di Massimo Viglione
Il fatto di essere cattolico, e cattolico “tradizionalista” – oggi occorre specificare che tipo di cattolico si è, a meno di mentire a noi stessi e al prossimo, data la drammatica crisi che la Chiesa da cinquant’anni e oltre vive che comporta inevitabilmente la divisione interna al suo popolo, una divisione sempre più radicale e radicata in rapporto all’acuirsi della crisi stessa – e il fatto di vivere a Roma, e il fatto di conoscere la storia e presumere di capire qualcosa di politica, mi hanno sempre portato a provare dentro di me in maniera del tutto particolare un sentimento profondo quanto istantaneo di forza interiore ogni volta che la passeggiata serale mi conduceva in Piazza San Pietro e mi faceva vedere la luce accesa dell’ufficio papale, sebbene il medesimo sentimento era sempre macchiato dal dolore – questo nient’affatto istantaneo – misto a rabbia per i tanti errori di cui i precedenti pontefici sono stati responsabili negli ultimi decenni (solo per citarne uno a nome di tutti per rendere l’idea: la follia – sia teologica che liturgica, dottrinale che storico-politica – ecumenista, di cui in questi giorni iniziamo a raccogliere i frutti avvelenati del tradimento del clero dinanzi all’invasione della nostra terra).
Sebbene fortemente critico verso i due pontefici delle mie passeggiate serali negli anni Novanta e nei primi tredici anni di questo secolo, e specie verso il primo dei due, il fatto stesso comunque di arrivare nella piazza centro del mondo e della storia umana e trovare, anche a sera molto avanzata, la luce accesa aveva comunque un significato forte: la luce … è accesa. Comunque, nonostante tutto.
Come detto, si potevano trovare tante ragioni per criticare non pochi dei frutti di quel lavoro serale. Ma la luce… era accesa. Al di là delle questioni strettamente teologiche, dottrinali, liturgiche, ecc, era un sentimento che emanava dal cuore: nella notte profondissima e sempre più tragicamente tenebrosa dei nostri giorni, nonostante tutto, la luce dell’umanità, per quanto troppo spesso acquiescente a tali tenebre, era accesa. Quella finestra illuminata, nonostante tutto, rappresentava qualcosa. Nonostante tutto, riconduceva a Qualcuno.
Chiunque, cattolico o no, romano o no, arrivava nella Piazza, vedeva quella luce accesa in quella stanza, che a prescindere è e rimane centro di speranza, di fede e di Verità su questa terra.
Da due anni e mezzo, chi arriva in Piazza San Pietro non trova più, mai, in nessun caso, quella luce accesa. Trova il buio in quella finestra e in quella stanza, come in tutte le altre finestre e stanze del palazzo pontificio.
La luce si è spenta, perché il Vescovo di Roma ha scelto, come tutti sanno, di vivere in un convitto, chiamato Santa Marta, all’interno delle mura vaticane.
Il lettore non trovi esagerato quanto ora sto per dire. Abbia invece il coraggio morale, intellettuale e soprattutto spirituale di capire e ammettere a se stesso di capire. Capire cosa? Capire che, per un cattolico romano (anche non romano ma romano di fede apostolica) arrivare in Piazza San Pietro e trovare sempre, per settimane, per mesi, per anni, sempre, sempre, sempre, la luce spenta, è in qualche modo la versione secolare di quello che si prova nell’entrare in una chiesa odierna e trovare un’altra luce spenta.
Queste sono cose che solo i cattolici possono capire. E pertanto non spenderò parole a descrivere la sensazione: chi la può capire la capisce, e chi non la può o non la vuole capire, non la capirà certo per quello che io potrei scrivere, né la vorrà mai capire e tanto meno ammetterà di aver capito.
La luce s’è spenta in Vaticano. È finita in un convitto al piano terra, dove si parla di interviste celebrative a noti giornalisti anticattolici e relativisti, di telefonate a mostri famelici di sangue umano, di condizionatori e di problemi con Gaia; di tanto in tanto ci dice che dobbiamo essere aperti alle novità dottrinali e morali che stanno per arrivare e di non importunare il macchinista con discorsi di stampo moralistico sul genere “principi non negoziabili” o magari avanzando pretese di difesa per i nostri fratelli massacrati nelle terre islamiche, che dobbiamo perdonare ogni cosa a prescindere dal vero pentimento e dalla relativa richiesta di perdono per poi ricordarci che Dio non è cattolico… E ci propone al contempo di tornare di 40-50 indietro nella storia, marciando con gli Inti-Illimani guidati da una croce e martello. Ma è meglio non cominciare neanche la ormai inesauribile litania della nuova chiesa al piano terra… Non serve a chi capisce e non servirebbe mai, per quanto lunga e inoppugnabile, a chi non vuole o fa finta di non capire.
Quando negli anni Novanta e nel primo decennio di questo secolo passeggiavo la sera per San Pietro, avevo tante ragioni per adirarmi e/o rattristarmi. Ma poi potevo pensare anche all’Evangelium Vitae, alla Veritatis Splendor, alla strenua difesa della vita sacra umana, alla difesa, almeno dottrinale, della centralità di Cristo in un’Europa ormai apostata e devastata, potevo pensare al baluardo dei principi non negoziabili, al ritorno della Messa di sempre nella Chiesa, a – in qualche modo – una sapienza di governo, basata sugli ultimi rimasugli della millenaria gestione della Chiesa stessa, che dava senso ancora a quella luce accesa, sebbene macchiata da troppi, troppi, cedimenti a un mondo che non si voleva ammettere essere fino in fondo nemico di Cristo e dell’uomo e che si corteggiava con i fraintendimenti pericolosi sui diritti umani e sul dialogo con quel nulla sistematico che sono l’eresia e le false religioni.
Ma oggi, quella luce, non c’è più, la finestra è chiusa. Oggi ci sono altri che ballano la loro danza macabra e infame, che si chiamino Maradiaga, Kasper, Marx, Galantino, Mogavero, Forte, Baldisseri, e tanti altri ancora: sono costoro i danzatori delle tenebre, gli odiatori di Piazza San Pietro, gli approfittatori del buio intervenuto, i traditori della finestra illuminata. Ma, occorre dire, tutti costoro non sono venuti dal nulla. Qualcuno li ha fatti salire in alto, anche quando la luce era accesa e qualcun altro ora sta dando loro il potere.
Questo qualcun altro è colui che ha spento la luce e se n’è andato al convitto, per far vedere di fare a meno del lusso dei palazzi rinascimentali, ma portandosi ben stretto il telefono che lo collega al lusso di questa società infernale e ai suoi riflettori da ribalta.
Ma noi, fedeli cattolici romani che nulla possiamo eccetto la nostra preghiera e la nostra testimonianza, andremo ancora in Piazza San Pietro la sera, e ancora, e ancora, nella incrollabile certezza che quella luce verrà di nuovo riaccesa e splenderà come mai in precedenza. E quel giorno, sia che saremo ancora su questa terra, sia che ce ne saremo già andati, quel giorno, potremo dire dinanzi a Dio: io ho continuato ad andare in Piazza San Pietro e ho continuato ad aspettare fino alla fine la Tua nuova luce, in una certezza intellettuale e morale che trovava il suo incrollabile fondamento nella Tua promessa: “Portae Inferi non praevalebunt”.
Solo i furbi e gli stolti, gli ipocriti e i bugiardi, possono non cogliere il significato simbolico delle luci che si spengono. E delle finestre che rimangono chiuse, con le loro stanze vuote.
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