giovedì 5 aprile 2012

giovedì s.

GIOVEDI’ SANTO


Nei porti di fortuna della vita
l’attracco più dolce
è la Messa



"Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi prima della mia Passione..."
Si siedono rumorosamente e sono accanto senza essere insieme. Invano ha cercato il Maestro di renderli gruppo, famiglia. Nei loro cuori stasera albergano sentimenti di gelosia, di violenza, di cattiveria: sono figli che non sono diventati fratelli. Al semplice guardarli Lui intuisce le loro trame e i loro umori: Andrea guarderà fisso nel piatto senza dire una parola, Filippo divorerà le pietanze come un cane dinnanzi alla sua ciotola, Bartolomeo si alzerà brillo e dovrà essere accompagnato a casa ubriaco, Mat­teo farà commenti malevoli sul cibo e chi lo ha cucinato, Giacomo si accaparrerà la coscia dell’agnello e si farà scudo con le braccia perchè nessuno lo disturbi. Per loro è una cena come le altre, una Pasqua qualsiasi da consumare in fretta come prescrive il rituale. Per Lui no, è la PASQUA, quella per cui si mise in cammino dall’eternità per raggiungere questa piccola manciata di giorni, queste pietre, queste strade polverose e assolate di Palestina, questa città santa di cui, nonostante le sue lacrime, non resterà pietra su pietra. Tutti mangiano e bevono in fretta per sottrarsi ai martirio di essere famiglia, Lui vorrebbe fermare il tempo e mettere il rallentatore alla clessidra, per questo cerca di riunirli ora che sono convocati intorno alla mensa, e svela un sentimento del Suo Cuore: "Ho desiderato ardentemente di mangiare con voi questa Pasqua". Ma nessuno lo ascolta nel rumore di posate e calici, di mandibole e ruminazioni, neppure il discepolo-aquila che gli siede accanto e, per parlare con Pietro, gli si stende davanti impedendogli di prendere il pane. Sere come questa abbuiano anche nelle nostre vite quando c'e chi ha fretta di crescere e chi vorrebbe che il tempo si fermasse: perchè non ci capiamo? "Rimanete nel mio amore..." il Maestro lo ripete spesso, a singhiozzi, ma nessuno lo ascolta.

Maggio 1974
Siamo venuti a piedi dal Seminario di Sorrento, Ugo ed io, per via Rota con il glicine in fiore e le ville che affacciano a mare. E’ 1'ultima primavera delle Medie Superiori, con 1'incognita del futuro e gli esami di maturità che mettono paura. Sorrento e già una girandola di colori e profumi coi caffè che sciorinano tavolini e gerani sui marciapiedi e folle di turisti dalla pelle candida e dagli accenti più strani. Ogni settimana facciamo questo pellegrinaggio al Castello di Don Onorio per coltivare una paternità, per ascoltare una istruzione spirituale nella stanza alta sulla torre che profuma di antico e di mi­steri, per confessarci. Per strada abbiamo scherzato (siamo amici dall'infanzia), e progettato di chiedere una sospensione della periodicità settimanale degli incontri a favore delle ultime interrogazioni prima degli scrutini: va da sè che devo es­sere io a intavolare il discorso chiedendo la deroga perchè "tu sai come dire!" ha detto Ugo non certo per farmi un complimento. Non ci siamo accorti che è passata la serie di alberghi famosi ("Cocumella", "Parco dei Principi") e già si notano le guglie della facciata della Chiesa dei Cappuccini. Villa Crawford ci accoglie col suo fascino da Camelote le scale che portano all'ultirno piano sono fatte di corsa per bussare alla porta intagliata che separa gli ambienti della Villa riservati alle Suore Salesiane dai pochi rimasti agli antichi proprietari.
Don Onorio ci accoglie per il rituale incontro. Non ricordo cosa ci disse quel giorno attingendo al repertorio ignaziano degli Esercizi, non ho memoria della mia solita confessione sull'inginocchiatoio del suo Oratorio in penombra ricco di cuscini. Ma ho chiaro il momento del congedo sulle scale (quanta luce pioveva in quel punto dal soffitto!) quando stavamo per andare via ed io non avevo ancora trovato il coraggio di chiedere di saltare l'incontro successivo. Mentre parlava fece una smorfia di dolore e si portò istintivamente una mano all'addome. Approfittai del momento per presentare timidamente la richiesta che - ne ero certo - avrebbe avuto per lui il sapore di un piccolo tradimento. Mi aspettavo una protesta, forse un rimprovero o un'opera di convincimento in cui ovviamente vinceva sempre lui, ma stranamente accolse la proposta: "Certo, capisco, sono gli ultimi giorni, forse è preferibile dilazionare gli incontri con scansione quindicinale!". Non mi sembrò vera quella vittoria, la intascai lieto e, con Ugo, dopo aver salutato, facemmo le scale a due a due. C’era veramente bisogno per la nostra performance scolastica di quel rimando dell’appuntamento? Fu un modo per celebrare da adolescenti la nostra autonomia dal padre? E’ certo che dopo quarant'anni rievoco quel momento e sento, scendendo le scale, il peso dello sguardo di Don Onorio sulle mie spalle come per il figliuol prodigo. Forse quello sguardo ci chiedeva di restare, di tornare, come di consueto, dopo una settimana, forse ci implorava di fermarci e di implorare la benedizione come i monaci all'abate prima di partire, ma eravamo troppo giovani per capire. Lo rividi dopo quindici giorni cadavere nella cappella delle suore. Non avevo capito che quella Pasqua era 1'ultima. Nel tempo.

Giovedì Santo 2000
Ne racconto uno, ma la data potrebbe variare, senza grandi differenze dal 1980 ai 2006. Si giunge alla Messa in Cena Domini stanchi di un cammino quaresimale intenso fatto di fioretti, preghiera, Ritiri ed Esercizi Spirituali, vie Crucis affollate, prove del Coro del Miserere, una notte intera di confessioni e poi le puntuali polemiche tra Confraternite, i momenti di tensione, "le discese ardite e le risalite".
Stamattina la Messa Crismale con 1'ansia di arrivare puntuali e la mente tirata tra 1'altare della Cattedrale col pienone di preti e quanto ancora manca in parrocchia al1'altare della Reposizione e alla celebrazione serale. Sguardi tra preti giovani ed anziani, l’incedere frettoloso del cerimoniere, 1'Olio che è benedetto e che porteremo in parrocchia in piccoli vasi come le vergini prudenti del Vangelo. L'omelia del Vescovo, 1'attesa e temuta rinnovazione delle promesse sacerdotali: "Sì, lo voglio!". Esce come un tuono dai petti dei preti e fa tremare le volte della cattedrale e il cuore dei seminaristi che attendono con ansia di essere dei nostri. Si ricomincia da capo. Terminata la celebrazione fuori ci attende il sole di primavera e mille incombenze che ci fanno scappare versando qualche goccia di Crisma sul pavimento. Il Vescovo vorrebbe fermarci, ma noi abbiamo altro cui attendere, altri ci attendono e facciamo la fila per salurarlo e scappare via lasciandolo solo al centro del piazzale con ancora gli abiti liturgici e le insegne.
Le ore sono volate ed e già pronta la processione introitale della Messa in Cena Domini. La Basilica e inondata dal profumo delle fresie e delle violacciocche, sull’altare fiori e grano, uva e pani azzimi dono puntuale di Maria Teresa. Il Vescovo stamattina senza volerlo ha contato i preti e notato le assenze o le presenze forzate, faccio lo stesso stasera e mi pesano sul cuore 1'assenza di animatori e responsabili, il buco nero di qualche vuoto in assemblea o di chi 1'anno scorso era con noi ed ora, come prete o seminarista, ha avuto assegnato un'altra trincea. Entro anch'io, con le tristezze e i fallimenti di uomo, nella Stanza Alta del Cenacolo e, attraverso di essa, nel Cuore di Cristo. Il sole tramonta e accende le volte del Cenacolo e gli ori della Basilica: finisce per te, Gesù, 1'ultimo giorno intero, l’alba del prossimo ti troverà già incatenato e l'Ora Nona lacererà il velo del tempio con 1'urlo che Munch raccoglierà in un quadro diciannove secoli dopo. Cerco di procedere lentamente, ma tutto congiura a favore della fretta: i ministranti in numero ridotto che in sacrestia toglieranno talare e cotta per indossare il saio della Processione dei Bianchi, le signore che hanno la mente rivolta ai casatielli che lievitano sotto una coltre e attendono di essere infornati, le folle che sciameranno a fare da ali a mille processioni, i cerimonieri che a pochi metri di distanza dalla nostra celebrazione hanno già messo in fila centinaia di partecipanti e guardano 1'orologio per lamentare che la predica quest’anno e durata dieci minuti in più e rischia di mandare a monte l'appuntamento con la Processione di Trinità con lo scambio di abbracci e pani tra i Priori. I Neri, nel loro quartiere generale, non sono da meno con le ultime tensioni da smaltire e gli ultimi accorgimenti da apportare alla cerimonia di uscita della notte. Questa sera che vorrei ci trovasse tutti in ginocchio all’Altare della Reposizione ricco di luci e di fiori per dire grazie del dono dell’Eucarestia e del Sacerdozio, ci vedrà invece dispersi in una corsa tra sette "Sepolcri" solo per fare la classifica, in giro fino a tardi per "vedere" quante più processioni possibili, indaffarati tra casatielli e profumi di pastiere, in groppa a motorini contro senso, e a sogni terra terra così lontani dal Suo sogno del Regno che sull’altare trova il Segno piu concreto del già accaduto e non ancora realizzato. In sacrestia qualcuno verrà per gli auguri e Don Pasquale si avvicinerà, talare e mantellina nera col collo di velluto (me la cucì mia madre nel 1981), per chiedermi la benedizione prima di mettersi in cammino con la prima Processione ricca di fiaccole ondeggianti e di cori struggenti come serenate amare di tradimenti. Dal balcone della Casa di Riposo guarderò le attraenti manovre di una massa di ottocento persone sincronizzate come un corpo di ballo del San Carlo e avrò modo di dire una parola buona a suor Teodolinda, la Superiora, che non fa conto del suo cancro in fase terminale e continua a servire gli anziani come se fosse in perfetta salute. "E, cantato 1'inno, uscirono verso il monte degli Ulivi". Sulla mensa hanno lasciato briciole calde di Corpo e nei calici il Sangue ancora bolle come pulsa nelle vene del Maestro che va verso la morte con passo lento e deciso. Quella prima processione alla spicciolata e senza lampioni e cerimonieri diede origine alle mille che rigano di luce la notte di questo plenilunio di primavera. Forse sarebbe stato meglio restare ancora ai caldo del Cenacolo e rimandare sine die il bacio di Giuda, il rinnegamento di Pietro, le catene, gli sputi, i flagelli, lo schiaffo, la morte ... , ma nessun incantesimo fermò accanto alla Mensa i discepoli desiderosi di aria ed è riuscito a fermare i miei parrocchiani dal riversarsi per le strade. Salgo in canonica con in puntuale senso di fallimento ed oso immaginare che anche Tu, Gesù, pensavi "Neppure stavolta hanno compreso! ...".
Il triduo pasquale per me era "Clausura" in Basilica dalla Messa Crismale di giovedì mattina, ai Vespri al Centro Parrocchiale la sera di Pasqua. Tutto era sincronizzato per le celebrazioni, i cambi di scena, la partenza e il ritorno di Processioni della nostra parrocchia o il passaggio di quelle delle parrocchie vicine, Ufficio delle Letture e Lodi cantate la mattina, confessioni di ricupero, attenzione ai particolari fino alla maniacalità. Ma una sera di giovedì ricordo d'essere uscito per una processione personale, segreta. Portavo sul petto Gesù Eucaristia verso la casa di Marisara.
La conoscevo fin da bambina coi capelli rossi e il suo modo spigliato di parlare con una voce doppia che, da prete, avrei scoperto essere supporto vincente nel sostegno dei canti in Basilica, Braccio destro di Rosetta Veniero per le pulizie in Chiesa, sostenitrice del Centro parroc­chiale mentre si costruiva, animatrice di sagre e lotterie. Era cresciuta con me e, senza vivere una formale consacrazione, aveva escluso il matrimonio ed era dedita alla famiglia e alla parrocchia totalmente. L'annuncio della malattia lo avevo avuto in anteprima e ricordo d'aver scherzato con lei sulla caduta dei capelli e sull'importanza di preparare una parrucca prima che le chemio avessero fatto cadere la sua rossa capigliatura ribelle come il suo carattere.
Mi faccio largo tra la folla assiepata e due volte incrocio il percorso della Processione Bianca. Mi fermo ad ascoltare 1'inno "Genti tutte" e mi chiedo quale sia la vera processione, la mia segreta e vera con il Pane nella teca poggiata sul cuore, o quella pubblica e solenne dove sfilano incappucciati e simboli, labari e croci in quantità. La croce di Marisara, appena uscita dalla giovinezza, e matura come una spiga pronta per la mietitura ed io insieme al Viatico porto anche 1'Olio de­gli Infermi. Le parlo dei preti per cui offrire il dolore, ricevo la sua Confessione e, approfitto del segreto del momento per proporle anche 1'Unzione come grazia per attraversare la valle oscura. Ho sempre trovato i malati più aperti dei parenti ad utilizzare il Sacramento che sostiene sul letto del dolore. Riparto più sereno come un ingegnere che abbia "posto in sicurezza" uno stabile e possa tornare al suo cantiere consueto.
Dieci giorni dopo Marisara partì e quello del Giovedì Santo fu il nostro ultimo incontro. Ricordo la sua bara bian­ca davanti all'altare e un profumo di mughetti che raccontavano le Nozze in cui era entrata per sempre.
Oggi da Vescovo cerco di trattenere i miei preti intorno all'altare della Cattedrale nella Messa Crismale del mercoledì sera mentre cantiamo "Olio che consacra, olio che profuma, olio che risana, che illumina...". E’ cresciuta, forse, la coscienza dei fedeli sull'importanza di quel mo­mento e per questo assiepano le navate romaniche. Il parroco che sono stato non è morto del tutto e per questo riesco a sentire le preoccupazioni dei preti su ciò che li terrà impegnati per tre giorni di seguito, intuisco le loro apprensioni e la fretta che hanno nel salutarmi, a celebrazione conclusa, per raggiungere le loro postazioni. La luna piena imbianca il giardino dell'Episcopio quando anche i seminaristi vanno via dopo Compieta, restituendomi al silenzio e alla comunanza con Gesù nella notte in cui viene lasciato solo nell'orto degli ulivi. Mi commuove ancora oggi sapere che in una sera così travagliata e in frangenti così tumultuosi Egli abbia potuto inventare l’Eucarestia come presenza e dono perenne.

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