domenica 6 settembre 2015

confessarsi dai Lefebvriani

CONFESSIONI VALIDE E LECITE. IL PAPA E LA FRATERNITÀ S. PIO X: SPIGOLATURE CANONISTICHE



Ringrazio Fabio Adernò, noto per essere il più giovane avvocato del Tribunale Apostolico della Rota Romana, per averci inviato questo suo testo sulla vexata questio delle confessioni amministrate dai sacerdoti FSSPX. Abbiamo dunque del materiale autorevolmente chiarificatore per i necessari approfondimenti.



CONFESSIONI VALIDE E LECITE.
IL PAPA E LA FRATERNITÀ S. PIO X:
SPIGOLATURE CANONISTICHE

Con lettera del 1° settembre 2015 inviata a Mons. Rino Fisichella, Presidente del Pontificio Consiglio per la Nuova Evangelizzazione, il Santo Padre Francesco ha disposto che nell’Anno Giubilare straordinario della Misericordia anche le confessioni amministrate dai sacerdoti della Fraternità Sacerdotale S. Pio X, fondata da Mons. Marcel Lefebvre, siano non solo valide ma anche lecite. 

Il Codex Iuris Canonici, al titolo IV, cap. II (De sacramenti poenitentiae ministro) del Libro IV (De Ecclesiae munere sanctificandi) tratta delle facoltà per conferire validamente l’assoluzione e, insieme a dichiarare che «Ministro del sacramento della penitenza è il solo sacerdote» (can. 965), specifica che occorre che lo stesso abbia la potestà di ordine ma che abbia anche la facoltà di esercitarla (cfr. can. 966, §1), ciò ipso iure o mediante concessione della competente autorità ecclesiastica (cioè l’Ordinario del luogo o il Superiore religioso, cfr. cann. 966, §2 e 969), fatto salvo il principio di diritto divino di cui al can. 976 che stabilisce che in pericolo di morte «ogni sacerdote, anche se privo della facoltà di ricevere le confessioni, assolve validamente e lecitamente […] anche quando sia presente un sacerdote approvato». 

Questo il passaggio della lettera papale: «Un’ultima considerazione è rivolta a quei fedeli che per diversi motivi si sentono di frequentare le chiese officiate dai sacerdoti della Fraternità San Pio X. Questo Anno giubilare della Misericordia non esclude nessuno. Da diverse parti, alcuni confratelli Vescovi mi hanno riferito della loro buona fede e pratica sacramentale, unita però al disagio di vivere una condizione pastoralmente difficile. Confido che nel prossimo futuro si possano trovare le soluzioni per recuperare la piena comunione con i sacerdoti e i superiori della Fraternità. Nel frattempo, mosso dall’esigenza di corrispondere al bene di questi fedeli, per mia propria disposizione stabilisco che quanti durante l’Anno Santo della Misericordia si accosteranno per celebrare il Sacramento della Riconciliazione presso i sacerdoti della Fraternità San Pio X, riceveranno validamente e lecitamente l’assoluzione dei loro peccati». 

Si tratta di un «gesto paterno» - per usare la felice espressione che si trova nel comunicato ufficiale della Casa Generalizia della Fraternità S. Pio X - che apre altresì una serie di riflessioni a ventaglio di ordine non solo pastorale ma anche giuridico-canonico. 

La disposizione pontificia espressa da Papa Francesco con atto formale risulta essere un sostanzioso passo in avanti per le relazioni tra la Santa Sede e la Fraternità, affidate dal 1988 all’attività di una specifica Commissione dipendente dalla Congregazione per la Dottrina della Fede (la Pont. Commissione “Ecclesia Dei”), ed implicitamente fa trarre alcune conclusioni significative. 
  1. La Fraternità S. Pio X non è considerata esterna alla Chiesa Cattolica. La tesi, da sempre sostenuta dai Superiori e dai Sacerdoti della comunità fondata da Mons. Lefebvre, trova nella paterna sollecitudine di Papa Francesco una ulteriore conferma, che segue all’atto di graziosa benevolenza di Papa Benedetto XVI che volle, con decreto della Congregazione per i Vescovi del 21 gennaio 2009, rimuovere la pena di scomunica inferta latae sententiae ai quattro Vescovi della Fraternità consacrati nel 1988 dagli oggi defunti mons. Lefebvre e da mons. De Castro Mayer. Il fatto che il Sommo Pontefice disponga motu proprio una norma a riguardo di una specifica comunità è espressione piena della sua giurisdizione immediata ed universale, considerandola nell’alveo della Chiesa Cattolicasub Petro. Non avrebbe avuto, infatti, alcun senso che il Papa avesse disposto di materia specifica presso destinatari che versassero in uno stato di esclusione dalla comunione ecclesiale o che fossero alieni alla giurisdizione ecclesiastica ordinaria. Il fatto che il Papa indirizzi ai Sacerdoti della Fraternità una disposizione specifica è chiaro indice del loro essere subiecti Pontifici. Del resto, scriveva già Benedetto XVI: «Può lasciarci totalmente indifferenti una comunità nella quale si trovano 491 sacerdoti, 215 seminaristi, 6 seminari, 88 scuole, 2 Istituti universitari, 117 frati, 164 suore e migliaia di fedeli? Dobbiamo davvero tranquillamente lasciarli andare alla deriva lontani dalla Chiesa? Penso ad esempio ai 491 sacerdoti. Non possiamo conoscere l’intreccio delle loro motivazioni. Penso tuttavia che non si sarebbero decisi per il sacerdozio se, accanto a diversi elementi distorti e malati, non ci fosse stato l’amore per Cristo e la volontà di annunciare Lui e con Lui il Dio vivente. Possiamo noi semplicemente escluderli, come rappresentanti di un gruppo marginale radicale, dalla ricerca della riconciliazione e dell’unità? Che ne sarà poi?» (Lettera ai Vescovi riguardo la remissione della scomunica ai quattro Vescovi consacrati dall’Arcivescovo Lefebvre, 10 marzo 2009)

  2. Con la disposizione pontificia – quantunque ad tempus – viene meno, de facto, lo stato di irregolarità canonica in cui ha versato oggettivamente la Fraternità. Benedetto XVI, nella citata lettera ai Vescovi, così scriveva: «Il fatto che la Fraternità San Pio X non possieda una posizione canonica nella Chiesa, non si basa in fin dei conti su ragioni disciplinari ma dottrinali. Finché la Fraternità non ha una posizione canonica nella Chiesa, anche i suoi ministri non esercitano ministeri legittimi nella Chiesa. Bisogna quindi distinguere tra il livello disciplinare, che concerne le persone come tali, e il livello dottrinale in cui sono in questione il ministero e l’istituzione. Per precisarlo ancora una volta: finché le questioni concernenti la dottrina non sono chiarite, la Fraternità non ha alcuno stato canonico nella Chiesa, e i suoi ministri – anche se sono stati liberati dalla punizione ecclesiastica – non esercitano in modo legittimo alcun ministero nella Chiesa». Oggi dunque, al di là dei traguardi di pacificazione dottrinale dei rapporti tra la Fraternità e la Santa Sede, appare evidente che il riconoscimento non solo della validità – canonicamente sempre extra controversiam, fuori discussione – ma anche della liceità dell’amministrazione del sacramento della penitenza si frappone come punto di non ritorno nella “questione lefebvriana”, poiché, guardando oltre la relaxatio disciplinae operata dalla disposizione pontificia «durante l’Anno della Misericordia», appare evidente che si siano già gettate le basi per un riconoscimento concreto di quella giurisdizione che la Fraternità ha sempre ritenuto di avere ratione status necessitatis a mente delle Normae Generales del Codice di Diritto Canonico e di principi fondamentali di teologia morale come «Lex positiva non obligat cum gravi incommodo»: in presenza, cioè, di un grave incomodo ogni legge puramente positiva (cioè umana, non la legge naturale o quella divina) cessa di obbligare. L’incomodo – secondo la linea della Fraternità – sarebbe l’adesione formale a determinati principi teologici e dottrinali considerati in contrasto con la Tradizione della Chiesa e pertanto non seguibili in coscienza. D’altronde, esistono incomodi di ordine spirituali che, a discrezione del singolo e della sua specifica sensibilità (sempre conformemente alla Legge divina), assumono connotati di impossibilità morale, in quei casi in cui l’azione o le azioni prescritte comportino per la persona occasioni di scandalo, di scrupoli o, comunque, occasione di tralasciare un bene maggiore: «Quanto prescriverebbe la legge canonica non potrebbe nel caso essere compiuto senza grave incomodo, in quanto l’obbedienza imporrebbe un carico materiale o spirituale senza proporzione ai valori promossi dalle legge in questione. L’equità canonica suggerisce che questo grave incomodo è causa scusante sufficiente per questa legge canonica» (FR. J. URRITIA, Les normes generales. Commentaire des canones 1-203, Paris 1994, p. 81, n. 215). Riprendendo l’insegnamento classico, per la Fraternità sussisterebbe uno stato di necessità inquadrabile in quello che nel Dictionarium morale et canonicum a cura del Card. Pietro Palazzini è così considerato: «la necessità grave comune corrisponde alla necessità estrema del singolo, in ragione della preminenza del bene comune sul bene privato»; e così argomenta un colto esponente della Fraternità in un suo scritto: «Questo punto ha due conseguenze che scaturiscono l’una dall’altra, la prima a livello dei doveri e la seconda riguardo ai poteri concessi in questa situazione. Secondo i precetti della carità, è un dovere grave soccorrere il prossimo nell’estrema necessità, e secondo quanto detto sopra lo è anche nella grave necessità comune. Palazzini dice esplicitamente che ogni sacerdote anche senza cura d’anime è tenuto ex caritate a soccorrere sub gravi il prossimo nell’estrema necessità spirituale dandogli i sacramenti, anche con pericolo di vita. E che lo stesso è tenuto a fare nella grave necessità generale. In poche parole, quando tutta una comunità è in difficoltà chiunque sia in grado deve dare una mano secondo le sue possibilità. Questo dovere di carità fonda anche le facoltà che la Chiesa dà ai sacerdoti in questi casi: in particolare tutti gli atti del potere d’ordine diventano leciti, e la giurisdizione per ascoltare le confessioni viene concessa a tutti i sacerdoti. Come è esplicitamente concesso dai canoni (c. 882; nc. 976), ogni sacerdote può lecitamente e validamente assolvere il fedele in punto di morte, cioè nell’estrema necessità; ma a quest’estrema necessità del singolo è appunto equiparata la grave necessità comune, non solo per i doveri ma evidentemente anche per le facoltà concesse onde poter adempiere a tali doveri; quindi attualmente ogni sacerdote può venire in soccorso al fedele che gli chiede l’assoluzione, ricevendo in quel preciso momento la giurisdizione necessaria per farlo a norma del diritto. Si prendano come esempi analoghi le situazioni di alcuni paesi di persecuzione, dove ogni sacerdote che può all’occasione prestare soccorso a dei fedeli lo può fare anche se questi non sono in punto di morte e non sono suoi sudditi» (M. TRANQUILLO, L’apostolato della FSSPX e lo “stato di necessità”, in Tradizione Cattolica, Anno XXI, n° 3 [76], 2010, pp. 18-24).
    Queste le medesime ragioni (discutibili, come ogni argomento di dottrina, sulle quali qui naturalmente non si intende esprimere, citandole, alcun giudizio, sia esso negativo o positivo, attesi i colloqui in corso tra i Superiori della Fraternità e la S. Sede) che hanno sempre fondato le argomentazioni da parte della S. Pio X per sostenere anche la liceità delle consacrazioni episcopali del 1988 avvenute senza Mandato Pontificio: «Fermo restando che sarebbe contro il diritto divino pretendere di conferire la giurisdizione episcopale, cosa propria al Romano Pontefice, non lo è di per sé il consacrare dei Vescovi quanto all’Ordine senza il di lui consenso (e infatti tale atto era punito fino a Pio XII solo con la pena della sospensione, segno che si tratta di disposizioni disciplinari). Davanti quindi alla necessità grave per il bene generale di trasmettere il potere d’Ordine senza dover sottostare al grave incomodo (o meglio danno) di accettare un’ambigua professione di fede, venivano a cessare le leggi positive che obbligano a ottenere il consenso del Pontefice per consacrare dei Vescovi, e con esse le pene collegate a tale atto (come è esplicitamente previsto dal diritto stesso, che libera dalla pena chiunque abbia agito spinto dalla necessità: c. 2205 §2; nc. 1323)» (ibid.).

  3. Nella lettera a Mons. Fisichella Papa Francesco auspica il ritorno alla piena comunione, ma di fatto con il suo gesto paterno si è già espresso a riguardo. Nell’ordinamento canonico è secolare la questione del rapporto tra potestà di ordine e potestà di giurisdizione, e di certo non è questa la sede opportuna per discettarne; pur tuttavia traspare con chiara evidenza che l’intentio Summi Pontificis di pacificazione – nel solco della continuità con la straordinaria opera di carità ecclesiale voluta ed attuata da Benedetto XVI – sia volta alla risoluzione del problema tanto canonico quanto dottrinale, e con la sua decisione si crei un precedente non da poco. Il riconoscimento della validità delle confessioni è, infatti, basato su due argomenti: il primo concerne la disposizione dei fedeli che devotamente frequentano le cappelle e le chiese della S. Pio X; il secondo è la potestà sacerdotale plene riconosciuta in capo ai preti della Fraternità. Non è da tralasciare un ulteriore dettaglio di ordine giuridico: mentre nel Codice Piano-Benedettino del 1917 (cfr. c. 872) si usava il termine «giurisdizione» («jurisdictio»), il nuovo Codice promulgato da Giovanni Paolo II nel 1983 (can. 966) adopera il termine «facoltà» («facultas»), poiché l’assoluzione non sembra essere un atto di potestà di regime nel senso tecnico di cui al can. 129 (cfr. Communicationes 10, 1978, 56): siamo dell’avviso che in realtà la facultas presupponga un jus: la facoltà è, infatti, la legittimazione all’esercizio di un diritto che si dà come già esistente in capo al sacerdote; quindi, a fortiori, si tratta di un passo in più rispetto alla giurisdizione, perché è exercitium juris e non mere juris tantum titulum. Oltretutto, si viene anche a configurare una peculiarità: normalmente, com’è già stato notato, ogni sacerdote ipso iure ha la facoltà di confessare lecitamente, ma sono esclusi i casi dei delitti riservati alla Sede Apostolica (cfr. cann. 977, 1367, 1370, 1378, 1382, 1388), all’Ordinario del luogo (can. 1398) ed al Canonico Penitenziere (can. 508); considerato che il Santo Padre, nella stessa lettera, estende a tutti i sacerdoti la facoltà di assolvere lecitamente anche il delitto riservato dell’aborto di cui al can. 1398 (così scrive il Papa: «Anche per questo motivo ho deciso, nonostante qualsiasi cosa in contrario, di concedere a tutti i sacerdoti per l’Anno Giubilare la facoltà di assolvere dal peccato di aborto quanti lo hanno procurato e pentiti di cuore ne chiedono il perdono»), è logico considerare che in capo ai sacerdoti della Fraternità risieda altresì questa facoltà – che da speciale, dunque, per volontà pontificia «nonostante qualsiasi cosa in contrario» diventa abituale – e che, non essendo previsto alcun limite nella disposizione papale si possa anche supporre (quantunque di mera supposizione teorica trattasi: «Privilegia Summi Pontificis ipse solus interpretari potest et debet», G. DE OCKHAM, Opera politica, cap. II, IX) che quegli stessi sacerdoti possano anche godere delle più ampie facoltà di confessare qualsiasi fedele, e non a ragione di una delega da parte dell’Autorità che le detiene territorialmente, bensì in forza di una disposizione universale del Sommo Pontefice, cui è data la Potestas clavium.
    Anche questo aspetto, dunque, sottolinea l’approccio diverso al problema dello status canonico della Fraternità, poiché si tratta la questione applicando principi generali come l’equitas (cioè la «Justitia dulcore misericordiae temperata» secondo la felice espressione di S. Cipriano, ripresa da Enrico da Susa noto come l’Ostiense, cfr. Summa,De dispens., § 1), a favore dei fedeli e della loro salute spirituale, non limitandosi ad una mera esecuzione della norma positiva, partendo da uno dei luoghi sacri dove misericordia e giustizia si uniscono: il foro interno. Del resto, l’equitas, notava un ignoto glossatore medievale, «Nihil aliud est quam Deus». Si può dunque serenamente affermare che la disposizione pontificia non conceda la giurisdizione in foro interno ma la presupponga, riconoscendo la libertà di esercizio della facoltà di confessare valite ac licite. D’altronde, è lo stesso già citato canone sulle confessioni in periculo mortis (can. 976: «Quilibet sacerdos, licet ad confessiones excipiendas facultate careat…») a dichiarare che la liceità (e non solo la validità) di dette confessioni prescinde anche dalla compresenza di un sacerdote «approvato»: detta previsione normativa conferma, dunque, che il possesso o meno della facoltà non sia talmente essenziale ai fini del sacramento da dover considerare l’esercizio del diritto come extrema ratio, bensì ne sia espressione naturale che conferma la titolarità di un diritto, che in casu è discendente dal conferimento e dalla legittima ricezione dell’Ordine Sacro.

  4. Il Papa, infatti, scrive «mosso dall’esigenza di corrispondere al bene di questi fedeli, per mia propria disposizione stabilisco che quanti durante l’Anno Santo della Misericordia si accosteranno per celebrare il Sacramento della Riconciliazione presso i sacerdoti della Fraternità San Pio X, riceveranno validamente e lecitamente l’assoluzione dei loro peccati» (sottolineature ns.). Nel nostro caso, infatti, si tratta di una disposizione, per così dire, che “di riflesso” riguarda la Fraternità da un punto di vista istituzionale, perché «è rivolta a quei fedeli che per diversi motivi si sentono di frequentare le chiese officiate dai sacerdoti della Fraternità San Pio X». Con questa espressione il Papa, saltem implicite, tratta l’argomento dello stato di necessità o comunque di difficoltà pastorale di un numero – per altro non indifferente – di fedeli cattolici che si sentono legati alla Tradizione e, segnatamente, alla Fraternità. Il Santo Padre si prende cura di loro, non li ritiene extra Ecclesiam, non li definisce né scomunicati né scismatici (come spesso sommariamente e incautamente qualcuno li definisce) ma piuttosto li rasserena spiritualmente assicurando la liceità delle loro confessioni, al fine di lucrare l’Indulgenza giubilare. Di riflesso - si diceva - i sacerdoti della Fraternità che amministrano il sacramento agiscono in modo non solo valido ma anche lecito, poiché in capo a loro si presuppone l’esistenza ontologica della potestà di giurisdizione e non solo di ordine (mai messa in discussione), che ora però vengono esercitate apertamente in modo congiunto col beneplacito del Romano Pontefice, teleologicamente ordinate al conseguimento della salus animarum, che nella Chiesa è suprema lex (cfr. can. 1752 CIC).
Esercitando a pieno il munus Petrinum, Papa Francesco, nel contesto peculiare dell’Anno giubilare della Misericordia, guarda con paterna sollecitudine alle diverse realtà che compongono il variegato mondo ecclesiale, applicando sapientemente il cantus firmus del suo pontificato a quella molteplicità di carismi che rendono peculiare il Popolo di Dio (cfr. Lumen gentium, 12; Apostolicam actuositatem, 3), non escludendo coloro i quali sono, per vari motivi, legati alle tradizioni.

La lettera papale conferma, dunque, la via di pacificazione sapientemente costruita e ampiamente solcata da Papa Benedetto XVI nel corso del suo Pontificato, ed attraverso modalità semplici e spontanee innesta nel cammino ecclesiale conseguenze non indifferenti per una conciliazione giuridica che tenga presente in modo equilibrato le necessità pastorali anche di quanti ritengono che non sia opportuno cedere ciecamente a quel percorso che vuole la conoscenza umana, l’evoluzione filosofica del pensiero, il cammino della spiritualità come geometricamente visualizzati come una semiretta che procede indefessamente verso l’avanti, senza mai farsi frenare dal dubbio che tale concezione a senso unico del progresso possa trarre in inganno, arrivando a non coincidere affatto col concetto di miglioramento, quando, al contrario, da un punto di vista strettamente logico, è forse molto più probabile pensare che l’errore si celi dietro l’aleatorietà di un’innovazione piuttosto che fra quelle pieghe che l’esperienza umana ha oramai acquisito come giuste e virtuose. 

Confidiamo che i chicchi di questo Anno giubilare, se così opportunamente seminati, unendo la Misericordia alla virtù della Giustizia nell’adesione alla Verità, possano produrre robusti alberi che rinvigoriscano i polmoni della Chiesa, orientando l’anelito alla contemplazione della Bellezza trascendente di Dio, di cui è sublime Icona l’immacolata Sposa di Cristo che trova la sua epifania nel Pontificato romano.
Fabio ADERNÒ

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