domenica 12 marzo 2017

la chiesa in delirio

DOVE VA LA CHIESA?

Sono lividi di rabbia perche in 50 anni di pastorale e liturgia come
 
 "dio comanda" non hanno quagliato niente!!!! È cecano l'untore...
 
su cui scaricare la colpa

  
Paolo Cugini
Si percepiscono in modo quasi palpabile, oggi più che mai, due stili di essere Chiesa che non solo sono diversi, ma agli antipodi, contrastanti.

Da una parte c’è la Chiesa che lentamente si è plasmata nei secoli andando a braccetto con il potere, con il Sacro Romano Impero. Secoli di questa squallida storia hanno lasciato il segno non solo nell’arte, ma anche nei modi, nello stile o meglio, in un certo modo d’intendere l’essere Chiesa. È lo stile fatto di arroganza e presunzione, che ritiene lo spazio del potere come assoluto e da gestire in modo verticistico, dall’alto in basso. Nessun ascolto della base, di quel Popolo di Dio tanto decantato dal Concilio Vaticano II. La distanza dal Popolo è ciò che non permette a questa chiesa autoritaria di camminare al passo dei tempi. Per questo si ritrova costantemente in affanno, con la lingua fuori ed il fiatone corto sulle esigenze che si presentano nella quotidianità. Vivendo nei palazzi dorati, protetta da quel mondo che la vorrebbe invece inserita, non percepisce il senso della realtà, i problemi concreti della gente. Nascondendosi dietro liturgie sfarzose e pompose, fatte di orpelli più che di sostanza, retaggio di quell’impero ormai scomparso, ma che non si vuole lasciare alle spalle, la Chiesa del potere non riesce a conciliare la fede con quella vita che non vede e non percepisce. Proprio la liturgia è la cartina di tornasole della distanza che separa questo stile di Chiesa dal Popolo di Dio e, soprattutto, ne rivela l’essenza autoritaria. C’è tutto un apparato liturgico elaborato nel tempo che ha come obiettivo quello di creare distanza tra gli addetti ai lavori e il Popolo di Dio, tra chi celebra e chi assiste.

 Questo tipo di liturgia pomposa e antistorica, proietta una visione del sacro che è retaggio della concezione veterotestamentaria come realtà distinta e separata dal profano. A dire il vero, più che provenire dall’Antico Testamento, questo modo d’intendere il divino proviene dalla filosofia greca, dal dio aristotelico, pensiero di pensiero, motore immobile, il dio concepito così totalmente altro dall’uomo, che non può permettersi di pensare all’essere umano perché infinitamente inferiore a dio. Di un dio così, un dio che non può amare l’uomo perché può solo amare sé stesso, non ci si può aspettare granché di buono per la società e per il mondo in generale. Ebbene, c’è tutto uno stile di Chiesa, che riproduce esattamente questo modello di divino totalmente altro, che pensa che Dio dev’essere difeso dalle sembianze umane, dev’essere protetto da qualsiasi contatto con l’umano, per non essere confuso. I sacerdoti, in questa prospettiva, essendo coloro che per grazia divina vengono a contatto con il sacro, sono loro stessi separati dal resto degli uomini e delle donne, e sono chiamati a riprodurre liturgie nelle quali il divino totalmente altro viene presentato in tutta la sua magnificenza. Per questo motivo, la concezione totalmente altro o, per dirla con Rudolf Otto, il Tremendum, esige un tipo di liturgia che esprima questa distanza e, allo stesso tempo, un apparato sacerdotale in cui sia visibile la diversità rispetto al popolo, diversità causata dall’acceso alla sfera del sacro.

Che cosa c’entri questa visione del sacro, questo modo di vivere la liturgia, questa percezione ideologizzata del sacerdozio con la manifestazione più alta del sacro che si è realizzata in Gesù Cristo, è quello che ci sforziamo di capire in queste poche righe. Che cosa c’entra il dio di Aristotele con l’incarnazione del Verbo? Perché i difensori della divinità totalmente trascendente continuano ad arrampicarsi sugli specchi, nonostante si professino cristiani? Ci sono delle precomprensioni così profondamente conficcate nella coscienza, che non permettono di cogliere l’evidenza della manifestazione della realtà. È un po' quello che succedeva nei primi secoli in alcuni padri della Chiesa, che continuavano a sostenere le teorie platoniche sulla creazione del mondo, mantenendo invariata la teoria della preesistenza al demiurgo delle idee e della materia informe, nonostante commentassero il testo della Genesi che parla della creazione dal nulla di tutte le cose. È difficile spezzare la durezza delle precomprensioni. Forse è questo il maggior insegnamento della scuola fenomenologica: è possibile ascoltare l’evento nella sua manifestazione presente, solamente mettendo da parte (epoché) tutto ciò che può precludere la percezione del dato fenomenico. Non a caso, molti cultori della ricerca fenomenologica si sono convertiti al cristianesimo (un esempio su tutti Edith Stein). Ascoltando il presente, mettendosi in ascolto della realtà che si manifesta nel punto di passaggio del tempo presente, è possibile percepire la presenza del Risorto, incontrarlo, ascoltarlo.

La perdita dei dati patristici, con la ricchezza della mistagogia imbevuta di Sacra Scrittura, avvenuta nel V secolo d.C. a causa delle invasioni barbariche, ha prodotto il successivo imbarbarimento della spiritualità Occidentale, con tutte le conseguenze del caso. Già nel IX secolo questo processo è ben visibile nella liturgia. Amalario di Metz, vescovo di Lione e riformatore della liturgia franca incaricato dallo stesso Papa Gregorio IV, pensa ed elabora una liturgia nella quale ogni elemento dell’ultima cena e della successiva morte di Gesù, sia visibile nel contesto liturgico. Si passa, così, dal significato tipologico, tipico della mistagogia patristica, al fisicismo dei segni liturgici. Si cerca sempre di più il massimo della visibilità fisica e materiale nella liturgia e sempre meno lo sforzo di cogliere il significato profondo dei segni. A partire da questo momento, la liturgia diviene sempre di più qualcosa di spettacolare e i sacerdoti coloro che hanno il privilegio di accedere al sacro in virtù dei poteri ricevuti. Il presbitero, sorto nel periodo del ministero paolino come esigenza per la guida della comunità e a servizio della stessa, subisce lo svuotamento culturale e spirituale del tempo e, soprattutto il suo imbarbarimento, trasformandosi in una funzione legata più al prestigio del potere che al servizio di una comunità. La riesumazione del concetto di sacerdozio dice abbastanza bene di questa trasformazione deformante.  L’accentuazione delle pratiche devozionali avvenuta durante tutto il medioevo e incentivata nell’epoca moderna, a scapito della riflessione biblica, hanno fatto il resto.
Anche il percorso che l’idea di papato e della gestione del potere ecclesiale ha realizzato nel corso dei secoli, ha lasciato un segno indelebile nel cammino della Chiesa e nella percezione che dall’esterno si ha di essa. Il Dictatus papae di Gregorio VII, anche questo del IX secolo, è senza dubbio il punto di svolta di quel percorso che ha fatto del Papa un’autorità assoluta, superiore a qualsiasi potere politico e, di conseguenza, allontanandosi di molto dal significato evangelico. Percorso che, come sappiamo, ha visto l’apice parossistico nella dichiarazione dell’infallibilità del Papa in campo di fede nel Concilio Vaticano I. 

Leggendo attraverso i documenti ufficiali e la documentazione arrivata sino ai nostri giorni, ci si rende conto del cammino che la Chiesa ha compiuto lungo i secoli, cammino pieno di contraddizioni e di poche luci. Cammino realizzato provocando una distanza sempre maggiore tra un élite – la famigerata gerarchia – e il popolo di fedeli. Questa distanza si è accentuata anche nella contrapposizione tra clero e laici, tra coloro che con il tempo vengono sempre di più ad identificarsi con la Chiesa, e il resto dei fedeli che permangono in un perenne stato di sudditanza. Nella Chiesa che si costruisce a suon di decreti e documenti, molo distante dallo spirito del Vangelo, colpisce la scarsa rilevanza che viene attribuita al laicato. È come se ci fossero due Chiese che nel tempo, pur partendo dallo stesso principio evangelico di uguaglianza, si distanziano sempre di più l’una dall’altra. Per chi gestisce il potere e si sente di farlo per mandato divino, i laici non hanno alcun diritto di parola non solo nelle decisioni importanti, ma anche nelle decisioni della vita quotidiana della comunità.
Poi, finalmente, c’è stato il Concilio Vaticano II, che ha riportato nel dibattitto ecclesiale temi che sembravano lontani nel tempo e ormai desueti. È stata proposta l’idea della Chiesa come Popolo di Dio, recuperando immagini bibliche che dicono del cammino del Padre con il suo Popolo. Come sappiamo, il Capitolo della Chiesa Popolo di Dio è stato posto nella Lumen Gentium prima dei capitoli sulla gerarchia e sul laicato, per indicare la sostanziale uguaglianza tra tutti i battezzati. 
Nessuna ineguaglianza quindi in Cristo e nella Chiesa per riguardo alla stirpe o nazione, alla condizione sociale o al sesso, poiché non c'è né Giudeo né Gentile, non c'è né schiavo né libero, non c'è né uomo né donna: tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (LG 32).

 Sempre nel numero 32 della Lumen Gentium il testo ribadisce lo stesso concetto affermando: “Quantunque alcuni per volontà di Cristo siano costituiti dottori, dispensatori dei misteri e pastori per gli altri, tuttavia vige fra tutti una vera uguaglianza riguardo alla dignità e all'azione comune a tutti i fedeli nell'edificare il corpo di Cristo”. 

Certamente uguaglianza non significa uniformità, ma è comunque significativo lo sforzo che il Concilio ha fatto per riportare al centro del dibattito ecclesiale il tema dell’uguaglianza dei fedeli uniti dallo stesso battesimo. Anche il dibattito sulla Chiesa come Corpo mistico, che ha preceduto e accompagnato il dibattito conciliare, assume una valenza nuova in rapporto al tema della Chiesa come Popolo di Dio. 
Sostiene infatti Frosini che: 
“AnchenellatriadeprivilegiatafralediverseimmaginidellaChiesa(popolodiDio,corpodiCristo,tempiodelloSpiritoSanto),precedeilconcettodipopolo,nonsoltantoperunmotivodi carattere trinitario,maancheperchéilcorpometteinluceladiversitàdellemembra,dellaqualesiparla soltantodopoaverassicuratolasostanzialeuguaglianzafratuttiibattezzati”.

 Era troppo bello per essere vero! Thomas Kuhn ce lo ha insegnato che le strutture mentali e culturali, come esigono secoli per formarsi e imporsi, esigono anche molto tempo per essere sostituite dalle nuove. Così è stato per l’ecclesiologia del Popolo di Dio proposta dal Concilio Vaticano II, assimilata dal cammino della Chiesa Latinoamericana e assai poco nella Chiesa Occidentale. Ce lo ha ricordato il teologo belga José Comblin nel suo libro Il popolo di Dio (2002) nel quale esprimeva tutta la sua amarezza per quello che era avvenuto durante il sinodo dei Vescovi a Roma nel 1985. Fu infatti, durante questo Sinodo che il concetto di Popolo di Dio, così significativo nel cammino del Concilio Vaticano II, venne sostituito con quello di comunione.

 “Le critiche al Vaticano II – scriveva José Comblin -condussero infine il Sinodo del 1985 semplicemente ad eliminare il concetto di “popolo di Dio”, sostituendolo con il concetto di comunione, come se questo avesse la medesima risonanza e come se i due fossero alternativi. La conseguenza fu immediata, anche se non sappiamo se fu intenzionale o non. I poveri scomparvero dagli orizzonti della Chiesa: per lo meno la concezione della Chiesa dei poveri di Giovanni XXIII, di Medellin e Puebla”.

È alla luce di queste considerazioni che va valorizzato giorno dopo giorno lo sforzo che Papa Francesco sta facendo di riportare il dibattito ecclesiale al centro del Vangelo, recuperando i grandi temi del dibattito conciliare, troppo presto messi nel cassetto per paura del cambiamento. 

https://regiron.blogspot.it/2017/03/dove-va-la-chiesa.html?m=1

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