Ratzinger: la parola “anima” radiata dal nuovo messale romano
Un libro importante del 1977, Escatologia,
rivisto dall’autore Joseph Ratzinger-Benedetto XVI nel 2006, quando ha
impreziosito la riedizione con una aggiornata Premessa atta a spiegarne
il lungo percorso. Leggiamo un passo dalla Premessa perché ci aiuterà a
come interpretare e leggere il capitolo che andremo ad approfondire,
inoltre veniamo così informati della grave crisi teologica interna alla
Chiesa, inoltrandoci anche nella comprensione della nascita e sviluppo
dell’enciclica di Benedetto XVI la Spe Salvi, i cui concetti restano gli stessi a fronte di una teologia sull’anima da riscoprire, rivalutare e ritornare ad insegnare.
Dalla Premessa
“Dalla prima edizione del volume sono
passati 30 anni e nel frattempo il cammino della teologia non si è
fermato. Nel momento in cui il libro fu scritto, due profondi
capovolgimenti stavano coinvolgendo gli sviluppi riflessivi riguardo al
tema della speranza cristiana.
La speranza veniva compresa come virtù
attiva, come azione che cambia il mondo, azione dalla quale sarebbe
scaturita una nuova umanità, un “mondo migliore”. La speranza divenne in
tal modo politica, la sua realizzazione sembrava essere affidata
all’uomo stesso.
Il regno di Dio, attorno al quale tutto
il cristianesimo ruota, sarebbe diventato il regno dell’uomo, il “mondo
migliore” di domani: Dio non sta “in alto” ma davanti… (..)
La crisi della tradizione, che nella
Chiesa Cattolica assunse toni virulenti in corrispondenza del Vaticano
II, portò all’esigenza di strutturare la fede partendo esclusivamente
dalla Bibbia, prescindendo dalla tradizione. Si concluse allora che
nella Bibbia non si trovava il concetto dell’immortalità dell’anima, ma
solo la speranza della risurrezione.
“L’immortalità dell’anima” doveva essere
congedata come platonismo, si era sovrapposta, dunque, alla fede biblica
della risurrezione. Grazie ad una curiosa filosofia che stabiliva
l’impossibilità della presenza del tempo al di là della morte, si spiegò
che la risurrezione doveva avvenire nella morte stessa.
Questa teoria ha conquistato velocemente
anche il linguaggio della predicazione, tanto che in molti luoghi la
celebrazione di preghiera per un defunto è stata chiamata “cerimonia
della risurrezione”.
Nella
mia “Escatologia” mi ero confrontato con entrambe le correnti, senza
dimenticare i temi importanti per un manuale, temi di tutta la
Tradizione del credere, sperare, pregare, temi di cui la storia della
Chiesa è ricca.
Per quanto riguarda il primo tema, mi
sembrava importante che l’escatologia non si lasciasse ridurre a nessun
tipo di teologia politica. Ho ritenuto di potermi limitare
all’essenziale dando un’indicazione del problema e ho cercato di
evidenziare il significato permanente della speranza nell’azione propria
di Dio entro la storia, azione che sola concede all’agire umano la
propria unità interna e trasforma dall’interno ciò che è transitorio in
ciò che non passa.
Ma un confronto più preciso con la
questione della risurrezione “nella morte” era indispensabile; tale
confronto costituisce il contenuto del cap. 5 di questo libro.
È legittimo prima di tutto riconoscere
come la Bibbia non proponga alcuna concettualità antropologica con
valore conclusivo, piuttosto essa si giova di svariati modelli
concettuali.
È giusto inoltre ammettere come per la
Bibbia il concetto centrale di speranza significhi “risurrezione”. Ma è
altrettanto sicuro che la Bibbia non conosce l’idea di una risurrezione
“nella morte”, anzi la respinge espressamente (leggasi 2Tim.2,18). Essa
conosce piuttosto l’ “essere presso il Signore” tra la morte e la
risurrezione. (cfr. per esempio Fil.1,23).
Io avevo cercato di tratteggiare come
l’elaborazione di una concettualità antropologica mediante il ricorso
alla formula di corpo e anima, secondo cosa è avvenuto nella tradizione
ed è stato dichiarato nel concilio di Vienna (DH902), sviluppasse in
maniera appieno conforme il dispositivo dell’antropologia biblica.
Su questo punto è sorta in seguito al mio
libro una vivace discussione,nella quale la mia posizione fu
contrassegnata semplicemente come difesa del platonismo.
In ambedue le appendici alla sesta
edizione ho cercato di prendere posizione in modo dettagliato riguardo a
simile discussione e ho pure ravvisato in modo riconoscente le riprese e
le conciliazioni che ne derivavano, arricchendo con ciò il nostro
pensiero circa le “ultime cose”. (..)
Non vorrei ancora una volta intercettare
qui l’intera controversia, anche se desidero ribadire ancora una volta
quale era e qual è tuttora per me la cosa più importante.
Innanzitutto non è una questione di
concettualità o di “platonismo” ma di una concezione strettamente
teo-logica della nostra vita oltre la morte – della nostra “vita
eterna”, nel senso dell’insegnamento di Gesù.
Noi viviamo dunque poiché siamo associati
alla memoria del Signore. Nella memoria del Signore noi non siamo
un’ombra, un semplice “ricordo”, stare nella memoria del Signore
significa “esserci”; vivere, vivere in pienezza, essere del tutto noi
stessi.
(…)
Roma – Festa di Tutti i Santi 2006 – Joseph Ratzinger – Benedetto XVI
“La mia opera meglio riuscita”, ebbe a
dire Ratzinger, e chi ha letto il testo non può che fargli da eco
soprattutto per la capacità che egli ha avuto di denunciare un così
grave decadimento teologico e dottrinale interno alla Chiesa, a riguardo
dell’anima. Prima di affrontare il capitolo in questione, suggeriamo
anche di tenere a mente l’Udienza generale di Benedetto XVI del 12 novembre 2008 in cui spiegò l’escatologia e la parusia in San Paolo.
dal Cap. V — Immortalità dell’anima e resurrezione dei morti
1. La problematica
L’interrogativo che negli ultimi decenni è
sorto nella tematica dell’immortalità dell’anima e della risurrezione,
trasformando gradualmente l’intero panorama della teologia e della
religiosità, non potrebbe essere formulato più sinteticamente e più
drammaticamente di quanto lo ha fatto Oscar Cullmann, il quale si è
espresso come segue: “Domandate a un cristiano, protestante o cattolico,
intellettuale o no, che cosa insegni il Nuovo Testamento sulla sorte
individuale dell’uomo dopo la morte, e, salvo pochissime eccezioni,
avrete sempre la stessa risposta: l’immortalità dell’anima. Eppure
questa opinione, per diffusa che sia, è uno dei più gravi
fraintendimenti che riguardano il cristianesimo” (Unsterblichkeit, p.19).
Ebbene,
oramai soltanto ben pochi azzarderebbero questa risposta allora ovvia,
poichè l’opinione che essa sia un malinteso si è diffusa con
sorprendente rapidità tra le comunità cristiane, senza tuttavia che si
fosse potuto sostituirla concretamente con una nuova risposta. Pionieri
di questo nuovo atteggiamento furono i teologi protestanti Carl Stange
(1870-1959) e Adolf schatter (1852-1938), ai quali aderì ampiamente Paul
Althaus, con la sua “Eschatologie” pubblicata nel 1921 in 1° edizione.
Rifacendosi alla Bibbia e a Lutero, si
rifiutava come dualismo platonico il concetto di una separazione nella
morte tra il corpo e l’anima qual è presupposta nella dottrina
dell’immortalità dell’anima e si affermava che l’unico insegnamento
biblico è quello che l’uomo perisce nella morte “con corpo e anima” e
che soltanto così si conserva il carattere di giudizio e della morte, di
cui la Bibbia parla con estrema chiarezza. Di conseguenza, non sarebbe
cristiano parlare dell’immortalità dell’anima, ma si dovrebbe parlare
unicamente della risurrezione dell’uomo intero e contrapporre alla
religiosità corrente del morire e alla sua escatologia del cielo l’unica
prospettiva della speranza cristiana, cioè quella dell’ultimo giorno.
Nel 1950, Althaus tentò di apportare
alcune rettifiche a questa tesi, che nel frattempo si stava diffondendo
rapidamente, e obiettò che anche la Bibbia conosce lo schema
“dualistico”, che anch’essa non conosce soltanto l’attesa dell’ultimo
giorno, ma una sorta di9 speranza individuale in un cielo futuro. Egli
cercò di dimostrare che questa opinione era stata pure condivisa da
Lutero. “L’escatologia cristiana – così si esprimeva – non ha dunque da
combattere l’immortalità come tale. Lo scandalo che recentemente abbiamo
dato più volte con questo nostro atteggiamento non è lo scandalo
dell’Evangelo” (Retraktationem, 256).
(Naturalmente Ratzinger non è d’accordo e tenta dei chiarimenti con una denuncia molto grave, ndr.)
Benché nelle discussioni d’allora
avessero trovato larghi consensi, queste affermazioni non avrebbero
assunto grande importanza per quanto riguarda la discussione successiva.
L’opinione che parlare dell’anima non sia un discorso biblico, s’impone
al punto che perfino il nuovo Missale Romanum del 1970 ha bandito il terminus “anima” dalla liturgia dei Defunti; parimenti esso è scomparso dal rituale della sepoltura….
(confermò in altro discorso il cardinale Ratzinger che della notizia
all’epoca ne fu preoccupatamente “sconvolto”, da qui anche
l’affermazione nell’intervista a Messori – Rapporto della fede – che una
certa “protestantizzazione” della Chiesa non era una semplice favola o
una esagerazione, ma una triste realtà, ndr).
Ma che cosa ha potuto rivoluzionare tanto
rapidamente una tradizione, che fin dai tempi della Chiesa antica era
radicata saldamente ed era stata sempre considerata centrale?
L’apparente evidenza del pensiero biblico da sola non vi sarebbe certo
stata sufficente. E’ presumibile che l’efficacia delle “nuove”
argomentazioni sia derivata in notevole parte dal fatto che la
concezione definita “biblica” dell’assoluta indivisibilità dell’uomo
collima con la moderna antropologia naturalistica, la quale vede l’uomo
unicamente come corpo e non vuole sapere nulla di un’anima che ne possa
essere separata.
Ma la prima considerazione che ne
consegue è la seguente: sebbene la rinuncia al concetto dell’immortalità
dell’anima elimini un potenziale punto conflittuale tra la fede e il
pensiero moderno, ciò non salva tuttavia la Bibbia, poichè per la
coscienza moderna la via biblica sembra ancora molto meno percorribile.
L’unità dell’uomo – e sta bene – ma chi sarebbe in grado, visti i dati
odierni della scienza naturale, di immaginarsi una resurrezione del
corpo? Una tale resurrezione supporrebbe una materialità radicalmente
nuova, un cosmo fondamentalmente cambiato; il che sorpassa del tutto i
limiti della nostra capacità intellettiva.
Pure
la domanda che cosa avvenga in tal caso nel periodo che precede la
“fine dei tempi” non può essere semplicemente ignorata. La spiegazione
data da Lutero, di un “sonno dell’anima”, non è certo una risposta che
possa convincere!
Ma se non esiste un’anima, se di
conseguenza non vi può essere un “sonno”, sorge il problema, “chi”
allora potrebbe essere risvegliato? Come si forma l’identità tra l’uomo
precedente e l’uomo che, a quanto pare, dovrà essere ricreato dal
niente? Pur non condividendo tal pensieri, respingere con sdegno simili
domande “filosofiche” non contribuirebbe certamente a dare una
spiegazione a tutto ciò.
Per cui si comprese molto presto, che qui
il solo biblicismo non porta innanzi. Senza “ermeneutica”, cioè senza
accompagnare il dato biblico con la ragione, che, collegando
sistematicamente i pensieri, può portare anche sotto l’aspetto
linguistico ben oltre il dato biblico come tale, non si ottiene nulla.
Volendo ora prescindere da tentativi
radicali, che intenderebbero risolvere il problema opponendosi a tutte
le affermazioni “oggettivanti” e ammettendo soltanto interpretazioni
“esistenziali”, possiamo dire che sono state tentate due vie: formulando
un nuovo concetto del tempo e interpretando in modo nuovo la
corporeità.
La prima sfera concettuale s’avvicina a
quelle riflessioni che abbiamo incontrato precedentemente al cap.3, 1a, e
che sono connesse alla questione dell’attesa e della fine imminente.
Avevamo visto che si cerca di risolvere questo problema richiamando il
fatto che la “fine del tempo” come tale non è più tempo, che quindi non
indica una futura data del calendario, bensì è “non-tempo”, per cui
trovandosi fuori della temporalità, è vicina a ogni tempo in modo
uguale. Da questo concetto si trasse la facile conclusione che, essendo
anche la morte un “uscire dal tempo”, essa conduca all’atemporalità.
Nell’area cattolica questi concetti
assunsero importanza per la discussione sul dogma dell’Assunzione
corporea di Maria nella gloria celeste.
Lo sconcertante dell’affermazione, che un
essere umano – Maria – è già ora risorto corporalmente, equivale quasi
alla provocazione di verificare comunque il rapporto tra la morte e il
tempo e di riesaminare il carattere della corporeità umana. Se fosse
possibile vedere nel dogma mariano un caso emblematico di ogni sorte
umana si risolverebbero contemporaneamente due problemi:
da un lato si supererebbe lo scandalo
ecumenico e intellettuale del dogma, dall’altro lato, quest’ultimo
stesso avrebbe aiutato a correggere le precedenti idee circa
l’immortalità e la risurrezione a favore di concezioni più bibliche e
più moderne.
Sebbene negli scritti recenti si
cercherebbero invano approfondimenti chiari e coerenti del nuovo
concetto, si può tuttavia dire, che nel complesso si è imposta la tesi
seguente: il tempo è una forma della vita fisica.
La morte significa uscire dal tempo e
entrare nell’eternità, nel suo unico “oggi”. Di conseguenza, il problema
dello “stadio intermedio” tra la morte e la risurrezione non è che un
problema inconsistente. “Intermedio” esiste soltanto nella nostra ottica
umana. In verità la “fine dei tempi” è atemporale; chi muore, entra nel
presente dell’ultimo giorno, del giudizio, della risurrezione e della
Parusia del Signore. Da qui la propagazione di un pensiero non
cattolico: “Di conseguenza si può affermare, che la risurrezione avviene
al momento stesso della morte e non soltanto nell’ultimo giorno”.
Questo concetto (“sbagliato”, come
spiegherà più volte Ratzinger), che la risurrezione abbia luogo nel
momento della morte, si è imposto al punto da essere accolto, con
qualche clausola, pure in Hollandischen Katechismus, p. 525 (il fatidico
Catechismo Olandese condannato da Paolo VI ma che purtroppo, per le
linee morbide intraprese dal Vaticano II, non fu fatto ritirare ma
correggere con delle Note aggiunte ai margini del testo): “L’esistenza
dopo la morte è dunque già qualcosa come la risurrezione del nuovo
corpo”. Il che significa: ciò che il dogma afferma di Maria vale per
ogni uomo; a motivo dell’atemporalità che regna al di là della morte,
per ogni uomo, morire vuol dire entrare nel cielo nuovo e nella terra
nuova, entrare nella Parusia e nella risurrezione.
Qui
sorgono tuttavia due domande, di cui la prima è questa: non si tratta
forse qui di una velata restaurazione della dottrina dell’immortalità
che, dal punto di vista filosofico, si fonda su supposizioni un tantino
avventate? Infatti qui si presume la risurrezione già per l’uomo appena
morto, per l’uomo che sta per essere portato alla tomba.
L’indivisibilità dell’uomo e il suo legame con la sua vita fisica appena
spenta, quest’indivisibilità che era stata il punto di partenza della
tesi, sembra ora non avere più alcuna importanza. Per cui leggiamo in
Hollandischen Katechismus: “Il Signore vuole… dire, che qualcosa, il
“proprio” dell’uomo non è il cadavere che rimane…”. In modo più incisivo
si esprime Greshake: “La materia in se stessa (come atomo, molecola,
organo…) è imperfetta… quando perciò nella morte si determina in modo
definitivo la libertà dell’uomo, in questa sua concretizzazione e
determinazione finale sono insieme cancellati definitivamente il corpo,
il mondo e la storia di questa libertà…”
Sebbene simili pensieri possano essere
sensati, ci domandiamo tuttavia, con quale diritto si possa parlare
ancora di “corporeità” quando si nega, esplicitamente, ogni rapporto con
la materia, alla quale si concede di partecipare all’eternità solo in
quanto è stata un “momento estatico d’un esercizio umano di libertà”.
In ogni caso anche in questo modello il
corpo è abbandonato alla morte, mentre contemporaneamente viene
affermata una sopravvivenza dell’uomo. Per cui la confutazione del
concetto dell’anima perde la sua credibilità, poichè implicitamente vi
si ammette l’esistenza di una “realtà” personale, separata dal corpo, il
che è esattamente quanto aveva voluto esprimere il concetto dell’anima.
Riguardo al problema della corporeità e dell’esistenza dell’anima
rimane dunque una strana mescolanza di concezioni, che non si può certo
accettare come definitiva.
La seconda domanda riguarda la filosofia
del tempo e della storia, la quale rappresenta la leva del tutto: è
davvero soltanto così che esiste quell’alternativa al tempo fisico e al
non-tempo che viene identificata con l’eternità? E’ logicamente
possibile collocare l’uomo, il quale ha vissuto il periodo determinante
della sua esistenza nel tempo, nella struttura della pura atemporalità?
Può, pertanto, un’eternità che ha un inizio essere eternità? Non è,
qualcosa che ha un inizio necessariamente non-eterno, temporale? Ma come
negare che la resurrezione dell’uomo ha “un inizio”, cioè che avviene
dopo la sua morte? Se lo negassimo, la logica ci costringerebbe a
concepire l’uomo come già risorto nell’ambito dell’eternità che non ha
inizio; il che significherebbe contraddire a ogni seria antropologia e
cadere praticamente proprio in quel platonismo che intendiamo
combattere.
Ora, G. Lohfink, un sostenitore della
tesi della risurrezione “nella morte stessa”, ha notato nel frattempo
gli inconvenienti or ora esposti e ha cercato di porvi rimedio,
richiamando il concetto medievale dell’aevum, il quale (partendo
dall’analisi dell’esistenza dell’angelo) tenta di descrivere il
particolare rapporto tra il tempo e lo spirito. Lohfink opina che la
morte non introduce nel “non-tempo”, bensì in un nuovo tipo di
temporalità che è propria dello spirito creato… (..)
… con queste argomentazioni gli
interrogativi precedenti non sono affatto eliminati… l’aevum fornisce
qualche informazione, ma non dice assolutamente nulla sul fatto che si
possa considerare come già compiuto l’insieme della storia.
Fa
uno strano effetto che un esegeta sostenga, per motivare queste
speculazioni, che per Gesù, “secondo l’interpretazione paleocristiana,
la morte è seguita immediatamente dalla risurrezione dei morti” e che
con ciò “è dato il modello reale dell’escatologia cristiana”, ma che “il
cristianesimo (qui intende la Chiesa) si è dimenticato di applicarlo,
oltre che a Gesù anche agli altri”.
Anzitutto non si dovrebbe trascurare che
il messaggio della “risurrezione al terzo giorno” evidenzia chiaramente
una cesura tra la morte e la resurrezione; ma soprattutto è innegabile
che da nessuna parte nell’annunzio paleocristiano la sorte di coloro che
muoiono prima della Parusia risulta equiparata all’evento del tutto
particolare della Resurrezione di Gesù, il quale consegue dalla
posizione assolutamente unica e ineguagliabile che Gesù occupa nella
storia della salvezza.
D’altronde occorre qui denunciare
nuovamente un platonismo accentuato sotto un duplice aspetto: in primo
luogo, in simili modelli il corpo viene privato definitivamente della
speranza della salvezza e, in secondo luogo, con l’aevum
l’ipostatizzazione della storia è minore rispetto alla teoria di
Platone, soprattutto perchè manca di logica.
Può darsi che questa nostra esposizione
sia riuscita un pochino troppo lunga. Tuttavia essa è necessaria di
fronte al fatto che nella coscienza teologica queste teorie hanno
trovato un’accoglienza pressoché unanime. Occorre far comprendere che
questo consenso poggia su un terreno estremamente fragile. Un espediente
ermeneutico tanto frammentario e complesso, pieno di crepe e di lacune,
non potrà costituire una stabile base né per la teologia né per
l’annunzio ed è in se stesso contraddittorio.
In altre occasioni, Ratzinger, userà gli
stessi concetti qui esposti per dimostrare anche come queste teorie
siano state utilizzate per inficiare la dottrina del Purgatorio: se
l’uomo appena morto risorge, quando avrà modo di spurgare le pene che
non ha terminato quando era in vita? E’ chiaro che così si vuole
giungere ad eliminare i suffragi per i Defunti – se sono risorti a cosa
serve suffragare l’anima? – e quel che ancora di più è grave, inficiare
lo stesso Sacrificio della Messa la quale ha proprio come scopo la
conversione dei viventi, essere Farmaco d’immortalità e suffragio per i
Defunti. In definitiva, spiega Ratzinger, sostenere queste teorie è
protestantizzare la dottrina cattolica, arrivare laddove voleva arrivare
Lutero.
Provate a digitare su google.it
immagini la parola “anima” o anime portate in cielo, vi accorgerete che
non uscirà nulla di cattolico, nessuna immagine o immaginetta che possa
ricondurre alla dottrina cattolica del termine anima, forse ne troverete
una o due, non di più, difficilmente troverete la santa Messa quale
supporto per le Anime dei Vivi e dei Defunti.
Anche questo è un dato significativo per comprendere come si è perduta l’identità cattolica e dei suoi termini specifici.
Sia lodato Gesù Cristo.
Sempre sia lodato.
https://cooperatores-veritatis.org/2012/11/02/ratzinger-la-parola-anima-non-cera-nel-nuovo-messale-romano/
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