mercoledì 18 aprile 2012

Altari della reposizione


Gli altari della reposizione erano (e sono anche) sepolcri…

Una riflessione sull’origine degli altari dei sepolcri, allestiti per la custodia delle specie eucaristiche nei giorni del Triduo pasquale. Le foto illustrano alcuni allestimenti artistici realizzati negli anni scorsi presso la Basilica Santuario di Maria SS. dell’Elemosina di Biancavilla. 

di Alessandro Scaccianoce
Al centro dell’anno liturgico sta il Triduo della passione, morte, sepoltura e risurrezione del Signore: è la Pasqua annuale. Di per sé i giorni del triduo sono Venerdì Santo, Sabato Santo e la Domenica di Pasqua. Il computo, tuttavia, avviene secondo l’uso antico, di origie ebraica, quando il giorno iniziava al tramonto, al brillare delle prime stelle della sera. Pertanto già la messa “in Coena Domini” (nella Cena del Signore), che si celebra la sera del Giovedì Santo, rientra a pieno titolo nel Triduo Sacro. La Messa si conclude con la processione del SS.mo Sacramento all’altare della Reposizione, meglio noto come “Sepolcro”. Si parla, a tal riguardo, di “reposizione” e non di “ostensione” perché più marcata sia la fede nella presenza di Cristo, che pur non vediamo. A partire da questo momento si innestano una serie di manifestazioni religiose popolari collaterali, paraliturgiche.
Fra queste vi è caratteristica la cosiddetta visita ai “sepolcri”. Chi per fede, chi per curiosità, ci si muove nella notte del Giovedì Santo per le vie della città in visita agli altari delle chiese addobbati solennemente. C’è chi, a questo punto, si affretta subito a precisare che “è sbagliato” parlare di “sepolcri”, perché “Gesù non è ancora morto”, e robe simili: si deve dire “altare della reposizione”!…
Tuttavia, il termine latino “Repositorium” (da cui evidentemente derivano le parole “repositorio” e “reposizione”) significa proprio “sepolcro”!

Allora la questione è un’altra: perché a questi altari è legato (piaccia o meno) il riferimento alla custodia di un corpo senza vita? Siamo tutti ben d’accordo, infatti, che Cristo, presente nelle specie eucaristiche, è il Vivente per eccellenza.

L’origine del rito dei “Sepolcri” è molto risalente. Ci aiuta in questo J.A. Jungmann, che così scrive ne La liturgia della Chiesa: “All’inizio del secondo millennio… dal Venerdì Santo al mattino di Pasqua si vegliava presso l’Eucaristia deposta insieme alla croce in un “sepolcro”. In tal modo si intendeva onorare le 40 ore di permanenza del corpo di Gesù nel sepolcro”. Sta proprio qui l’origine della pratica delle Quarantore, che nel secolo XVI si è venuta a staccare dalla Settimana Santa per formare una funzione a sé stante. Prosegue lo storico: “Già nel II secolo apprendiamo che venivano onorate le 40 ore, durante le quali il Signore giacque nel sepolcro, con un digiuno completo di altrettante ore (Eusebius, Hist. Eccl. V, 24). In seguito si sviluppò, soprattutto nei paesi nordici, l’uso di erigere nelle chiese il ‘Santo sepolcro’, e il Venerdì Santo (o anche già il Giovedì Santo, dopo la messa) aveva luogo la deposizione nel sepolcro“. Si onorava in tal modo lo spazio di tempo del riposo del Signore nel sepolcro. Secondo la tradizione, infatti, sarebbero 40 le ore in cui il corpo di Gesù sarebbe rimasto nel potere della morte, calcolate tra le 3 del pomeriggio del Venerdì Santo e le 7 della domenica di Pasqua.


Ancora in epoca carolingia è attestata la custodia delle Ostie consacrate in un apposito altare, al termine della Messa ”in Coena Domini”. Ciò – è utile ricordarlo – accadeva ad eccezione di tutti gli altri giorni dell’anno, in cui l’Eucaristia veniva conservata nelle sagrestie. Poiché i giorni del Venerdì e del Sabato Santo erano, infatti, a-lituirgici, ovvero giorni in cui non si celebrava il sacrificio della Messa, era necessario conservare delle “riserve” per la Comunione dei fedeli. Questa custodia eccezionale era legata, dunque, proprio ai giorni della passione e morte di Gesù. Era evidente, pertanto, l’identificazione di questi luoghi con quello spazio che conservò il corpo di Cristo in attesa della risurrezione.
Al riguardo, gli storici spiegano che questa storicizzazione dei fatti evangelici, così connaturale alla pietà popolare, rappresenta una delle leggi che hanno contribuito alla stessa formazione del Triduo pasquale.
A ciò bisogna aggiungere, inoltre, che da sempre vi è stata una stretta identificazione tra l’altare e il sepolcro di Cristo. Si fa riferimento, a tal proposito, ad una celebre visione di San Gregorio Magno, in cui il Cristo gli appare proprio sull’altare nell’atto di uscire dal sepolcro con i segni della passione. Così nel tardo Medioevo cominciarono a poco a poco a edificarsi tabernacoli fissi sull’altare in grado di rievocare il sepolcro di Cristo, in continuità con la florida simbologia che spesso identificava la torre eucaristica o la nicchia nella quale si conservava l’eucaristia con il sepolcro. A partire dal Concilio di Trento il tabernacolo venne permanentemente intronizzato sull’altare, sanandosi in tal modo la secolare bipolarità tra altare e tabernacolo dei secoli precedenti. Nel linguaggio della liturgia si conserva, infatti, l’idea che il Tabernacolo sia il sepolcro che contiene il corpo di Cristo Risuscitato.
Nello scorrere dei secoli, dunque, si conservò l’usanza di allestire in modo particolarmente ricercato l’altare che custodisce le specie eucaristiche nei giorni del Triduo. Dal XVI secolo in poi s’impose, soprattutto nell’Europa settentrionale, l’usanza di deporre in un sepolcro l’immagine del Redentore morto, circondata da lumi e fiori esponendo, sopra di esso, il SS. Sacramento nell’ostensorio coperto da un velo. In Italia la riserva veniva custodita in un “repositorium” a forma di urna, chiusa a chiave, che in molti casi ricorda una vera e propria bara (ancora oggi ampiamente utilizzata).
Il luogo della custodia, infatti, in tali giorni Santi, mantenne un carattere straordinario: non poteva essere il tabernacolo che custodiva le Sacre Specie nel resto dell’anno, ma un luogo magnificamente ornato, che, in conformità alla lunga tradizione richiamata, richiamava il sepolcro. Lo stesso termine “repositorium”, come detto, è legato al concetto stesso di sepolcro. Nella chiesa velata e oscurata, questo spazio restava l’unico angolo in cui si concentrava l’attenzione dei fedeli attorno al Signore, in attesa della Sua resurrezione.


Oggi, com’è noto, l’altare della reposizione viene utilizzato dalla sera del Giovedì Santo, fino alla Liturgia della Passione del Venerdì Santo, al termine della quale, le Ostie eventualmente rimaste vengono riposte in un luogo nascosto, al di fuori della chiesa. Ciò tende a sottolineare propriamente l’assenza anche fisica del Signore nelle ore in cui il suo corpo è rimasto nel sepolcro. Tale mutamento rituale, rispetto all’origine i questi altari, nati proprio per evidenziare con solennità la permanenza di Gesù nel sepolcro, ci fa capire perché da più parti oggi si tenda a correggere l’espressione “altare del sepolcro” con “altare della reposizione”. Il termine “sepolcro”, tuttavia, non è sbagliato, perché ne esprime il suo originario significato e un intrinseco elemento connaturale al Corpo eucaristico del Signore.

Dal periodo barocco in avanti si registrò una vera e propria apoteosi di macchinari, le c.d. “machinae”, comprendenti sontuosi arredi e addobbi dell’altare della reposizione. Tra gli addobbi tipici di questi altari, ancora oggi in uso soprattutto nell’Italia meridionale, vanno ricordati i fiori bianchi e i germogli dei semi di grano o di lenticchie, coltivati al buio, che simboleggiano il passaggio dalle tenebre della morte alla vita.


In passato, veniva profuso grande impegno nell’allestimento dei ricchi addobbi del sepolcro col duplice intento di esprimere la propria fede verso Gesù Eucarestia nei giorni della sua Passione, e di creare l’effetto “stupore”, per affascinare il fedele spettatore e muovere in lui sentimenti di adorazione al Santissimo Sacramento. Spesso all’allestimento del sepolcro si accompagnava anche l’addobbo  della chiesa, con altre macchine e numerosi drappi ornamentali di vario colore. Talvolta, tra le diverse Confraternite o Parrocchie, si ingenerava una gara a chi avesse creato il “sepolcro” più bello (i limiti dell’uomo sono tali). Studiosi di tradizioni popolari, tuttavia, rilevano che dagli anni ‘50, successivamente  al rinnovamento dei riti della Settimana Santa (tra il 1951 e il 1955), la prassi di addobbare sontuosamente l’altare del sepolcro è andata lentamente scemando.
 
 
Ai sepolcri erano collegate le visite organizzate di gruppi di fedeli. Da qui il detto della “visita alle sette chiese”, perché occorreva visitarne – secondo un’usanza popolare – un numero dispari, tra 5 e 7. A queste visite, dal 500 in avanti, cominciò ad accompagnarsi anche una statua del “Christus Patiens”, che guidava i fedeli in queste processioni, soprattutto nei territori di tradizione spagnola. Ne sono testimonianza molte processioni del Cristo alla colonna o dell’Ecce Homo che si svolgono, ancora oggi, il Giovedì Santo.
 

Da segnalare, tra le ulteriori peculiarità tradizionali del Sacro Triduo, che in questi giorni le donne evitavano  di spazzare per terra e raccomandavano ai figli di non correre o saltare, perché Gesù era a terra, nel “sepolcro”. Tutta la terra, pertanto, era Santa!
La visita alle chiese, dove è custodito il SS. Sacramento, è ancora oggi, al di là delle mutate circostanze sociali e culturali un’occasione molto opportuna per riflettere nel silenzio della preghiera personale sul mistero pasquale del Signore Gesù.


Certamente l’Eucaristia è il “sacramento della presenza”. Ma ad essa non è estranea l’esperienza della Passione, Morte e Sepoltura del Signore. Nell’Eucaristia Gesù si rende presente come Signore, ma contemporaneamente si offre inerme. E’ “l’impotente efficace”, per dirla con una definizione del card. Scola. E’ una presenza sacrificata, consegnata, che si rimette alla nostra libertà, lasciandosi anche rinchiudere in un’urna, in una passività che è solo apparente. In attesa di vederlo uscire dal sepolcro di molti cuori.

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