DOVE VA LA CHIESA?
Sono
lividi di rabbia perche in 50 anni di pastorale e liturgia come
"dio
comanda" non hanno quagliato niente!!!! È cecano l'untore...
su cui scaricare la colpa
Paolo Cugini
Si percepiscono in modo quasi
palpabile, oggi più che mai, due stili di essere Chiesa che non solo sono
diversi, ma agli antipodi, contrastanti.
Da una parte c’è la Chiesa che
lentamente si è plasmata nei secoli andando a braccetto con il potere, con il
Sacro Romano Impero. Secoli di questa squallida storia hanno lasciato il segno
non solo nell’arte, ma anche nei modi, nello stile o meglio, in un certo modo
d’intendere l’essere Chiesa. È lo stile fatto di arroganza e presunzione, che
ritiene lo spazio del potere come assoluto e da gestire in modo verticistico,
dall’alto in basso. Nessun ascolto della base, di quel Popolo di Dio tanto
decantato dal Concilio Vaticano II. La distanza dal Popolo è ciò che non
permette a questa chiesa autoritaria di camminare al passo dei tempi. Per
questo si ritrova costantemente in affanno, con la lingua fuori ed il fiatone
corto sulle esigenze che si presentano nella quotidianità. Vivendo nei palazzi
dorati, protetta da quel mondo che la vorrebbe invece inserita, non percepisce
il senso della realtà, i problemi concreti della gente. Nascondendosi dietro
liturgie sfarzose e pompose, fatte di orpelli più che di sostanza, retaggio di
quell’impero ormai scomparso, ma che non si vuole lasciare alle spalle, la
Chiesa del potere non riesce a conciliare la fede con quella vita che non vede
e non percepisce. Proprio la liturgia è la cartina di tornasole della distanza
che separa questo stile di Chiesa dal Popolo di Dio e, soprattutto, ne rivela l’essenza
autoritaria. C’è tutto un apparato liturgico elaborato nel tempo che ha come
obiettivo quello di creare distanza tra gli addetti ai lavori e il Popolo di
Dio, tra chi celebra e chi assiste.
Questo tipo di liturgia pomposa e antistorica,
proietta una visione del sacro che è retaggio della concezione
veterotestamentaria come realtà distinta e separata dal profano. A dire il vero,
più che provenire dall’Antico Testamento, questo modo d’intendere il divino
proviene dalla filosofia greca, dal dio aristotelico, pensiero di pensiero,
motore immobile, il dio concepito così totalmente altro dall’uomo, che non può
permettersi di pensare all’essere umano perché infinitamente inferiore a dio.
Di un dio così, un dio che non può amare l’uomo perché può solo amare sé
stesso, non ci si può aspettare granché di buono per la società e per il mondo
in generale. Ebbene, c’è tutto uno stile di Chiesa, che riproduce esattamente
questo modello di divino totalmente altro, che pensa che Dio dev’essere difeso
dalle sembianze umane, dev’essere protetto da qualsiasi contatto con l’umano,
per non essere confuso. I sacerdoti, in questa prospettiva, essendo coloro che
per grazia divina vengono a contatto con il sacro, sono loro stessi separati
dal resto degli uomini e delle donne, e sono chiamati a riprodurre liturgie
nelle quali il divino totalmente altro viene presentato in tutta la sua
magnificenza. Per questo motivo, la concezione totalmente altro o, per dirla
con
Rudolf Otto, il Tremendum, esige un tipo di liturgia che esprima questa
distanza e, allo stesso tempo, un apparato sacerdotale in cui sia visibile la
diversità rispetto al popolo, diversità causata dall’acceso alla sfera del
sacro.
Che cosa c’entri questa visione del
sacro, questo modo di vivere la liturgia, questa percezione ideologizzata del
sacerdozio con la manifestazione più alta del sacro che si è realizzata in Gesù
Cristo, è quello che ci sforziamo di capire in queste poche righe. Che cosa c’entra
il dio di Aristotele con l’incarnazione del Verbo? Perché i difensori della
divinità totalmente trascendente continuano ad arrampicarsi sugli specchi,
nonostante si professino cristiani? Ci sono delle precomprensioni così
profondamente conficcate nella coscienza, che non permettono di cogliere
l’evidenza della manifestazione della realtà. È un po' quello che succedeva nei
primi secoli in alcuni padri della Chiesa, che continuavano a sostenere le
teorie platoniche sulla creazione del mondo, mantenendo invariata la teoria
della preesistenza al demiurgo delle idee e della materia informe, nonostante
commentassero il testo della Genesi che parla della creazione dal nulla di
tutte le cose. È difficile spezzare la durezza delle precomprensioni. Forse è
questo il maggior insegnamento della scuola fenomenologica: è possibile
ascoltare l’evento nella sua manifestazione presente, solamente mettendo da
parte (epoché) tutto ciò che può precludere la percezione del dato fenomenico.
Non a caso, molti cultori della ricerca fenomenologica si sono convertiti al
cristianesimo (un esempio su tutti Edith Stein). Ascoltando il presente,
mettendosi in ascolto della realtà che si manifesta nel punto di passaggio del
tempo presente, è possibile percepire la presenza del Risorto, incontrarlo,
ascoltarlo.
La perdita dei dati patristici, con
la ricchezza della mistagogia imbevuta di Sacra Scrittura, avvenuta nel V
secolo d.C. a causa delle invasioni barbariche, ha prodotto il successivo
imbarbarimento della spiritualità Occidentale, con tutte le conseguenze del
caso. Già nel IX secolo questo processo è ben visibile nella liturgia. Amalario
di Metz, vescovo di Lione e riformatore della liturgia franca
incaricato dallo stesso Papa Gregorio IV, pensa ed elabora una liturgia nella
quale ogni elemento dell’ultima cena e della successiva morte di Gesù, sia visibile
nel contesto liturgico. Si passa, così, dal significato tipologico, tipico
della mistagogia patristica, al fisicismo dei segni liturgici. Si cerca sempre
di più il massimo della visibilità fisica e materiale nella liturgia e sempre
meno lo sforzo di cogliere il significato profondo dei segni. A partire da
questo momento, la liturgia diviene sempre di più qualcosa di spettacolare e i
sacerdoti coloro che hanno il privilegio di accedere al sacro in virtù dei
poteri ricevuti. Il presbitero, sorto nel periodo del ministero paolino come
esigenza per la guida della comunità e a servizio della stessa, subisce lo
svuotamento culturale e spirituale del tempo e, soprattutto il suo
imbarbarimento, trasformandosi in una funzione legata più al prestigio del
potere che al servizio di una comunità. La riesumazione del concetto di
sacerdozio dice abbastanza bene di questa trasformazione deformante. L’accentuazione delle pratiche devozionali
avvenuta durante tutto il medioevo e incentivata nell’epoca moderna, a scapito della
riflessione biblica, hanno fatto il resto.
Anche il percorso che l’idea di
papato e della gestione del potere ecclesiale ha realizzato nel corso dei
secoli, ha lasciato un segno indelebile nel cammino della Chiesa e nella
percezione che dall’esterno si ha di essa. Il Dictatus papae di Gregorio VII,
anche questo del IX secolo, è senza dubbio il punto di svolta di quel percorso
che ha fatto del Papa un’autorità assoluta, superiore a qualsiasi potere
politico e, di conseguenza, allontanandosi di molto dal significato evangelico.
Percorso che, come sappiamo, ha visto l’apice parossistico nella dichiarazione
dell’infallibilità del Papa in campo di fede nel Concilio Vaticano I.
Leggendo
attraverso i documenti ufficiali e la documentazione arrivata sino ai nostri
giorni, ci si rende conto del cammino che la Chiesa ha compiuto lungo i secoli,
cammino pieno di contraddizioni e di poche luci. Cammino realizzato provocando
una distanza sempre maggiore tra un élite – la famigerata gerarchia – e il
popolo di fedeli. Questa distanza si è accentuata anche nella contrapposizione
tra clero e laici, tra coloro che con il tempo vengono sempre di più ad
identificarsi con la Chiesa, e il resto dei fedeli che permangono in un perenne
stato di sudditanza. Nella Chiesa che si costruisce a suon di decreti e
documenti, molo distante dallo spirito del Vangelo, colpisce la scarsa
rilevanza che viene attribuita al laicato. È come se ci fossero due Chiese che
nel tempo, pur partendo dallo stesso principio evangelico di uguaglianza, si
distanziano sempre di più l’una dall’altra. Per chi gestisce il potere e si
sente di farlo per mandato divino, i laici non hanno alcun diritto di parola non
solo nelle decisioni importanti, ma anche nelle decisioni della vita quotidiana
della comunità.
Poi, finalmente, c’è stato il
Concilio Vaticano II, che ha riportato nel dibattitto ecclesiale temi che
sembravano lontani nel tempo e ormai desueti. È stata proposta l’idea della
Chiesa come Popolo di Dio, recuperando immagini bibliche che dicono del cammino
del Padre con il suo Popolo. Come sappiamo, il Capitolo della Chiesa Popolo di
Dio è stato posto nella Lumen Gentium
prima dei capitoli sulla gerarchia e sul laicato, per indicare la sostanziale uguaglianza tra tutti
i battezzati.
“Nessuna ineguaglianza quindi in Cristo e nella Chiesa per riguardo alla
stirpe o nazione, alla condizione sociale o al sesso, poiché non c'è né Giudeo
né Gentile, non c'è né schiavo né libero, non c'è né uomo né donna: tutti voi
siete uno in Cristo Gesù» (LG 32).
Sempre nel numero 32 della Lumen Gentium il testo ribadisce lo stesso concetto
affermando: “Quantunque alcuni per
volontà di Cristo siano costituiti dottori, dispensatori dei misteri e pastori
per gli altri, tuttavia vige fra tutti una vera uguaglianza riguardo alla
dignità e all'azione comune a tutti i fedeli nell'edificare il corpo di Cristo”.
Certamente
uguaglianza non significa uniformità, ma è comunque significativo lo sforzo che
il Concilio ha fatto per riportare al centro del dibattito ecclesiale il tema
dell’uguaglianza dei fedeli uniti dallo stesso battesimo. Anche il dibattito
sulla Chiesa come Corpo mistico, che ha preceduto e accompagnato il dibattito
conciliare, assume una valenza nuova in rapporto al tema della Chiesa come
Popolo di Dio.
Sostiene infatti Frosini che:
“Anche
nella
triade
privilegiata
fra
le
diverse
immagini
della
Chiesa
(popolo
di
Dio,
corpo
di
Cristo,tempio
dello
Spirito
Santo),
precede
il
concetto
di
popolo,
non
soltanto
per
un
motivo
di carattere trinitario,
ma
anche
perché
il
corpo
mette
in
luce
la
diversità
delle
membra,
della
quale
si
parla
soltanto
dopo
aver
assicurato
la
sostanziale
uguaglianza
fra
tutti
i
battezzati”.
Era troppo bello per essere vero! Thomas Kuhn
ce lo ha insegnato che le strutture mentali e culturali, come esigono secoli
per formarsi e imporsi, esigono anche molto tempo per essere sostituite dalle
nuove. Così è stato per l’ecclesiologia del Popolo di Dio proposta dal Concilio
Vaticano II, assimilata dal cammino della Chiesa Latinoamericana e assai poco
nella Chiesa Occidentale. Ce lo ha ricordato il teologo belga José Comblin nel suo libro Il popolo di
Dio (2002) nel quale esprimeva tutta la sua amarezza per quello che era avvenuto
durante il sinodo dei Vescovi a Roma nel 1985. Fu infatti, durante questo
Sinodo che il concetto di Popolo di Dio, così significativo nel cammino del
Concilio Vaticano II, venne sostituito con quello di comunione.
“Le critiche al Vaticano II – scriveva
José Comblin -condussero infine il Sinodo
del 1985 semplicemente ad eliminare il concetto di “popolo di Dio”,
sostituendolo con il concetto di comunione, come se questo avesse la medesima
risonanza e come se i due fossero alternativi. La conseguenza fu immediata,
anche se non sappiamo se fu intenzionale o non. I poveri scomparvero dagli
orizzonti della Chiesa: per lo meno la concezione della Chiesa dei poveri di
Giovanni XXIII, di Medellin e Puebla”.
https://regiron.blogspot.it/2017/03/dove-va-la-chiesa.html?m=1
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