Ricevo molte email ultimamente, sia da conservatori che progressisti, che pongono all’incirca la stessa domanda: “Il Vaticano II è continuità o rottura?”. A questa domanda ha già risposto papa Benedetto XVI nel suo discorso alla curia romana del 22 dicembre 2005, in cui dichiarò espressamente che l’ermeneutica giusta è quella della “riforma nella continuità”. Purtroppo, però, ammette il Santo Padre, nella Catholica ha prevalso un’ermeneutica scorretta, quella “della rottura e della discontinuità”.
Come è stato possibile questo? Perché – ma si tratta di una mia personalissima opinione – i padri conciliari non hanno usato un linguaggio definitorio, come fu sempre fino ad allora, ma hanno adoperato un linguaggio discorsivo, teologico, se non, addirittura, filosofico, che ha lasciato spazio a molteplici interpretazioni.

La costituzione dogmatica Lumen Gentium, per esempio, dice che “la Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica”. Un documento dottrinale della Congregazione della Dottrinale del 29 giugno 2007 spiega perché fu usata quell’espressione e non quella consueta – la Chiesa di Cristo è la Chiesa cattolica – e confermò, ovviamente, che la nuova espressione non cambia la dottrina: la Chiesa di Gesù Cristo è soltanto ed esclusivamente la Chiesa cattolica. Ma io ritengo che sarebbe stato meglio usare la consueta espressione; si sarebbero evitate tante deviazioni dottrinali, soprattutto in ambito ecumenico. Ogni “settimana di preghiera per l’unità dei cristiani”, per esempio, sento qualche bestialità. L’ultima è la seguente: “La Chiesa di Cristo è composta dalle tre grandi religioni monoteiste (ebraismo, cristianesimo e islam) perché adorano lo stesso Dio”.

Dal post-concilio, purtroppo, ne abbiamo sentite tante di queste “bestialità” e sicuramente ne sentiremo altre per molti anni ancora. Nell’ecclesialità contemporanea, infatti, l’eresia ha molto più spazio che l’ortodossia.

«Talvolta in qualche settore del mondo cattolico», scrive il cardinale Giacomo Biffi, arcivescovo emerito di Bologna, nel suo libro Pecore e pastori (Cantagalli, 2008), «si giunge persino a pensare che debba essere la divina Rivelazione ad adattarsi alla mentalità corrente per riuscire credibile, e non piuttosto che si debba convertire la mentalità corrente alla luce che ci è data dall’alto. Eppure si dovrebbe riflettere sul fatto che “conversione”, e non “adattamento”, è parola evangelica».

L’adattamento al pensiero della modernità arriva addirittura a rifiutare la divinità di Gesù Cristo – rileva con amarezza il più cattolico dei cardinali italiani – ridotto a semplice uomo, sia pure di straordinario valore morale, religioso, politico e sociale: «Per quanto l’affermazione possa sembrare paradossale, la questione ariana è sempre all’ordine del giorno nella vita ecclesiale. I pretesti possono essere tanti: dal desiderio di sentire Cristo più vicino e più uno di noi, al proposito di facilitarne la comprensione esaltandone quasi in modo esclusivo gli aspetti sociali e umanitari. Alla fine l’approdo è sempre quello di togliere al Redentore dell’uomo la sua radicale unicità e di classificarlo tra gli esseri trattabili e addomesticabili. Sotto questo profilo si potrebbe dire che allora il Concilio di Nicea è oggi molto più attuale del Concilio Vaticano II».

Il Concilio Vaticano II non ha modificato il “depositum fidei”. Però il para-Concilio Vaticano II – il cosiddetto ”spirito del concilio” di dossettiana memoria – ha modificato la mentalità dei cattolici. Niente più conversione per il Regno dei Cieli ma adattamento al mondo e alla sua modernità. Niente più ansia per il Paradiso, per l’incontro faccia a faccia con Dio, ma per un mondo più giusto, equo e solidale.