ci indichi che l’abbiamo raggiunta.

Stiamo cercando una chiesa in particolare, tra tutte quelle, non ne conosciamo il nome, ma avrà delle lucine natalizie accese su una finestrella in cima a un campanile le cui campane, come per le altre chiese, sono state staccate e fuse. Dopo un breve peregrinare la troviamo, è una chiesa tipicamente meridionale, settecentesca, sobria, sulla facciata le statue degli apostoli Pietro e Paolo.

Ci accostiamo di soppiatto, come clandestini. Spunta fuori qualcuno dall’ombra e ci stringiamo spaventati col cardinale: «Non vi spaventate» sussurra quello «sono un cristiano: vi attendevamo».

All’improvviso mi rendo conto che in questo panorama desertificato e silente, non sono triste, ma sprizzo gioia da tutte le parti, persino i brividi di paura si fanno vibrazioni positive. Questo fare da braccati, quest’atmosfera di proibito, questa sensazione di essere eversivi, mi eccita. Ma perché c’è quest’aria? Ancora non ne sono del tutto consapevole, nel sogno.

L’omino ci fa strada nel buio, ci porta alle spalle della chiesa e ci apre una porticina che affonda nell’asfalto. «Qui la chiamiamo grotta, è sotto la chiesa, ci riuniamo lì, sono tutti lì: vi aspettano» sussurra pianissimo, come qualcuno potesse sentirci.

Ci curviamo e scendiamo, ho un sentore di cera che brucia nel mentre. Quando all’improvviso sento un’aria tellurica, calda e fresca insieme che mi carezza il volto: mi trovo dinanzi a un’amplissima antica sala rupestre, risalente ai primi secoli so, placcata di maioliche lise e lustre opera di monaci basiliani dell’epoca. E illuminata da centinaia di candele, solo candele, ciascuno ne porta una.

ul«Mastino… Mastino… è il Mastino, è vivo», sento dire a destra e manca. E lo pronunciano come un gran sollievo, sono quasi rassicurati dalla mia presenza. Mi si accostano, mi sento abbracciare forte, prendono le mie mani, è tutta gente che sta aspettandosi qualcosa di grosso da me. Man mano che mi si avvicinano, alla luce della candela che portano, distinguo tanti volti sconosciuti e soprattutto conosciuti: sono cattolici, amici cattolici del mio facebook, gente che ho conosciuto tramite i miei scritti, che interagisce con me su internet e anche fuori.

«I vecchi, dove sono i vecchi?» chiedo a tutti questi presenti, giovani tutti quanti: «Sono morti, Mastino, sono stati i primi ad essere abbattuti: siamo rimasti solo noi perché potevamo correre e nasconderci».

Sento i loro cuori, che battono all’unisono nel silenzio e poi dico a tutti “Ascolto il vostro cuore”. E loro tacciono e danno voce solo al battito cardiaco che mi trasmette il suo messaggio unanime. Osservo i loro sguardi: hanno la stessa espressione di quando, in tempi senza cellulare, ti perdevi in una città sconosciuta e lontana, e ti sembrava di affogare nell’angoscia e nel panico, e dopo tanto penare e vagare d’improvviso ti imbattevi, come una grazia celeste, nel volto di uno che conoscevi. Un amico di antica data. Ecco, questo sento nei loro sguardi che mi puntano: cercano la speranza.

«Mastino, che notizie porti da Roma?» mi domandano in coro, in un moto di angoscia collettiva. «Roma è distrutta, il papa è morto, la tomba di Pietro è vuota». Sento pianti sommessi nella folla. E adesso cosa succede?, mi chiedono smarriti. Il giovane cardinale nero che nessuno sembra conoscere, fa un gesto come a dire, “non ti esporre tu, adesso parlo io”.
«Ora succederà come successe all’inizio e tante volte è successo: festeggeremo il santo natale dei cristiani in questa grotta segreta, finalmente tra di noi, solo noi suoi seguaci di Lui: siamo rimasti in pochi». Qualcuno posa ai suoi piedi una casula ricavata da una tovaglia, delle suppellettili “sacre” ricavate in qualche cucina, compreso del vino e dei pezzi di pane un po’ flosci e schiacciati a mano.

Tutti gli sguardi – sto vedendo solo gli occhi, nella penombra – si spostano dal cardinale su di me: «Siamo i primi cristiani un’altra volta, non gli ultimi: come diceva Tertulliano il nostro sangue è semenza, e ci moltiplicheremo. Questa è una catacomba, sopra e sotto di noi ci sono morti. Pietro non muore, ed è qui», indico il cardinale, Habemus Papam! «Ora con gioia celebreremo questa nostra natività!». Una grande euforia si propala nell’aula catacombale, la gioia esplode, ci sentiamo tutti una famiglia davvero, come i primi apostoli, è bellissimo essere cristiani clandestini, delle catacombe, solo noi, e siamo tutti quanti: c’è l’entusiasmo di quando si deve cominciare insieme a creare una grande cosa con lo spirito dei pionieri. Ci facciamo battute l’un l’altro sul fatto che se mettiamo la testa fuori può darsi ce la tagliano, che se ci beccano ci fanno la pelle a tutti. Ma la gioia non si spegne, anzi si fa ilarità: persino della morte si ride, a crepapelle. Siamo i primi di nuovo, non gli ultimi.
Il cardinale che ormai è Pietro siede a capotavola e noi tutti intorno, a condividere la mensa e la sorte di Cristo.

Ci addormentiamo tutti felici nella navata della chiesa superiore, svuotata di tutto, ogni altare divelto, senza più immagini sante, il sancta sanctorum violato, pieni di fervore, invasati di Spirito, e contenti all’idea che bisognerà staccarsi in gruppi e fondare ovunque piccole chiese domestiche. Nella certezza che domani si sarebbero fatte di nuovo cattedrali. E la vita sarebbe tornata nella città. Così come Pietro nella nuova Roma.
A questo punto mi sveglio. Sereno.

Svegliandomi mi sono ricordato di quanto sulla mia pagina facebook avevo scritto nel giorno dell’Immacolata, vedendo le immagini di una chiesa immersa nel buio, dove si celebra a lume di candela, nella notte, nel cuore di New York, e scrissi:

Una chiesa nella notte: la catacomba metropolitana

Una chiesa nella notte:
la catacomba metropolitana
E non ero avvilito, guardando quelle immagini crepuscolari, ma pieno di eccitazione: pensate l’entusiasmo, il calore di alcuni cristiani redivivi banditi dalle nazioni della terra che debbono incontrarsi come ladri nella notte, riunirsi a lume di candela nelle viscere della terra da clandestini, e tutti insieme così poveri, soli e perseguitati cantare la gloria di Dio e la gioia di essere cristiani, nella certezza comunque del trionfo finale. Sentendosi, quei superstiti, per la prima volta davvero fratelli in Cristo, nella “sventura” che unisce, nasce l’amicizia e un’allenza tra uomini perfettamente liberi e perfettamente soli.

Le catacombe non sono una disgrazia, sono invece il luogo della grazia: dove davvero tutto si dà a Cristo, ed essendo rimasti senza più nulla in mano, Gesù ti restituisce la gioia in terra e mette da parte un tesoro per te in cielo.

IO NON HO PAURA, non delle catacombe: ci si divertirebbe un casino. E ci si salverebbe gioendo e piangendo. Ho paura delle demogogie e della chiesa predicata dai sermoni di Scalfari e dai vescovi tedeschi: sazia e indifferente, borghese, burocratica, conformista, populista e senz’anima. Piena di paura e triste: perduta in questo mondo e nell’altro.

Mentre contemplavo e pensavo tutto questo, la Basilica dell’Apostolo era sommersa dalle abbaglianti oscene luci del mondo alla rovescia, mentre, quella chiesa borghese e populista, gli apriva oltre che le braccia le gambe.