“Credo la Chiesa una e santa” - Robert card. Sarah
Come già annunciato qui, la sera del 15/03/2017, il Card. Robert Sarah è intervenuto a Trieste, nella Cattedrale di San Giusto martire, sul tema “Credo la Chiesa una e santa” per la serie di incontri della “Cattedra di San Giusto per il tempo di Quaresima 2017”. Ne riprendiamo il testo dalla trascrizione sul sito della diocesi a cura del Vescovo di Trieste, mons. Giampaolo Crepaldi.
Cattedra di San Giusto - Cattedrale di San Giusto martire in Trieste, 15 marzo 2017
“Credo la Chiesa una e santa”
Robert card. Sarah
Queste due espressioni – “crediamo” e “credo” – non si oppongono, anzi
si integrano a vicenda ed esprimono due importanti aspetti della fede
cattolica. Non c’è o l’“Io credo” oppure il “Noi crediamo”; non c’è
opposizione tra la dimensione personale e quella comunitaria della fede.
Per questo, il Catechismo della Chiesa Cattolica intitola la sua
Prima Sezione esattamente così: «“Io credo” – “Noi crediamo”». E nel
capitolo terzo di tale Sezione, intitolato «La risposta dell’uomo a
Dio», il Catechismo dedica diverse pagine a spiegare la relazione,
all’interno dell’atto di fede, tra l’aspetto personale e quello
ecclesiale. Rimandandovi alla rilettura personale di quelle pagine del
Catechismo, strumento imprescindibile per la formazione cattolica, qui
mi limito a ricordare che l’atto di fede si inserisce sempre nella
Chiesa e non può mai essere individualistico. Noi crediamo in Dio;
ognuno di noi crede personalmente e non può delegare ad altri l’atto di
fede. D’altro canto, noi crediamo la fede della Chiesa, come diciamo nel
Rito del Battesimo: «Questa è la nostra fede, questa è la fede della
Chiesa, e noi ci gloriamo di professarla». Come si vede, il Rito
battesimale non oppone la nostra fede a quella della Chiesa: si tratta
dell’unica fede, della stessa fede. E infatti, chiunque crede, lo fa per
la mediazione molto concreta e visibile della Chiesa, che custodisce e
trasmette la fede. Ciò che noi crediamo proviene dagli Apostoli – questo
è certo. Ma in concreto chi ce lo ha insegnato? Innanzitutto la mamma
ed il papà, i nonni, il parroco, i catechisti e così via. La mia fede è
la fede che mi è stata offerta dalla Chiesa, la quale con l’aiuto dello
Spirito Santo la custodisce e tramanda perfettamente intatta per tutti i
secoli.
Con queste prime riflessioni siamo di fatto già entrati in ambito
ecclesiologico, a partire dal tema del credere, dal tema della fede. Ma
c’è un secondo aspetto previo cui desidero fare cenno, sempre collegato
con la parola “Credo”, anzi più precisamente con le prime parole: “Credo
la Chiesa”. Nel dirle, noi cattolici affermiamo che la Chiesa è un
mistero della fede. Se la Chiesa fosse una realtà puramente umana,
appartenente al mero ordine naturale e sociale, non potremmo dire “Credo
la Chiesa”; dovremmo limitarci ad espressioni di tenore più modesto,
come per esempio “Constato che la Chiesa esiste”, o “Vedo che la Chiesa
compie certe opere”… In altre parole, saremmo nel campo puramente
fenomenico e non nel mondo soprannaturale dei misteri rivelati, i quali
sono conosciuti, anzi “riconosciuti” solo dalla fede che si basa
sull’autorità di Dio che rivela, e non sono oggetto di mera osservazione
né rappresentano la conclusione cui giunge mediante ragionamenti il
nostro intelletto.
È indubitabile che la Chiesa possegga anche una componente umana e
visibile – che in passato veniva comunemente indicata con la parola
“società”. Ma è altrettanto indubitabile che l’essenza della Chiesa non
si limita ai soli aspetti visibili, perché anzi, ancor più importanti
sono gli aspetti invisibili: il fatto ad esempio che la Chiesa è Sposa
di Cristo, o che è il suo Corpo Mistico. Insomma, la Chiesa Cattolica è
di certo anche un corpo sociale, osservabile per via storiografica,
fenomenologica, sociologica… ma essa è prima di tutto un mistero della
fede soprannaturale. Non a caso il primo capitolo della “Costituzione
Dogmatica sulla Chiesa” del Concilio Vaticano II, Lumen Gentium, è
intitolato proprio così: «Il mistero della Chiesa». La Chiesa è mistero
perché proviene dal mistero della Santissima Trinità: popolo radunato
dall’unità del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, come diceva
l’africano san Cipriano di Cartagine. Ed è mistero perché il suo
Fondatore non è Pietro – un uomo – bensì Gesù Cristo, l’Uomo-Dio. Gesù
ha fondato la Chiesa sugli Apostoli, in particolare sulla roccia, su
Pietro. Ma il Fondatore è Lui, Cristo. La Chiesa, dunque, non appartiene
a Pietro. Pietro è solo la roccia sulla quale Gesù edificherà la Sua
Chiesa (Cf. Mt 16, 16-18). La Chiesa è di Cristo. per questo crediamo la
Chiesa, prolungamento del mistero di Cristo, vero Dio – vero uomo.
Questa osservazione sul carattere misterico della Chiesa è importante,
perché non manca oggi una tendenza che vede nella Chiesa una sorta di
aggregazione umana – se vogliamo usare la nota descrizione di Papa
Francesco: una ONG (Organizzazione Non Governativa). Coloro che
intendono la Chiesa in questa prospettiva orizzontalistica, non possono
capire le dinamiche nascoste della grazia che fluisce invisibilmente ma
realmente (molto realmente e concretamente!) dal Capo, che è Cristo,
alle membra del suo Mistico Corpo. Costoro invece vedono nella Chiesa
un’associazione benefica, impegnatissima nel risolvere i problemi
sociali della fame, della giustizia e della pace, o una potenza
diplomatica, un agente politico e, magari, anche un attore di un certo
peso in ambito di finanza internazionale. La componente istituzionale
della Chiesa, che ha di certo il suo valore, non esaurisce l’intera
essenza della Chiesa. Sebbene i vescovi e il Papa abbiano anche un certo
peso politico e diplomatico, sarebbe estremamente riduttivo, anzi
sbagliato, considerarli principalmente da questo punto di vista, quasi
che essi fossero dei leader mondani, che parlano e agiscono in accordo
ad una logica, quando non addirittura ad un’ideologia e ad una agenda
umane.
Vorrei condividere qui l’avvertimento, anzi l’ammonizione che, nel mese
di ottobre scorso, faceva in modo privato l’imam Yahya Pallavicini,
presidente del COREIS[1], professore a l’Università Cattolica ed uno dei
più rappresentativi dell’Islam: “La Chiesa nel suo attuale slancio
verso i valori della giustizia, dei diritti sociali e della lotta
politica o ideologica per sradicare la povertà se dimentica la sua anima
contemplativa fallisce la sua missione e verrà abbandonata dai suoi
fedeli perché non verrà riconosciuta in essa il suo specifico”.
Il Concilio Vaticano II ci ha ricordato che i vescovi sono successori
degli Apostoli, araldi del Vangelo e ministri di Cristo ed
amministratori dei misteri di Dio (1Cor 4, 1). Compito della Chiesa e,
in particolare, delle sue guide spirituali, non è dunque quello di
“formulare un progetto” o di “dettare una linea”, né di “ispirare
determinate azioni sociali e politiche”. Questa visione pecca per
difetto. La Chiesa al contrario deve, come ricordavo all’inizio,
custodire e trasmettere integro il deposito della fede, come dice san
Paolo a Timoteo: “Prendi come modello le sane parole che hai udito da
me, con la fede e la carità che sono in Cristo Gesù. Custodisci il buon
deposito con l’aiuto dello Spirito Santo che abita in noi” (2Tm 1,
13-14). La Chiesa deve celebrare i Sacramenti per la gloria di Dio e la
santificazione delle anime, e guidare gli uomini alla vita eterna,
ammaestrandoli ed aiutandoli ad osservare i comandamenti del Signore.
Sono questi i compiti che Cristo risorto diede infatti agli Apostoli:
«Mi è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e
ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del
Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che
io vi ho comandato» (Mt 28,19-20). È per svolgere questi compiti, e non
altri inventati da noi e ritenuti più graditi alla mentalità secolare,
che Cristo conclude assicurando alla Chiesa il suo costante aiuto: «Ecco
io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo». Cristo è con
la Chiesa, “opera insieme a noi” (cf. Mc 16,20), quando noi rimaniamo
fedeli all’indole della Chiesa ed alla sua missione.
Tutto ciò sottolinea il primato della grazia divina. Se la Chiesa è ciò
che è, essa lo deve innanzitutto al dono gratuito e soprannaturale di
Dio. Certo, questo dono diventa subito e sempre anche un compito a noi
affidato. Ma ciò avviene sempre dopo. La grazia è innanzitutto
preveniente: la Chiesa nasce per un’iniziativa gratuita di Dio, non per
nostro merito. La grazia poi, accompagna: se noi rispondiamo
positivamente alla vocazione ecclesiale, lo facciamo liberamente – certo
– ma sempre e solo sotto l’influsso della grazia. Infine, la grazia
porta a compimento, porta al fine ultimo, cioè alla salvezza eterna,
questo nostro sforzo di cooperare con Dio in quanto suo Popolo eletto. È
proprio questo mistero della grazia che spiega anche le caratteristiche
di cui Cristo ha voluto adornare la sua mistica Sposa. Di solito, in
molte culture che posseggono simile tradizione, il corredo e la dote
della sposa vengono approntati dai suoi genitori, in altre culture il
corredo e la dote sono provveduti dal futuro sposo. Nel nostro caso,
invece, siccome Cristo è sia Sposo, sia Fondatore, cioè Creatore della
Chiesa, Egli stesso ha provveduto la dote ed il corredo mistico della
sua Amata. Nel fondare la Chiesa, Cristo Signore l’ha dotata di una gran
quantità di doni e di caratteristiche, che sono necessari allo
svolgimento della missione apostolica, in vista della salvezza delle
anime la quale, come ricorda nella sua conclusione il Codice di Diritto Canonico, rimane la legge suprema nella Chiesa.
Orbene, nel ricco corredo, nell’ampia dote che Cristo ha preparato per
la Chiesa, troviamo anche quattro caratteristiche di grande rilievo, al
punto da essere messe in evidenza nel già menzionato Simbolo della fede
Niceno-costantinopolitano. I teologi le chiamano “note” o “proprietà”
della Chiesa e questo perché manifestano la Chiesa Cattolica,
distinguendola da altre realtà – e in questo senso si chiamano “note”,
perché la rendono nota, conosciuta. Inoltre si chiamano proprietà,
perché sono elementi essenziali della natura della Chiesa, ragion per
cui dove c’è la vera Chiesa, ci sono sempre anche queste proprietà. Il
Simbolo della fede ne enumera quattro: Una, Santa, Cattolica ed Apostolica.
È da ricordare, tuttavia, che vi sono numerose altre note individuate
dai teologi. Ad esempio, i grandi teologi controriformisti Johannes Eck,
Stanislao Osio e san Roberto Bellarmino, Dottore della Chiesa,
enumeravano nei loro trattati una quindicina di note ecclesiologiche, al
punto tale che si sviluppò nella teologia dell’epoca persino una via notarum,
cioè un modo per contrastare la visione protestante sulla Chiesa
proprio attraverso lo studio e l’illustrazione delle note proprie alla
vera Chiesa di Cristo.
Ma lasciamo da parte queste pur interessanti informazioni e torniamo a
dedicarci ad una riflessione teologica di carattere più meditativo e
sapienziale, come abbiamo fatto sin qui. Vorrei innanzitutto osservare
che le quattro note principali della Chiesa sono tra loro chiaramente
distinte, eppure vanno sempre insieme, perché sono in relazione di unità
organica, come le membra in un organismo. Possiamo, certo, distinguere
il braccio dalla gamba, ma l’organismo sano e integro li possiede sempre
entrambi. Così è delle proprietà della Chiesa. Ad esempio, la nota
della santità e dell’unità – di cui qui ci interessiamo in particolare –
sono distinte, ma non sono separabili. A livello esemplificativo,
possiamo notare che non ci può essere un cristiano che viva
volontariamente in peccato mortale, ossia che non sia santo, e pretenda
tuttavia di essere pienamente inserito nell’unità soprannaturale della
Santa Chiesa. Chi pecca gravemente, si separa da Dio e da Cristo e, per
questo, sebbene non a livello formale e canonico (non è scomunicato), si
separa dalla Chiesa a livello soprannaturale. Perciò il Concilio
Vaticano II ha ricordato che con il Sacramento della Penitenza il
peccatore perdonato ritorna in comunione, cioè in unità soprannaturale,
sia con Dio sia con la Comunità ecclesiale, dai quali si era allontanato
per la sua ribellione[2]. L’unità delle note ecclesiologiche, come si
intuisce, andrebbe tenuta presente, pertanto, anche quando si affrontano
temi legati all’ammissione dei fedeli alla ricezione dei Sacramenti.
Una seconda osservazione generale sulle note della Chiesa consiste nel
riprendere quanto prima ho solo accennato: ogni proprietà ecclesiologica
è sempre sia dono divino, sia compito a noi affidato. Che la Chiesa sia
una è merito e dono di Cristo, non nostro. Questa unità costitutiva
rappresenta però anche un appello alla nostra responsabilità,
nell’impedire le divisioni tra noi. Soprattutto le divisioni dottrinali,
morali, liturgiche, disciplinari, divisioni nella Fede e nella Carità.
Analogamente, la santità della Chiesa è dono di Cristo, ma si capisce
che anche noi siamo chiamati ad impegnarci nella nostra santificazione.
“Perché questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione” (1Ts 4,
3). E così via. Il Catechismo si esprime al riguardo con queste
parole:«È Cristo che, per mezzo dello Spirito Santo, concede alla sua
Chiesa di essere Una, Santa, Cattolica e Apostolica, ed è ancora Lui che
la chiama a realizzare ciascuna di queste caratteristiche»[3].
Passiamo ora a meditare sulle due prime note menzionate dal Simbolo
della fede: la Chiesa è una e santa. La radice e la ragione dell’unità
della Chiesa è innanzitutto la Santissima Trinità. “Che stupendo
mistero! Vi è un solo Padre dell’universo, un solo Logos
dell’universo e anche un solo Spirito Santo, ovunque identico; vi è
anche una sola vergine divenuta madre, e io amo chiamarla Chiesa” scrive
San Clemente d’Alessandria (Paedagogus, 1, 6)[4]. Il Decreto sull’Ecumenismo del Concilio Vaticano II, Unitatis Redintegratio,
al n. 2 insegna: «Il supremo modello e principio di questo mistero
[della Chiesa] è l’unita nella Trinità delle Persone di un solo Dio
Padre e Figlio nello Spirito Santo». Lo stesso testo, poi, attribuisce
allo Spirito Santo un ruolo particolare nella preservazione di questa
unità soprannaturale, dicendo: «Lo Spirito Santo, che abita nei credenti
e riempie e regge tutta la Chiesa, produce quella meravigliosa
comunione dei fedeli e tanto intimamente tutti unisce in Cristo da
essere il principio dell’unità della Chiesa». Il Battesimo, innestandoci
in Cristo, ci dona l’unità del suo Corpo Mistico: «Noi tutti siamo
stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo Corpo, giudei o
greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo
Spirito» (1Cor 12,13); «Un solo Corpo e un solo Spirito, come una sola è
la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra
vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo Battesimo» (Ef
4,4-5).
Oltre agli agenti principali dell’unità, che sono le Tre Persone divine,
alla Chiesa sono stati donati anche agenti umani, in particolare gli
Apostoli, che sono segno e strumento dell’unità nella Chiesa. Qui si
nota che l’unità, da dono, diventa compito, dovere e responsabilità. È
nell’unione con gli Apostoli e con i loro successori che si manifesta e
si preserva il dono della Chiesa una. Ancora il mio conterraneo san
Cipriano di Cartagine, verso l’anno 250 ha scritto queste celebri
parole:
Habere iam non potest Deum Patrem, qui Ecclesiam non habet matrem. Si potuit evadere quisque extra arcam Noe fuit, et qui extra Ecclesiam foris fuerit evadet – Non può avere Dio per Padre chi non ha la Chiesa per madre. Se si fosse potuto salvare qualcuno fuori dell’arca di Noè, si potrebbe salvare qualcuno anche fuori della Chiesa[5].
Vi è un’unità costitutiva della Chiesa Cattolica e questa unità è anche
salvifica: chi permane in essa, sarà salvato. In base a questa
convinzione, nella sua Epistula 51, 2 – inviata a papa Cornelio
(251-253) – lo stesso San Cipriano scrive: «C’e una sola Chiesa
Cattolica, che non potrà essere né spaccata, né divisa». Sorprende
questa salda convinzione, in un’epoca in cui c’erano molte divisioni e
scismi tra i cristiani. Ma Cipriano attesta con le sue parole la
certezza della nostra fede cattolica nell’unità della Chiesa: nonostante
le tante e dolorose divisioni tra i cristiani, non c’è e non può mai
esistere la divisione della Chiesa[6]. I cristiani, sì: si
dividono. È accaduto tante volte, purtroppo, nella storia. Ma la Chiesa è
una. Ciò che non può essere diviso in se stesso (la Chiesa), può
risultare lamentabilmente diviso in noi.
Come si intuisce, l’unità della Chiesa è dunque un fatto permanente ed
inscalfibile; verrebbe da dire che è un dato “trascendente”,
“metafisico”, nel senso che non è il frutto dello sviluppo storico.
Dalla sua nascita al momento del cuore trafitto di Cristo morto sulla
croce per la nostra salvezza, l’unità della Chiesa è davvero un dono di
Dio tramite lo Spirito Santo[7]. Se l’unità ecclesiale fosse punto di
arrivo e non punto di partenza della Chiesa, si dovrebbe pensare che
tale unità sarebbe il frutto dell’unione, o della federazione di diverse
Chiese e gruppi cristiani. Questa concezione federativa è però estranea
alla dottrina ecclesiologica cattolica, che infatti l’ha respinta in
diverse occasioni. La Chiesa è una ed unica sin dal suo sorgere e tale
rimane per grazia di Cristo, nonostante tutto.
Essendo chiaramente un dato oggettivo e non una realizzazione storica
progressiva, l’unità della Chiesa possiede anche elementi oggettivi e
non soltanto soggettivi per essere riconosciuta e vissuta. Gli elementi
oggettivi dell’unità sono indicati sinteticamente in un brano degli Atti
degli Apostoli:
[I cristiani] erano perseveranti nell’insegnamento degli Apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere. Un senso di timore era in tutti, e prodigi e segni avvenivano per opera degli Apostoli. Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno erano perseveranti insieme nel Tempio e, spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo. Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati. (At 2,42-47)
Come si nota, i sentimenti, quali la «letizia», la gioia o il «senso di
timore», non bastano a caratterizzare la comunione della Chiesa. San
Luca sottolinea gli elementi oggettivi della comunione: l’insegnamento
apostolico (unità di fede), la preghiera e particolarmente la Liturgia
Eucaristica (unità di Culto), la vita comune con i concreti atti che ne
conseguono (unità di carità). Non vive dunque nell’unità comunionale
della Chiesa chi desidera farne parte, ma chi è inserito in questi
elementi oggettivi dell’unità. Non è estraneo ai nostri giorni,
nell’animo anche di molti cattolici, un certo sentimentalismo
ecclesiologico, per cui l’unità viene capita come un “volersi bene”, un
“camminare insieme”, un coltivare “bei sentimenti di accoglienza” verso
gli altri. Certo, volersi bene è importante, ma ancora non basta. Ognuno
di noi può fare l’esperienza di provare buoni sentimenti di amicizia e
di volere bene ad un amico che pratica un’altra religione, o che fosse
persino agnostico o ateo. Tali sentimenti, pur lodevoli, di certo non
costituirebbero motivo sufficiente per ritenere che entrambi
apparteniamo all’unità della Chiesa. Ci vogliono elementi oggettivi,
quali il Battesimo, la professione della stessa dottrina di fede,
l’ubbidienza ai legittimi pastori, ecc. Solo in base ad elementi certi,
oggettivi ed anche esternamente verificabili, possiamo dire di far
sviluppare anche in noi questo dono dell’unità. Allora, e solo a queste
condizioni, siamo uno nella Chiesa una. Un altro esempio riguarda il
caso, già prima accennato, di chi commette peccato mortale. Non
basterebbe a costui un vago sentimento di volersi convertire in teoria,
ma non in pratica. Ci vuole una vera conversione ed un reale, effettivo
ed oggettivo ritorno all’unità mistica ecclesiale, che si concretizza in
un segno esternamente verificabile, come è il Sacramento della
Confessione. Con questo secondo esempio, tocchiamo il tema della
santità, intimamente connesso a quello dell’unità, come si è detto.
Il Concilio Vaticano II insegna che «La Chiesa […] è per fede creduta
indefettibilmente santa. Infatti Cristo, Figlio di Dio, il quale col
Padre e lo Spirito Santo è proclamato “il solo Santo”, amò la sua Chiesa
come sua Sposa e diede Se stesso per essa, al fine di santificarla (cf.
Ef 5,25-26) e la congiunse a Sé come suo Corpo e l’ha riempita del dono
dello Spirito Santo, per la gloria di Dio. Perciò tutti nella Chiesa,
sia che appartengano alla gerarchia, sia che siano retti da essa, sono
chiamati alla santità, secondo il detto dell’Apostolo: « certo la
volontà di Dio è questa, che vi santifichiate»[8] (1Ts 4,3; cfr. Ef
1,4). L’avverbio “indefettibilmente” attrae la nostra attenzione:
significa che questa qualità della Chiesa, la santità, al pari
dell’unità rimarrà integra sino alla fine dei tempi, ossia fin quando
sussisterà la stessa Chiesa. Possiamo inventare delle eresie, trafficare
la Parola di Dio per renderla più accettabile al mondo secolarizzato e
decadente, possiamo infangare la Chiesa con le nostre corruzioni umane,
ma la Chiesa di Cristo rimarrà indefettibilmente Santa.
Nella prerogativa della santità, si rispecchia la natura di Dio stesso e
di Cristo Gesù. Nella Bibbia, “santo” in senso primario ed assoluto è
Dio solo. Ricordiamo il canto dei Serafini, contemplati dal profeta
Isaia. Essi eternamente stanno dinanzi al trono di Dio cantando l’inno trisagio. Isaia descrive in questi termini la visione:
Nell’anno in cui morì il re Ozia, io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato; i lembi del suo manto riempivano il Tempio. Sopra di Lui stavano dei Serafini; ognuno aveva sei ali: con due si copriva la faccia, con due si copriva i piedi e con due volava. Proclamavano l’uno all’altro, dicendo: «Santo, santo, santo il Signore degli eserciti! Tutta la terra è piena della sua gloria». Vibravano gli stipiti delle porte al risuonare di quella voce, mentre il Tempio si riempiva di fumo. (Is 6,1-4)
Dinanzi alla maestosità di simile visione, il profeta si sente venir
meno. In particolare, lo colpisce il contrasto tra la sua piccolezza, il
suo stato di misero uomo e cioè di peccatore, e la santità perfetta
dell’Onnipotente. Perciò Isaia prorompe nel grido: «Ohimè! Io sono
perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo a un
popolo dalle labbra impure io abito; eppure i miei occhi hanno visto il
Re, il Signore degli eserciti» (v. 5).
L’uomo non può accostarsi a cuor leggero e senza stupore e tremore al
Dio tre volte Santo. È anzi necessario che noi stiamo davanti al Signore
sempre prostrati, in ginocchio ed in spirito di adorazione, di sacro e
santo timore, nonché di profondissimo rispetto. Per questo Mosè dovette
togliersi i sandali prima di potersi avvicinare al Roveto ardente (cf.
Es 3,5). Ricordiamo ancora che il Nuovo Testamento usa per la nostra
parola «santo», il termine greco hagios che deriva dal verbo haxiomai,
cioè «rabbrividire». Troviamo quindi una continuità di insegnamento tra
Antico e Nuovo Testamento: dinanzi alla santità trascendente di Dio,
l’uomo deve rabbrividire, deve cioè assumere un contegno rispettoso e
adorante, deve lasciarsi bruciare dal roveto ardente, dal fuoco
dell’Amore di Dio e stare in silenzio ed in contemplazione.
Nel Nuovo Testamento si aggiunge però anche una componente di maggior
prossimità di Dio all’uomo. Lo vediamo ad esempio nell’istituzione
dell’Eucaristia: segno che Dio vuole stare sempre vicino a noi, anzi
diventiamo la dimora di Dio, il tempio della Santissima Trinità. Per
questo un bel libro dell’allora cardinale Joseph Ratzinger, dedicato a
meditazioni eucaristiche, si intitolava in tedesco Gott ist uns nah,
Dio ci è vicino. Rimane però anche nel Nuovo Testamento la dimensione
della santità di Dio, che va rispettata, amata ed adorata. Per questo,
anche dinanzi alla celebrazione ecclesiale dell’Eucaristia, è importante
che all’amore per il Signore che si offre al Padre per noi e che rimane
con noi nell’Ostia consacrata, si impronti anche la nostra rispettosa
condotta verso il dono eucaristico. La maggiore vicinanza della santità
di Dio a noi, non può comportare una diminuzione del senso adorante e
rispettoso. Al contrario, dovrebbe alimentarli. Scriveva al rispetto san
Giovanni Paolo II:
Se la logica del «convito» ispira familiarità, la Chiesa non ha mai ceduto alla tentazione di banalizzare questa «dimestichezza» col suo Sposo dimenticando che Egli è anche il suo Signore e che il «convito» resta pur sempre un convito sacrificale, segnato dal sangue versato sul Golgota. Il convito eucaristico è davvero convito «sacro», in cui la semplicità dei segni nasconde l’abisso della santità di Dio […]. Sull’onda di questo elevato senso del mistero, si comprende come la fede della Chiesa nel Mistero eucaristico si sia espressa nella storia non solo attraverso l’istanza di un interiore atteggiamento di devozione, ma anche attraverso una serie di espressioni esterne, volte a evocare e sottolineare la grandezza dell’evento celebrato[9].
Anzi l’Eucaristia che celebriamo ci trasforma radicalmente. Diventiamo “Ipse Christus,
il Cristo stesso”. L’Eucaristia ci fa diventare una sola cosa con
Cristo. La dinamica di questo cambiamento radicale effettuato in noi, è
stato illustrato magnificamente da Papa Benedetto XVI:
“L’Eucaristia ci attira nell’atto oblativo di Gesù. Noi non riceviamo soltanto in modo statico il Logos incarnato, ma veniamo coinvolti nella dinamica della sua donazione ». Egli «ci attira dentro di sé». La conversione sostanziale del pane e del vino nel suo corpo e nel suo sangue pone dentro la creazione il principio di un cambiamento radicale, come una sorta di «fissione nucleare», per usare un’immagine a noi oggi ben nota, portata nel più intimo dell’essere, un cambiamento destinato a suscitare un processo di trasformazione della realtà[10]” .
Soprattutto attraverso l’Eucaristia, Cristo, Uomo e Dio, partecipa la
sua santità alla Chiesa, sua Sposa e suo Corpo Mistico. La santità
oggettiva della Chiesa, come la sua unità, è dono di Cristo. Per questo
il Nuovo Testamento chiama i fedeli cristiani, ossia i battezzati,
semplicemente i «santi», ossia coloro che hanno ricevuto in dono la
santità.
Qui conviene fare una breve riflessione. Ai nostri giorni si parla tanto
di santità, anche se a volte si usano espressioni diverse, come ad
esempio, «testimonianza», «martyria», o altre parole simili.
Questo perché il Concilio Vaticano II ha ricordato che nella Chiesa
tutti i battezzati sono chiamati alla santità e non solo alcune classi
di fedeli, quali ad esempio i monaci o i ministri ordinati[11].
Chiaramente questo insegnamento è assolutamente veritiero. Bisogna però
ricordare che la santità del cristiano – al pari della nota
ecclesiologica corrispondente – è sia dono che compito. Cioè è una
santità innanzitutto donata e poi anche vissuta con il nostro libero
impegno personale. Prima di tutto c’è il dono oggettivo: la grazia della
santità, dataci già all’inizio della nostra vita cristiana, mediante il
Battesimo. Per questo motivo, è necessario ricordare che la santità è
sì, certamente, anche una meta da raggiungere con il nostro sforzo. Ma
prima di questo, la santità è il punto di partenza. Prima di essere culmen, momento finale e apicale della vita del cristiano; essa è fons,
sorgente da cui scaturisce anche la possibilità per me di essere santo.
Siamo santi perché il Signore è santo e ci dona gratuitamente, prima di
ogni nostro merito, la santità. Solo in seguito a ciò, noi possiamo e
dobbiamo mantenerci e crescere nella santità. D’altro canto, è risaputo
che simile sforzo è possibile solo con l’aiuto della grazia divina, che
precede, accompagna e porta a compimento la nostra libera cooperazione,
come già si notava in precedenza.
Tutto ciò va detto perché ai nostri giorni, assieme alla corretta
sottolineatura del fatto che tutti i battezzati ricevono la vocazione
alla santità, è subentrata anche una visione meno corretta, che
suggerisce che la santità è il risultato della nostra azione. È anche
questo. Ma non è solo questo, né è principalmente. Prima di tutto è la
santità di Dio in noi. Di conseguenza, essere santi, più che raggiungere
una santità che è alla fine del percorso, significa custodire e
difendere dagli attacchi del Maligno la santità che è già dentro di noi,
nonché crescere e portare frutto in essa.
E così, possiamo capire ancora una volta che la morale cristiana non
coincide con il volontarismo, con il senso del dovere, con il puro
impegno solidale: cose spesso lodevoli – sia chiaro – ma che rimangono
su un piano naturale. Per noi cristiani la morale parte da Dio, dal suo
dono di santità in noi; ci vuole Santi come Lui, nostro Padre, è Santo:
uno splendido e terribile dono al quale il Signore ci invita a
corrispondere liberamente. Pertanto, i valori morali non sono luoghi
utopici, irraggiungibili in concreto. Ciò potrebbe essere se la santità
consistesse nell’asintotico procedere verso un fine perfetto, che non
fosse però alla nostra portata. In simile prospettiva, i valori morali, e
anche i comandamenti divini, rimarrebbero un ideale irraggiungibile o
delle indicazioni di direzione, degli orientamenti, ma non mete
possibili. Invece, i comandamenti ed i valori possono e devono essere
vissuti in concreto, proprio perché viverli non significa tanto
raggiungerli, quanto accoglierli, accettarli e custodirli, perché già ci
sono stati dati. Il compito è espressione del dono. Ad esempio, si
sente oggi dire che la fedeltà degli sposi e l’indissolubilità del
matrimonio sono bellissimi ideali che però in concreto, almeno in certi
casi, non è possibile attuare. In realtà, è necessario pensare in modo
opposto, dato che la fedeltà e l’indissolubilità non sono frutto
dell’impegno degli sposi: esse sono già date, molto concretamente e
realmente, all’inizio della vita coniugale, mediante il Sacramento del
Matrimonio. Non c’è nulla da raggiungere; è già donato. L’impegno
necessario degli sposi consisterà piuttosto nel custodire con amore, con
fedeltà ed in modo integro tali doni, giorno dopo giorno, senza
permettere al Maligno e al mondo di portarseli via.
La nota della santità della Chiesa, poi, è alla base anche della ben
nota dottrina della «Comunione dei santi». Nei primi secoli con la
parola “santi” usata in questa espressione, si intendevano piuttosto gli
uomini santi delle origini, in particolare gli Apostoli. Perciò
inizialmente Comunione dei santi indica il legame con i primi uomini
scelti da Cristo. In questo senso, la nota della santità si collega con
quella della apostolicità. Nel Medioevo, poi, con “santi” si intendono
le “cose sante”, in particolare i Sacramenti. Quindi si mantiene la
comunione ecclesiale per la comune partecipazione agli stessi santi
Segni. I Segni santi confermano la Chiesa nella sua santità, così come,
nel primo significato dell’espressione, la comune dottrina della fede,
che ci viene dagli Apostoli, santifica i credenti nella verità. Questi
due modi di intendere l’espressione non vanno contrapposti, perché sono
entrambi veri. Per rimanere e crescere nella santità, la Chiesa ha
bisogno sia della sana dottrina apostolica, sia della grazia
oggettivamente prodotta dai Sacramenti. Nella dottrina e nei Sacramenti
ci viene sempre di nuovo ridonata quella santità oggettiva della Chiesa,
che partecipata a noi diventa santità soggettiva dei credenti. E
siccome questa santità che ci è data è in se stessa incorruttibile,
perché nonostante i nostri peccati, la Chiesa rimane sempre Santa,
dobbiamo sforzarci, con l’aiuto di Dio, di non rovinare in noi ciò che
non può essere scalfito in se stesso. Cioè, dobbiamo custodire la nostra
santità personale, per evitare che la santità oggettiva della Chiesa,
la quale non è toccata dalle nostre mancanze, sia cionondimeno messa in
dubbio da coloro che, vedendo la nostra pochezza, sono tentati di
attribuirla alla Chiesa in quanto tale. Ecco perché sant’Ambrogio ci
ammonisce dicendo che quando pecchiamo «Non in se stessa [..] è ferita
la Chiesa, ma in noi». Ma proprio per questo, continua il grande Vescovo
di Milano, «facciamo attenzione affinché la nostra caduta non divenga
una ferita per la Chiesa»[12].
Cari fratelli, a conclusione di questa meditazione, non mi resta che
augurare a me ed a voi tutti, a questa Chiesa diocesana di Trieste, al
suo Vescovo, ai suoi sacerdoti e a tutti i suoi battezzati, che possiamo
permanere sempre nell’unità e santità della Chiesa Cattolica, questa
meravigliosa, soprannaturale Famiglia di Dio, alla quale il Signore,
senza alcun nostro previo merito, ci ha chiamati come membra vive.
Chiediamo al Signore, per intercessione di Maria Santissima e di san
Giuseppe, Patrono della Chiesa Universale, di cui tra pochi giorni
celebreremo la solennità liturgica, questa grazia: che il dono oggettivo
dell’unità e della santità della Chiesa siano sempre ben custoditi in
noi e portino frutti abbondanti che maturino per la vita eterna.
_______________________________[1] Comunità Religiosa Islamica
[2] Cf. Lumen Gentium, n. 11
[3] CCC n. 811
[4] CCC n. 813
[5] San Cipriano, De unitate Ecclesiae, 6
[6] Anche a Roma, il sacerdote teologo Novatus, si è opposto al Papa
Cornelio per la sua troppa misericordia e il recupero e la
riconciliazione dei cristiani che avevano ceduto alle persecuzioni. Si è
fatto eleggere papa formando così gli scismatici novaziani. Papa
Cornelio, confortato dalla solidarietà di San Cipriano, è morto a
Civitavecchia dove è stato esiliato dall’imperatore Gallo nel 253, e fu
sepolto nel cimitero di San Callisto.
[7] Cf. CCC n. 766[8] Lumen Gentium, n. 39
[9] Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucharistia, n. 48-49
[10] Benedetto XVI, Esortazione Apostolica post sinodale Sacramentum Caritatis n. 11, 22 febbraio 2007.
[11] Cf. Lumen Gentium nn. 39-41
[12] Sant’Ambrogio, De virginitate, 48
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