Natale. Quando tramontano gli dei e sorge il sole di Dio
di Joseph Ratzinger
Le luci del Natale risplendono nuovamente nelle nostre strade,
l'operazione natale è in pieno svolgimento. Per un momento, anche la
Chiesa viene resa partecipe, per così dire, della congiuntura
favorevole: nella notte santa le case di Dio si stipano di tutte quelle
persone che poi, per molto tempo, passeranno nuovamente dinanzi alle porte
delle chiese come davanti a qualcosa di molto lontano ed estraneo, che non li
riguarda. Ma, in questa notte, Chiesa e mondo sembrano per un istante
riconciliati. Ed è davvero bello! Le luci, l'incenso, la musica, lo sguardo
delle persone che riescono ancora a credere e, infine, il misterioso e antico
messaggio del bambino, nato molto tempo fa a Betlemme e chiamato il redentore
del mondo: «Cristo, il salvatore, è qui!».
Questa idea ci commuove. Eppure, i concetti che ora udiamo di
‘redenzione’, ‘peccato’, ‘salvezza’ risuonano come parole provenienti da un
mondo da tempo ormai passato; forse questo mondo era bello, ma, in ogni caso,
non è più il nostro. O lo è, invece? Il mondo in cui sorse la festa di
Natale era dominato da un sentimento che è molto simile al nostro. Si trattava
di un mondo in cui il ‘crepuscolo degli dèi’ non era uno slogan, ma un fatto
reale. Gli antichi dei erano a un tratto divenuti irreali: non esistevano
più, la gente non riusciva più a credere ciò che per generazioni aveva dato
senso e stabilità alla vita. Ma l'uomo non può vivere senza senso, ne ha
bisogno come del pane quotidiano. Così, tramontati gli antichi astri, egli
dovette cercare nuove luci. Ma dov'erano? Una corrente abbastanza diffusa
gli offriva come alternativa il culto della ‘luce invitta’, del sole, che
giorno dopo giorno percorre il suo corso sopra la terra, sicuro della vittoria
e forte, quasi come un dio visibile di questo mondo. Il 25 dicembre, al centro
com'è dei giorni del solstizio invernale, doveva essere commemorato come il
giorno natale, ricorrente ogni anno, della luce che si rigenera in tutti i
tramonti, garanzia radiosa che, in tutti i tramonti delle luci caduche, la luce
e la speranza del mondo non vengono meno e da tutti i tramonti si diparte una
strada che conduce a un nuovo inizio.
Le liturgie della religione del sole avevano molto abilmente
assunto un'angoscia e una speranza originarie dell'uomo. L'uomo primitivo che,
in passato, nelle notti sempre più lunghe d'autunno e nella forza sempre più
debole del sole, aveva avvertito l'arrivo dell'inverno, si era chiesto ogni
volta con angoscia: muore davvero il sole dorato? Ritornerà? O finirà,
quest'anno o un altr'anno, con l'esser vinto dalle forze maligne delle tenebre,
così da non ritornare mai più? Il sapere che ogni anno ritornava il solstizio
d'inverno garantiva in fondo la certezza della rinnovata vittoria del sole,
del suo sicuro e perpetuo ritorno. È la festa in cui si compendia la speranza,
anzi, la certezza dell'indistruttibilità delle luci di questo mondo.
Quest'epoca, nella quale alcuni imperatori romani avevano cercato di dare ai
loro sudditi, in mezzo all'inarrestabile caduta delle antiche divinità, una
fede nuova con il culto del sole invitto, coincide col tempo in cui la fede
cristiana tese la sua mano all'uomo greco-romano. Essa trovò nel culto del sole
uno dei suoi nemici più pericolosi. Tale segno, infatti, era posto troppo
palesemente davanti agli occhi degli uomini, in maniera molto più palese e
allettante del segno della croce, col quale procedevano gli araldi
cristiani. Ciononostante, la fede e la luce invisibile di questi ultimi
ebbero il sopravvento sul messaggio visibile, col quale l'antico paganesimo
aveva cercato di affermarsi.
Molto presto i cristiani rivendicarono per loro il 25 dicembre,
il giorno natale della luce invitta, e lo celebrarono come Natale di Cristo,
come giorno in cui essi avevano trovato la vera luce del mondo. Essi dissero
ai pagani: il sole è buono e noi ci rallegriamo non meno di voi per la
sua continua vittoria, ma il sole non possiede alcuna forza da se
stesso. Può esistere e aver forza solo perché Dio lo ha creato. Esso ci
parla quindi della vera luce, di Dio. E il vero Dio che si deve celebrare, la
sorgente originaria di ogni luce, non la sua opera, che non avrebbe alcuna forza
da sola. Ma questo non è ancora tutto, non è ancora la cosa più importante. Non
vi siete accorti forse che esistono un'oscurità e un freddo, nei riguardi dei
quali il sole è impotente? È quel freddo che sorge dal cuore ottenebrato
dell'uomo: odio, ingiustizia, cinico abuso della verità, crudeltà e
degradazione dell'uomo... A questo punto, ci accorgiamo, come
d'improvviso, che tutto questo è per noi stimolante e attuale, sentiamo che il
dialogo del cristiano con gli adoratori romani del sole è, al tempo stesso, il
dialogo del credente di oggi col suo fratello incredulo, è il dialogo
incessante tra fede e mondo. Ma, si dice, la paura primitiva che il sole
potrebbe un giorno morire, da tempo ormai non ci preoccupa più. La fisica, col
fresco alito delle sue chiare formule, l'ha da tempo uccisa.
È vero, l'angoscia primitiva è passata, ma si può dire che
l'angoscia sia con questo davvero scomparsa? O, forse, non è sempre l'uomo un
essere d'angoscia, a tal punto che la filosofia odierna indica l'angoscia addirittura
come ‘esistenziale fondamentale’ dell'uomo? Quale periodo della storia
dell'umanità ha sperimentato, più del nostro, un'angoscia maggiore di fronte al
proprio futuro? Forse l'uomo di oggi si accanisce nel presente solo perché non
riesce a guardare in faccia il futuro: il solo pensarvi gli procura degli
incubi. In altre parole, non abbiamo più paura che il sole possa esser
vinto un giorno dalle tenebre e non ritorni più. Ma noi temiamo l'oscurità che
viene dagli uomini.
Abbiamo così scoperto la vera tenebra e, in questo secolo di
inumanità, la avvertiamo più spaventosa di quanto poterono pensare le
generazioni che ci hanno preceduto. Abbiamo paura che il bene divenga davvero
impotente nel mondo, che a poco a poco non abbia più senso sforzarsi a
praticare verità, purezza, giustizia, amore, perché ormai nel mondo vale la
legge di chi meglio sa farsi strada a gomitate, perché il cammino del mondo dà
ragione a chi è senza scrupoli, ai brutali, non ai santi. Infatti, vediamo
dominare il denaro, la bomba atomica, il cinismo di coloro per i quali non
esiste nulla di sacro. Sovente ci sorprendiamo in preda al timore che, alla fine,
non vi sia alcun senso nel caotico corso di questo mondo, e ci pare che, in
definitiva, la storia del mondo non distingua altro che gli stolti e i forti...
Regna la sensazione che le forze oscure aumentano, che il bene è
impotente. Alla vista del mondo, ci coglie d'improvviso quel sentimento che,
in passato, le persone dovettero provare quando, in autunno e inverno, il sole
sembrava combattere la sua agonia. Vincerà, il sole, questa battaglia? Il bene
otterrà senso e forza nel mondo? Nella stalla di Betlemme ci è offerto il
segno che ci fa rispondere lieti: sì. Infatti, questo bambino - il Figlio
unigenito di Dio - è posto come segno e garanzia che, nella storia del mondo,
l'ultima parola spetta a Dio, a lui che è la verità e l'amore. Questo è il
senso vero del Natale: è il «giorno in cui nasce la luce invitta», il solstizio
d'inverno della storia mondiale. In mezzo all'altalena di questa storia ci è
data la certezza che la luce non morirà, ma tiene già nelle sue mani la
vittoria finale. Il Natale allontana da noi la seconda, più grande
angoscia, che nessuna fisica può disperdere, la paura per l'uomo e dell'uomo
stesso. Noi possediamo la certezza divina che la luce ha già vinto nella
profondità occulta della storia e che tutti i progressi del male nel mondo, per
grandi che essi siano, non possono assolutamente cambiare le cose. Il solstizio
invernale della storia si è irrevocabilmente verificato con la nascita del
bambino di Betlemme.
Ma qualcosa sorprende certamente in questa nascita della luce, in
questo ingresso del bene nel mondo, e ciò potrebbe tornare a riempirci di
un'inquietante certezza e farci chiedere se il fatto grande di cui parliamo sia
realmente avvenuto lì, nella stalla di Betlemme. Il sole è grande, magnifico e
potente; nessuno può ignorare la sua annuale corsa trionfale. Il suo creatore
non dovrebbe essere ancora più potente e più inconfondibile nella sua venuta?
Questo sorgere del sole della storia non dovrebbe inondare il volto della terra
di indicibile splendore? E invece... Quanto è misero tutto ciò di cui ci parla
il vangelo! O, forse, dev'essere proprio questa povertà, l'insignificanza per
il mondo, il segno con cui il Creatore manifesta la sua presenza? A prima vista,
questa sembrerebbe un'idea inconcepibile. Eppure, chi approfondisce il mistero
del governo divino, quale appare soprattutto negli scritti dell'antica e della
nuova Alleanza, capisce sempre più chiaramente che esiste un duplice segno di
Dio. Vi è, anzitutto, il segno della creazione, che, tramite la sua grandezza
e magnificenza, ci fa presentire colui che è ancora più grande e magnifico.
Ma, accanto a questo segno, si fa avanti sempre più fortemente
l'altro, il segno costituito da ciò che è insignificante per il mondo: con
esso Dio si afferma come totalmente altro nei confronti di tutto il mondo, per
farci così capire che egli non può essere misurato con i criteri di questo
mondo, che egli sta al di là di ogni sua dimensione. Forse, il miglior modo
per comprendere questa singolare opposizione dei due segni, in cui Dio si
afferma, e per capire la natura del secondo segno, del segno dell'umiltà, è
quello di guardare all'opposizione che esiste tra la predicazione messianica di
Giovanni Battista e la realtà messianica di Gesù stesso. Giovanni aveva
descritto colui che doveva venire secondo le concezioni veterotestamentarie,
in modo grandioso, come colui che pone la scure alla radice dell'umanità, come
giudice pieno di collera santa e di potenza divina.
Come è diverso quando viene! Egli è il Messia che non grida e non
fa chiasso per le strade, che non spezza la canna incrinata e non spegne lo
stoppino dall'esile fiamma (Is 42,2s.). Giovanni aveva saputo che sarebbe stato
più grande di lui, ma non aveva conosciuto la natura della sua grandezza: essa
consiste nell'umiltà, nell'amore, nella croce, in quei valori della segretezza
e del silenzio che Gesù stabilisce nel mondo come supremi valori. La vera
grandezza non risiede, in definitiva, nella grandezza delle dimensioni fisiche,
ma in ciò che non risulta più misurabile per mezzo di esse. In verità, ciò che
secondo le misure fisiche è grande, è solo una forma molto provvisoria di grandezza. In
questo mondo i veri e supremi valori si presentano proprio sotto il segno
dell'umiltà, della segretezza, del silenzio. Ciò che è essenzialmente grande
nel mondo, ciò da cui dipende il suo destino e la sua storia, è quello che
appare piccolo ai nostri occhi. A Betlemme Dio, il quale aveva scelto come suo
popolo il piccolo e dimenticato popolo d'Israele, ha posto definitivamente il
segno della piccolezza come distintivo essenziale della sua presenza in questo
mondo. Ecco la decisione - la fede - della notte santa: noi lo dobbiamo
accogliere in questo segno e fidarci di lui senza mormorare. Accoglierlo
significa porre se stessi sotto questo segno, sotto la verità e l'amore, che
sono i valori più alti e più simili a Dio e, al tempo stesso, i più
dimenticati e più silenziosi.
Mi sia concesso, a conclusione, di narrare una storia della mitologia
indiana, che ha presentito in maniera davvero sorprendente questo mistero
della piccolezza divina. In uno dei miti che circondano la figura di Visnu
si dice che gli dèi sarebbero stati sopraffatti dai demoni e avrebbero dovuto
stare a guardarli mentre essi si dividevano tra loro il mondo. Escogitarono
allora un sotterfugio: chiesero ai demoni solo tanta terra quanta il minuscolo
corpo nano di Visnu riusciva a coprire. Gli spiriti maligni acconsentirono.
Una cosa però non avevano sospettato: Visnu, il nano, era il sacrificio che
compenetrava il mondo intero e così, per mezzo suo, il mondo fu restituito agli
dèi. Questo racconto può sembrare a qualcuno come un sogno, che, attraverso
appunto la confusa prospettiva del sogno, fa sospettare la figura del reale. In
effetti, è la minuscola realtà del sacrificio, dell'amore vicario, che alla
fine si dimostra più forte di ogni potenza dei forti e che, alla fine,
compenetra e trasforma il mondo con la sua misera insignificanza.
Nel bambino di Betlemme, tale potenza invincibile dell'amore
divino è entrata in questo mondo. Questo bambino è l'unica vera speranza del
mondo. E noi siamo chiamati a metterci dalla sua parte; ad affidarci a Dio, il
cui segno sono divenute la piccolezza e la bassezza. Ma, in questa notte, il
nostro cuore dev'essere riempito di grande gioia, perché, malgrado tutte le
apparenze, è e rimane vero che Cristo, il nostro salvatore, è qui.
Natale da Chi ci aiuta a vivere? Su Dio e l’uomo,
Queriniana, pagg.97-103
di Joseph Ratzinger
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