venerdì 30 settembre 2016

non vi è chi non vede la scorrettezza

l’opinione della rete o il sensus fidei





Sul matrimonio e la Comunione dei divorziati risposati si è accesa la ridda delle opinioni. Ma il magistero della Chiesa è chiaro e netto e immutabile. Lo spiega il card. Gerhard Ludwig Müller, prefetto della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, custode dell'ortodossia. In modo papale papale...

  • «Il divorzio non è un cammino per la Chiesa, la Chiesa è per l'indissolubilità del matrimonio. Io ho scritto molto, anche la congregazione per la Dottrina della fede ha fatto tanti documenti, il Concilio Vaticano II ha detto molto sul matrimonio e la dottrina della Chiesa è molto chiara».
  • «Abbiamo la dottrina della Chiesa che è espressa anche nel catechismo, nel concilio di Trento, nel concilio vaticano, in altre dichiarazioni della nostra congregazione. La pastorale non può avere un altro concetto rispetto alla dottrina, la dottrina e la pastorale sono la stessa cosa. Gesù Cristo come pastore e Gesù Cristo come maestro con la sua parola non sono persone diverse».
  • «La misericordia di Dio non è contro la giustizia di Dio. Il matrimonio è un sacramento che fonda il legame indissolubile tra i due coniugi. Nuove strade e nuovi cammini devono approfondire il sapere della dottrina. Tanti non lo conoscono e pensano che il matrimonio sia solo una festa che si celebra nella chiesa, ma i coniugi si danno la parola di vivere insieme integralmente, nel corpo, nel sesso, nell’anima, nella fede, nella grazia di Dio. Dobbiamo aiutare anche quelle persone che sono in una situazione molto difficile, ma se il matrimonio è indissolubile non possiamo sciogliere il matrimonio. Non c’è una soluzione poiché il dogma della Chiesa non è una qualsiasi teoria fatta da alcuni teologi, ma è la dottrina della Chiesa, niente altro che la parola di Gesù Cristo, che è molto chiara. Io non posso cambiare la dottrina della Chiesa».
  • «È deprecabile che non conoscano la dottrina della Chiesa. Ma non possiamo ridurre la rivelazione e la parola di Gesù Cristo perché tanti cattolici non conoscono la realtà. Ci sono tanti che non partecipano alla messa domenicale perché non sanno che valore ha per la loro vita. Non possiamo dire, come conseguenza, che la messa è meno importante! Sarebbe paradossale se la Chiesa dicesse: poiché non tutti conoscono la verità, la verità non è obbligatoria per il futuro».
  • «La dottrina della Chiesa è molto chiara. Dobbiamo cercare come sviluppare la pastorale per il matrimonio, ma non solo per i divorziati risposati, per coloro che vivono nel matrimonio. Non possiamo focalizzarci sempre su questa unica domanda, se possono ricevere la comunione o no. I problemi e le ferite sono il divorzio, i bambini che non hanno più i loro genitori e devono vivere con altri che non sono i propri genitori: questi sono i problemi».


La stessa chiarezza, mons. Müller l'ha manifestata nella lectio magistralis svolta a Milano il 13 febbraio per l’inaugurazione dell’Anno Accademico della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, aperto dal cardinale Angelo Scola, arcivescovo del capoluogo lombardo. In quell'occasione, il prefetto della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede ha sottolineato:

  • «Il rigore critico della teologia deve anzitutto sgomberare il campo dalla superficialità di chi si lascia assecondare dai luoghi comuni creati dalla pressione dei media e di mentalità non compatibili coi contenuti autentici della fede: pensiamo a quanta leggerezza nel teologare intorno a temi come il sacerdozio femminile, l’autorità nella Chiesa, l’accesso ai sacramenti da parte di chi non è in piena comunione con la Chiesa…
    «E, guarda caso, quanti applausi da parte dei media nei confronti di certi teologi e di opinioni teologiche non radicate fino in fondo con i capisaldi dottrinali della fede. In tal senso, attorno a certi temi, vi è oggi più che mai il rischio di una deriva sentimentale della fede, anche a livello di espressione teologica. Logos e Agape, che sono inseparabili coordinate dell’essere umano nel mondo, vengono sovente contrapposti, e spesso un amore male inteso viene utilizzato per offuscare, se non oscurare, la verità».
  • «Ogni protagonista che voglia essere tale, all’interno dei legittimi dibattiti teologici, deve in primo luogo autenticare le sue prese di posizione, specie se pretendono di porsi con accento di novità, testimoniando anzitutto una sostanziale fedeltà alla vivente trasmissione della fede apostolica, le cui fonti – Scrittura, Tradizione e Magistero – sono insuperabili e inaggirabili».
  • «Mai come oggi occorre una rinnovata riflessione intorno ai contorni autentici di sensus fidei, sensus fidelium, sensus Ecclesiae. Qui la teologia oggi può e deve dare molto. E non vi è chi non vede la scorrettezza e la miopia, a questo proposito, dell’impiego di tecniche di e-mailing per sondare indiscriminatamente nella rete, via internet, l’opinione dei più… Ben altri sono i forum e le agorà di cui necessita la Chiesa oggi per rinvenire ed esprimere, in modo genuino, quel sensus fidei da cui è, in ogni tempo, rinvigorita e ringiovanita.
    «L’aver sostituito l’opinione della rete ai luoghi propri del sensus fidelium rivela non solo un misunderstanding intorno a ciò che costituisce la Chiesa ma induce persino a pensare che nella formazione ecclesiale si ritengono, in fondo, più efficaci alcune tecniche di pressione politica piuttosto che i criteri mutuati dalla stessa fede. E anche di fronte a questo pericolo – che la politica conti più della fede anche nella Chiesa – la teologia ha oggi un compito profetico insostituibile. Si tratta di un compito oggi quanto mai profetico e “martiriale”, nel senso letterale di martyria ».

da «Vatican Insider»

giovedì 29 settembre 2016

San Michele Arcangelo



Nel 1987 san Giovanni Paolo II fece visita a San Michele Arcangelo presso il Santuario sul Gargano a lui dedicato. Vogliamo umilmente riproporre alla vostra attenzione sia il Discorso che fece, improntato sul ruolo di San Michele e sul ruolo del Demonio, la nostra battaglia o con Dio insieme a San Michele, o contro Dio, cedendo alle lusinghe di Satana; sia la famosa Preghiera a San Michele composta da Papa Leone XIII, dopo che in una visione vide i demoni invadere la Chiesa e muoverle contro una cruenta battaglia.... e che si recitava al termine della Messa in ginocchio ai piedi dell'altare insieme al sacerdote. Vale davvero la pena di riscoprire queste perle preziose, e come l'aver ritrovato un "tesoro nel campo", prendercene cura per l'edificazione della nostra vita e di quella del nostro prossimo.

mercoledì 28 settembre 2016

la pandemica crisi della Chiesa

BENEDETTO ASETTICO

 Cristina Siccardi

Ultime conversazioni di Benedetto XVI, a cura di Peter Seewald Siamo di fronte a memorie, riflessioni, commenti di un professore e di un funzionario in riposo che ha lavorato nella Chiesa, più che servito la Chiesa.
 
I testamenti, sia notarili che spirituali, si aprono post mortem. Ma oggi, nell’età mediatica e delle interviste, esistono i testamenti di chi è ancora vivo. Le Ultime conversazioni di Benedetto XVI (Papa emerito è omesso), a cura di Peter Seewald (edito in Italia da Garzanti e uscito in edizione speciale per «Corriere della Sera»), vengono proposte come «testamento spirituale, il lascito intimo e personale del papa che più di ogni altro è riuscito ad attirare l’attenzione sia dei fedeli sia dei non credenti sul ruolo della Chiesa nel mondo contemporaneo». Così è scritto sull’aletta di copertina di questo bestseller, uscito ieri in contemporanea mondiale e che lascia un profondo amaro in bocca. Siamo di fronte a memorie, riflessioni, commenti di un professore e di un funzionario in riposo che ha lavorato nella Chiesa, più che servito la Chiesa.
 
È un libro che disincanta.
Si tratta di un testo molto importante, da consigliare soprattutto a chi si era illuso che con Benedetto XVI si sarebbe potuti “tornare a casa”, alla Fede autentica. È un libro che procura dolore cocente; ma è fondamentale, perché parla a chi non avesse ancora compreso che le cause della pandemica crisi della Chiesa sono da rintracciare nel Concilio Ecumenico Vaticano II, al quale il giovane Joseph Ratzinger, formatosi sulla teologia d’avanguardia, partecipò in qualità di consulente teologico del Cardinale Josef Frings. Con palese evidenza emerge che al Concilio vinsero i progressisti. «Cosa l’ha affascinata di più dello scenario conciliare?», chiede l’intervistatore:
«Anzitutto, semplicemente, l’universalità del cattolicesimo, la sua pluralità, il fatto che uomini provenienti da tutte le parti della Terra si incontrassero, uniti nello stesso ministero episcopale, e potessero parlare, cercare una strada comune. Per me fu poi enormemente stimolante incontrare figure della levatura di Lubac – anche solo parlare con lui – di Daniélou, di Congar. O anche discutere con i vescovi. La pluralità e l’incontro con personaggi eminenti, che inoltre avevano la responsabilità di prendere le decisioni, furono davvero esperienze indimenticabili» (p. 122).


Egli era allineato nello schieramento progressista: «All’epoca essere progressisti non significava ancora rompere con la fede, ma imparare a comprenderla meglio e viverla in modo più giusto, muovendo dalle origini. Allora credevo ancora che tutti noi volessimo questo. Anche progressisti famosi come Lubac, Daniélou e altri avevano un’idea simile. Il mutamento di tono si percepì già il secondo anno del Concilio e si è poi delineato con chiarezza nel corso degli anni successivi». Se tutti gli effetti hanno una causa è chiaro che furono proprio i Lubac, i Daniélou, i Congar a far deragliare il treno della Chiesa, portando corruzione dottrinale, dissacralità, disordine, insubordinazioni.
 

È un libro che impressiona
L’atteggiamento rispetto al Concilio, già nel corso degli anni Sessanta, muta in Ratzinger, ma le sue critiche non vengono risolte, poiché egli ha da allora in poi ricercato l’errore nell’interpretazione dei testi, nell’applicazione dei testi e mai nei testi stessi. Benedetto XVI è un convinto assertore della libertà religiosa, dell’ecumenismo, della collegialità, evidenti elementi di frattura con la Chiesa preconciliare.


Le sue esternazioni del 1966 al Katholikentag di Bamberga tracciano un bilancio che esprime scetticismo e disillusione postconciliare. Un anno dopo, durante una lezione a Tubinga, ammonisce che la fede cristiana è circondata «dalla nebbia dell’incertezza come mai prima nella storia». Perché? «La volontà dei vescovi era quella di rinnovare la fede, di renderla più profonda. Tuttavia fecero sentire sempre più la loro influenza anche altre forze, specialmente la stampa che diede una interpretazione del tutto nuova a molte questioni. A un certo punto la gente si chiese: se i vescovi possono cambiare tutto perché non possiamo farlo anche noi? La liturgia cominciò a sgretolarsi scivolando nella discrezionalità e fu ben presto chiaro che qui le intenzioni positive venivano spinte in un’altra direzione. Dal 1965, quindi, sentii che era mio compito mettere in chiaro che cosa davvero volevamo e che cosa non volevamo» (p. 135).


È un libro che mette a nudo le considerazioni del Papa emerito
Tutto, per Benedetto XVI, rientra in una dinamica evolutiva di hegeliana memoria. Come non fare, allora, riferimento al rigoroso libro che Mons. B. Tissier de Mallerais pubblicò nel 2012 (Editrice Ichthys), “La strana teologia di Benedetto XVI: ermeneutica della continuità o rottura?”. Leggendo questo saggio si potranno offrire risposte serie e adeguate al modo con cui Papa Ratzinger riesce ancora oggi, con la tragedia ecclesiastica e cattolica in corso, risolvere i rimorsi di coscienza sorti con l’Assise.
«Certo, ci chiedevamo se avevamo fatto la cosa giusta. Era una domanda che ci ponevamo, specialmente quando tutto si scardinò. Il cardinale Frings più tardi ebbe forti rimorsi di coscienza. Io, invece, ho sempre mantenuto la consapevolezza che quanto avevamo detto e fatto approvare era giusto e non poteva essere altrimenti. Abbiamo agito in modo corretto, anche se non abbiamo valutato correttamente le conseguenze politiche e gli effetti concreti delle nostre azioni. Abbiamo pensato troppo da teologi e non abbiamo riflettuto sulle ripercussioni che le nostre idee avrebbero avuto all’esterno» (pp. 135-136).
Tutto ciò ha condotto ad una Passione della Chiesa senza precedenti, che senza intervento divino sarà impossibile risolvere. I tronfi teologi, che hanno manovrato e guidato il Concilio pastorale Vaticano II hanno deliberatamente rivoluzionato un ordine che per duemila anni di storia si era alimentato, con i suoi tralci, direttamente alla Vite, Cristo. «Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli. Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore» (Gv 15, 5-10).
 

È un libro dal sapore pirandelliano
Pare incredibile, per un credente, che di fronte allo scempio religioso, spirituale ed etico attuali non ci sia, da parte del papa che ha rinunciato alla sua responsabilità di Sommo Pontefice, nessun tipo di reazione né scandalizzata e neppure sofferta… Lo sguardo è asettico: egli si pone come il ricercatore che osserva il fenomeno, prende atto della situazione e invece di guardare ai rimedi, ovvi, della Tradizione della Chiesa, sostiene la sua autodistruzione a vantaggio di uno sviluppo avanzante della cultura, della filosofia, della teologia, della sociologia e, dunque, della Chiesa. Il mondo cambia e la Chiesa è tenuta a mutare, secondo un disegno rivoluzionario. Ultimo Papa del vecchio mondo o primo del nuovo? «direi entrambi […] io non appartengo più al vecchio mondo, ma quello nuovo in realtà non è ancora incominciato» (p. 218). Benedetto XVI è uno, nessuno, centomila. Non offre certezze dottrinali e dogmatiche. Sono giunte le problematiche conseguenze del Vaticano II? Non è dipeso dai progressisti, perché essi hanno agito «in modo corretto». Così facendo la coscienza cattolica viene soffocata. Urge il mondo, non il sopramondo.


Nel libro appare, fra gli «scandali più inflazionati», ovvero fra pedofilia ecclesiastica e caso Vatileaks, la revoca della scomunica al Vescovo Richard Williamson (oggi fuori dalla Fraternità Sacerdotale San Pio X), scandalo secondo il quale il Papa avrebbe riaccolto nella Chiesa un negazionista dell’Olocausto. Il mondo ebraico insorse e con esso il quarto potere. Tuttavia il libro rende adesso tutto pirandellianamente chiaro:
«Williamson non fu mai cattolico né ci fu una riabilitazione della Fraternità. Anzi, il tema del rapporto tra il mondo ebraico e quello cristiano è tra quelli che stanno più a cuore di Ratzinger. Senza di lui, affermò Israel Singer, segretario generale del Congresso ebraico mondiale dal 2001 al 2007, non sarebbe stata possibile la determinante svolta storica nei rapporti bimillenari tra Chiesa cattolica ed ebraismo. Rapporti che, riassume Maram Stern, vicepresidente del Congresso ebraico mondiale, sotto il pontificato di Benedetto XVI sono stati i migliori di sempre» (p. 15).
«Fan» di Giovanni XXIII, «complementare» a Giovanni Paolo II, fra un riso e l’altro, come registra spesso lo scrittore e giornalista Seewald, Benedetto XVI offre in questo contesto un messaggio religioso cristiano incerto, svuotato, terribilmente orizzontale.
Operazione mediatica planetaria di una Chiesa in grande difficoltà, sotto il governo di Francesco, che cerca di coprirsi con l’appoggio di Benedetto XVI? «Io sono un’autorità su come far pensare la gente» afferma Charles Foster Kane, protagonista e magnate dell’editoria del film Quarto potere (1941) di Orson Welles.


http://www.riscossacristiana.it/scriptorium-recensioni-rubrica-quindicinale-di-cristina-siccardi-240916/ 

Svezia da sogno

Svezia igienico obitorio d'Europa
Roberto Pecchioli



Chi voglia conoscere il probabile futuro di quel che resta della nostra civiltà, cerchi nelle sale cinematografiche marginali, o in rete, il film documentario di Erik Gandini La teoria svedese dell’amore. L’autore è un italo svedese, che osserva il paese in cui vive con l’occhio disincantato del reporter, ma anche con lo spirito dell’ospite proveniente da una diversa cultura. La Svezia è stata per una generazione di italiani una specie di paese dei sogni: donne bellissime, bionde e disinibite pronte a concedersi ed un sistema di sicurezza sociale pressoché perfetto, in grado di assistere i cittadini, come si diceva, dalla culla alla tomba. La verità è molto lontana, anzi si può affermare che la nazione guida del mondo nordico è un igienico, sterilizzato, lindo inferno, popolato da spettri. La sonata degli spettri è il titolo di una delle più famose opere di August Strindberg, il maggior scrittore e drammaturgo svedese, autore anche di Danza di morte, oltreché dei famosi ed angoscianti Il pellicano e La signorina Giulia.

La chiave per comprendere la Svezia contemporanea è la socialdemocrazia, che domina da circa un secolo, anche se negli ultimi venticinque anni ha spesso dovuto cedere il governo a forze liberali, le quali non hanno saputo, o voluto, intaccarne il sistema sociale, né contestarne i principi ispiratori. La socialdemocrazia nordica regna sulle macerie del luteranesimo boreale, chiuso e introverso come solo al Nord poteva diventare l’ansiogena teoria della predestinazione e della salvezza per sola fede dell’ex monaco agostiniano. Un protestantesimo ottusamente moralistico ha improntato la Scandinavia per diversi secoli ed ha poi ceduto di schianto all’alba del Novecento. La terra di duri contadini e coraggiosi uomini di mare si è convertita ad un socialismo materno, fatto di tasse altissime e di un efficiente sistema di protezione sociale che ha avvolto corpo ed anima degli svedesi. Uguaglianza dogmatica, Stato mamma che pensa a tutto: istruzione, tempo libero, asilo, pensione, assistenza.

Esentato dalle preoccupazioni pratiche, lo svedese medio ha via via rinunciato a pensare, forse ad “essere”. Poi arrivò Olof Palme, socialdemocratico fautore di un marxismo individualista, ucciso misteriosamente nel 1986, che lanciò una parola d’ordine: indipendenza individuale. Nel manifesto La famiglia del futuro, programmò una nazione di figli che non dovevano dipendere dai genitori e viceversa, di coniugi distaccati l’uno dall’altro, di malati che non dovevano aspettarsi nulla dai parenti. Un paradiso per solitari, eremiti e misantropi, come misogino fu Strindberg.

Il risultato: oltre la metà degli svedesi vive da sola; oltre una donna su quattro concepisce i figli senza un compagno fisso (non si dica un marito…) attraverso l’inseminazione artificiale, per evitare relazioni sentimentali definite inutili o fastidiose. Morire nella più completa solitudine è comunissimo, tanto che non pochi svedesi versano denaro sui conti dell’ente preposto per saldare in anticipo il debito delle spese funerarie. Si è anche verificato il caso di un suicida che ha pagato per tempo, da bravo cittadino, il costo del disturbo che avrebbe arrecato alle pubbliche istituzioni con il suo gesto. Si vive da soli, si muore nell’indifferenza di tutti, si esce di casa adolescenti (non ci sono bamboccioni, per la gioia di madama Fornero), si lavora in silenzio.

Un conoscente di chi scrive, ex informatico della multinazionale Ericsson, non riusciva ad adattarsi, nelle sue trasferte a Stoccolma, all’atteggiamento dei colleghi locali: chiusi in se stessi sino all’ostilità, poco inclini al dialogo, infastiditi dalla vicinanza fisica di un intruso pieno di domande, a debita distanza l’uno dall’altro anche in mensa, tra tavolini ad un posto. Chi ha letto Orwell non fa fatica a riconoscere la triste vita degli impiegati del Partito nel grande palazzone da cui si dirigeva la distopica Oceania. Purtroppo, lassù è realtà, e viene il magone ad immaginare le tante bionde Ingrid ed Ulla sognate dai giovani italiani di qualche decennio fa, vecchie e sole spegnersi in un lindo trilocale, magari con la TV accesa, senza il conforto di un figlio, o almeno di un pastore luterano, e neppure di un assistente sociale, ma con la busta per le spese in bella vista nel salotto.

Con la compilazione di appositi moduli burocratici, in Svezia si può ottenere tutto, tranne la vicinanza, l’affetto, in fin dei conti la vita. Spinoza parlò di passioni tristi: quella, ossessiva, per l’indipendenza è ben più che triste: è la trasformazione di una comunità in un igienico, sterilizzato, lucidato obitorio. Non c’è da stupirsi, ma da rimanere atterriti, se pensiamo alle lunghe notti nordiche, al buio, al freddo persistente, vissute in una solitudine immaginata come liberazione. Un piccolo aneddoto, narrato dalle radio: l’arbitro di una partita di calcio svedese ha espulso un calciatore (è la verità) per… peti rumorosi. Osiamo immaginare che se il giocatore vichingo avesse bestemmiato, l’arbitro non avrebbe battuto ciglio: del resto, la Svezia ex protestante è in coda alle classifiche della pratica religiosa (esclusi, beninteso, gli immigrati islamici e la piccola comunità cattolica) ed il primate della chiesa locale è una donna vescovo, coniugata con rito religioso ad un pastore luterano donna.

E’ dinanzi a questi campioni di vita cristiana che Jorge Mario Bergoglio andrà presto ad omaggiare Lutero, eretico sino a ieri, nelle commemorazioni per il prossimo V centenario della riforma.

L’organizzazione nordica resta efficiente anche tra le scartoffie dello Stato sociale: in Scandinavia esiste la più grande banca dello sperma del mondo, in cui sono conservati, alla giusta temperatura (i ghiacci aiutano) ben 170 litri di sperma umano, prodotti dalle, diciamo, prestazioni gratuite o a pagamento dei giovani nordici. Interrogati per una coscienziosa e scientifica statistica, la maggior parte di loro si è detta convinta di svolgere un servizio sociale a favore delle connazionali. Assoluta è l’indifferenza per i bambini che nasceranno senza un padre, e che magari incontreranno un giorno per la strada, senza degnarli di uno sguardo, esattamente come gli altri esseri umani che incrociano tutti i giorni. Quanto alle aspiranti madri, ricevono in confezione sigillata e sterilizzata la siringa ed il contenitore di sperma, da iniettarsi in una certa posizione del corpo, da mantenere mezz’ora per il buon esito dell’impresa (zootecnica).

Sensibilissimi alle tematiche di genere, i governi del Regno consigliano i genitori a non imporre nomi maschili o femminili, ma neutri, affinché i piccoli svedesi possano scegliere il loro genere (sesso è parola sospetta, e non per moralismo bacchettone) in piena libertà. La Reale Accademia della Lingua ha introdotto il pronome neutro “hen”, per riferirsi a tutti i bambini senza discriminazioni. Nella vicina Norvegia, peraltro, analoghe pazzie pedagogiche sono state abbandonate in quanto non hanno funzionato sui fanciulli ai quali era stato imposto un mese di educazione al maschile ed uno al femminile.

Fortunatamente in Svezia l’immigrazione è molto elevata, favorita dal pregiudizio internazionalista dei socialdemocratici. Diciamo fortunatamente perché i “nuovi svedesi” sfuggono largamente alla follie descritte. Una premurosa mediatrice culturale di Stato, nel documentario di Gandini, chiede ai profughi siriani che segue, non solo di essere puntuali nei loro impegni, ma di parlare poco con gli svedesi, poiché essi “non amano perdersi in chiacchiere”.

Non risulta così strano che il contributo all’arte di un popolo che accetta modi di vita tanto inumani sia piuttosto modesto. Un gruppo pop molto amato furono gli Abba, i cui brani, invero, erano ritmati, orecchiabili ed allegri, come il celebre Fernando. Né si ricordano pittori o scultori eccelsi. Norvegese era Edvard Munch, l’autore dell’Urlo, metafora di una angosciosa condizione umana, terrorizzata dal nulla, in cui la vicina Svezia è precipitata. Bellissimo, peraltro, è un quadro di Carl Larsson, vissuto tra il 1853 e il 1919, che descrive l’anima profonda della Svezia del suo tempo, ancora contadina e un po’ paganeggiante, Il sacrificio del Solstizio d’Inverno.

Al contrario, nel cinema, lo spirito di quel popolo si è espresso a livelli eccelsi, ma sempre nell’ambito di una visione della vita cupa, tragica, negativa.

La prima grandissima stella del cinema fu Greta Garbo, la divina, le cui interpretazioni, algide ed insieme straordinarie, ne hanno fatto un mito della Settima Arte. Anche lei, tuttavia, da vera svedese moderna, finita l’epoca d’oro del suo successo, si rinchiuse in una vita di solitudine ostinata, rifiutando interviste, fotografie e pubbliche apparizioni. Un genio assoluto fu Ingmar Bergman, registra e drammaturgo, figlio di un rigido pastore luterano – nacque nel 1919 – autore di capolavori sul filo dell’angoscia e della profondità interiore, con pochi dialoghi (era pur sempre uno svedese) ed immagini stranianti esaltate dal bianco e nero. Nel Posto delle Fragole, il tema è una meditazione sulla vita e la morte. Quanto al celeberrimo Settimo Sigillo, si tratta dell’opera drammaticamente problematica di un ateo che, nondimeno, aveva un forte rapporto con l’infinito ed il Dio cristiano. I dialoghi tra il Cavaliere e la Morte sono insieme letteratura ed arte figurativa. Crediamo che oggi, tuttavia, pochi europei, e quasi nessuno svedese riuscirebbero a vibrare dinanzi alla domanda fatale, posta dal Cavaliere: “Io voglio sapere. Non credere. Non supporre. Voglio sapere. Voglio che Dio mi tenda la mano, mi sveli il suo piano, mi parli”. La risposta della Morte fu “Il suo silenzio non ti parla? “.

No, l’apparente silenzio di Dio non parla più agli europei, tanto meno agli svedesi, che accettano di nascere senza padri, avere figli dei quali poco si interessano e morire come animali del bosco, ma dopo aver compilato gli appositi moduli e pagato il relativo ticket. Quanto agli svedesi maschi, è del tutto sconcertante la propensione ad essere donatori o venditori di sperma e non padri; forse gli strilli dei piccoli turbano il funereo silenzio nazionale, forse l’autismo che li ha pervasi è tanto grande da far loro preferire il sesso solitario. Non ci sono commenti. La loro multinazionale del mobile, l’IKEA, cerca di esportare una parte del triste modello della madre patria: mobili squadrati, prevalentemente geometrici, tutti simili o uguali – è l’economia di scala – di legno chiaro, che vengono consegnati smontati. Al montaggio deve pensare l’acquirente: molto nordico essere indipendenti anche nell’arredamento.

Nonostante le premure socialdemocratiche, non pare che la felicità abiti a Stoccolma: tutte le rilevazioni sull’alcolismo, la violenza sulle donne, l’abuso di droghe pongono la Svezia ai vertici mondiali, così come la nera contabilità dei suicidi. I connazionali di Bjorn Borg e di Niels Liedholm si scatenano nei fine settimana e possiamo capirli, ma gli eccessi cui si abbandonano in date stabilite non equilibrano la diffusa inquietudine, l’ incomunicabilità tetra ed il vuoto spirituale non colmati da alcool, sesso estremo o stupefacenti.

Lo slogan dalla culla alla tomba non dice il vero. Le culle sono troppo spesso senza padri, e la tomba sembra un’alternativa migliore che trascinare la vecchiaia e la malattia soli, senza l’affetto di figli o nipoti, anche se in case pulite e ben riscaldate o in ospizi perfettamente organizzati. Nel documentario di Gandini, l’ultima parola spetta a Zygmunt Bauman che scopre l’acqua calda: meglio l’interdipendenza dell’indipendenza. Ma fu lui a teorizzare la società liquida, priva di idee, sentimenti e legami forti. Il rischio che corriamo è diventare, a breve, una Svezia in grande, senza neppure l’efficienza e la correttezza nordica. Ci sono tutti i presupposti: un individualismo diffuso e sospettoso, l’orrore per gli impegni definitivi (figli, matrimonio), la passione triste, rivendicativa, per un’uguaglianza astratta, l’ateismo pratico, il desiderio di scambiare vera libertà con false sicurezze.

Dio non voglia che l’alternativa dell’Europa sia di diventare una enorme Svezia o di finire musulmana. Tra la nuova sindrome di Stoccolma ed il Ramadan, la scelta sarebbe così tragica, penosa ed umiliante che forse, davvero, sarebbe meglio la morte. Da vichinghi, però, a testa alta, e non alimentando in solitaria mestizia la squallida, igienizzata, batteriologicamente pura banca del seme della Scandinavia.

ROBERTO PECCHIOLI

martedì 27 settembre 2016

Ad Dominum cum tribularer clamavi



1 Ad Dominum cum tribularer clamavi et exaudivit me
1 In my trouble I cried to the Lord: and he heard me.
2 Domine libera animam meam a labiis iniquis et a lingua dolosa
2 O Lord, deliver my soul from wicked lips, and a deceitful tongue.

lunedì 26 settembre 2016

Napoleone e Maometto



Napoleone Bonaparte versus Maometto
 


"Ovunque in Maometto si scopre l’uomo ambizioso, il vile adulatore di tutte le passioni piu care al cuore degli uomini! Come carezza la carne, che spazio riserva alla sensualità! Vuole portare l’Arabo verso la verità di Dio, oppure verso la seduzione di tutte le gioie permesse in questa vita e promesse come speranza e ricompensa nell’altro? Bisognava conquistare un popolo, l’appello alle passioni era, dunque, necessario. Ebbene, vi è riuscito! Ma la causa del suo trionfo sarà la causa della sua rovina. Presto o tardi la mezzaluna sparirà dalla scena del mondo e la Croce vi rimarrà! La sensualità in ultima analisi uccide le nazioni, cosi come uccide gli individui che sono cosi folli da farne il fondamento della loro esistenza! Questo falso profeta, inoltre, si rivolge a una sola nazione, e ha sentito il bisogno, di giocare due ruoli, il ruolo politico e quello religioso. Egli ha effettivamente conquistato e posseduto tuttà la potenza del primo. Quanto al secondo, se ne ha avuto il prestigio non ne ha avuto la sostanza. Non ha mai fornito prove della divinità della sua missione. Una o due volte vuole misurarsi con un miracolo e fallisce miseramente. Nessuno crede ai suoi miracoli, perché Maometto stesso non ci credeva e questo prova che non è poi cosi facile come si immagina di imporsi in questo modo. Se a Maometto si addice bene il titolo di impostore, esso ripugna talmente a quello di Cristo che credo che nessun nemico del cristianesimo abbia mai osato attribuirglielo! E tuttavia non c’è una via di mezzo: Cristo o è un impostore o è Dio. Conosco gli uomini e vi dico che Gesù non è un uomo. Gli spiriti superficiali scorgono una somiglianza tra il Cristo e i fondatori di Imperi, i conquistatori e le divinità di altre religioni. Questa somiglianza non esiste. Tra il cristianesimo e qualsiasi altra religione c’è la distanza dell’infinito. Si, esiste una causa divina, una ragione sovrana, un essere infinito. Questa causa è la causa delle cause; questa ragione è la ragione creatrice dell’intelligenza. Esiste un essere infinito, a paragone del quale, generale Bertrand, non siete che un atomo; a paragone del quale io, Napoleone, con tutto il mio genio, sono un vero niente, un puro nulla, mi capite?"
Napoleone Bonaparte, Conversazioni Religiose a Sant'Elena – Editori Riuniti

Lutero e i matrimoni gay

Lutero, un Machiavelli della fede 

di Francesco Agnoli


In occasione del cinquecentesimo anniversario della rivoluzione di Martin Lutero lo scontro tra cardinali tedeschi è già da tempo in atto: da una parte i cardinali Kasper e Marx, che di Lutero si dichiarano apertamente ammiratori, dall’altra i porporati Mueller, Brandmuller e Cordes, che si collocano invece nel solco del pensiero cattolico, vedendo in Lutero l’uomo che deformò il Vangelo e spezzò la Chiesa, dividendo così la Cristianità e l’Europa.

Non si tratta, però, solo di un dibattito teologico “alto”; vi sono implicazioni anche riguardo al diritto naturale ed al modo di concepire il matrimonio cristiano. Kasper e Marx stanno cercando da alcuni anni, dopo l’abdicazione di Benedetto, di limitare la condanna dell’adulterio e di legittimare, più o meno apertamente, le seconde nozze, con aperture graduali anche al matrimonio gay. Cosa c’entra in tutto ciò Lutero?


Forse ben più di quanto si creda. Anzitutto, riguardo alla dottrina, perchè egli nega il carattere di sacramento al matrimonio, e lo sottopone alla giurisdizione secolare, cioè al potere dei sovrani, degli Stati. Questa concezione desacralizza il matrimonio e lo priva del suo tradizionale significato soprannaturale.

Sul piano dei fatti, la prima cosa da ricordare è il matrimonio di Lutero con una ex suora cistercense, Caterina von Bora, da cui avrà 6 figli. I due vanno ad abitare nell’ex convento agostiniano di Wittenberg, donato loro dal principe elettore di Sassonia (il quale deve a sua volta a Lutero il fatto di essere diventato proprietario dei beni della Chiesa cattolica nelle sue terre).

Lutero e Caterina divengono così un modello tanto che, sul loro esempio, i riformati “si adoperarono parecchie volte, spesso in intere comitive, per strappare le religiose dai loro chiostri, per farne le loro spose“.

Dopo un ratto di religiose che ha luogo la notte del sabato santo 1523, Lutero definisce l’organizzatore dell’impresa “felice ladro” e si congratula con lui per aver “liberato queste povere anime dalla prigionia(vedi Jacques Maritain, I tre riformatori. Lutero. Cartesio. Rousseau, Morcelliana, Brescia, 1990, p. 215). Sono gli anni in cui molte religiose tedesche vengono costrette a lasciare i monasteri, spesso controvoglia, e a tornare alle proprie case, oppure a sposarsi.

Il secondo fatto da ricordare è il seguente: Lutero, per non perdere l’appoggio del langravio Filippo d’Assia, “uno dei due pilastri politici sui quali si reggeva il luteranesimo”, gli concede di sposare in seconde nozze la damigella diciassettenne Margarete von Saale.

Filippo ha già una moglie, Cristina di Sassonia, dalla quale ha avuto sette figli. Siamo nel 1539. Lutero non vuole scandali rumorosi, non vuole giustificare pubblicamente una bigamia, ma deve acconsentire alle richieste di Filippo, libertino incallito, malato di sifilide, ma “necessario per conservare integra la forza militare della riforma”.

Per questo decide di agire con furbizia: sperando che nessuno lo venga a sapere, comunica segretamente a Filippo che il matrimonio supplementare può essere determinato da una “necessità di coscienza”.

In altre parole: la bigamia va bene, ma basta che non diventi pubblica. Scrivono Lutero e Melantone: “Se dunque vostra Altezza è definitivamente decisa a prendere una seconda moglie, il nostro parere è che ciò deve rimanere segreto”.

A nozze avvenute, Filippo invia a Lutero, ormai da tempo dedito a mangiate e bevute imponenti, “una botte di vino, che giunse a Wittenberg quando ormai il segreto della bigamia era trapelato ad opera della sorella del langravio”.

Sentendosi nei guai, Lutero, che meriterà da Tommaso Campanella il titolo di “Machiavelli della fede”, consiglia a Filippo di dichiarare pubblicamente che Margarete non è la sua moglie legittima, “sostituendo l’atto di matrimonio con un altro atto notarile che dichiarasse che Margarete era solo la sua concubina”. Filippo rifiuta, ed anzi chiede a Lutero di confermare pubblicamente di aver concesso lui stesso la dispensa.

Ma Lutero, che in altre occasioni non esiterà a proporre traduzioni fasulle di passi biblici, pur di avere ragione, risponde che il suo consiglio era segreto, “e ora diventava nullo perchè era stato reso pubblico” (Federico A. Rossi di Marignano, Martin Lutero e Caterina von Bora, Ancora, Milano, 2013, p. 343-347; Angela Pellicciari, Martin Lutero, Cantagalli, Siena, 2013, p. 109-113).

Pochi anni prima di questi fatti, nel 1531, Lutero, in una delle sue tante lettere alla ricerca del  favore dei potenti, ha scritto ad Enrico VIII re d’Inghilterra che sì, il matrimonio è indissolubile, però… con il permesso della regina si può sposare una seconda moglie, come nell’Antico Testamento.

Come sappiamo, Enrico chiederà la dispensa non a Lutero, ma al papa di Roma, ma non ottenendola, coglierà la palla al balzo: proclamerà la scisma con Roma, e alla fine, di ripudio in ripudio, “in coscienza”, arriverrà alla ragguardevole cifra di 6 mogli (alcune delle quali fatte uccidere senza scrupoli).

Se l’effetto evidente della rivoluzione di Lutero riguardo al matrimonio, è dunque il pretesto fornito a se stesso per gettare la tonaca e il pretesto fornito ai principi per permettere loro di ripudiare le legittime consorti e vivere in poligamia, anche sul piano della dottrina tutto è destinato gradualmente a cambiare.

Bisogna sempre tener conto di un fatto: Lutero guarda costantemente alla nobiltà germanica come al suo principale interlocutore, di cui ha bisogno per vincere la sua lotta con Roma.

E la nobiltà germanica, come quella di altri paesi, è in lotta con la Chiesa non solo per questioni politiche e di potere, ma anche sulla dottrina del matrimonio: spesso i nobili non accettano l’indissolubilità, nè i vincoli al matrimonio imposti da Roma (divieto di matrimoni combinati, di matrimoni tra consanguinei…).

Inoltre, per motivi legati alle loro condizioni sociali o ereditarie i nobili reclamano più degli altri il diritto dei genitori di concedere o negare il consenso ai nubendi, mentre la Chiesa romana, al contrario, riconosce solo ai nubendi, in quanto unici ministri dello stesso, il diritto di decidere del loro matrimonio. Cosa rispondono Lutero e i riformati a queste “esigenze” nobiliari, e non solo. Anzitutto criticando l’indissolubilità assoluta.

Lutero riconosce così almeno 4 cause per il divorzio: l’adulterio, l’impotenza sopraggiunta durante il matrimonio (mentre quella antecedente è causa di nullità, come per la Chiesa), la “diserzione maliziosa” e l’ostinazione tenace del coniuge nel rifiutare l’amplesso maritale (riguardo a quest’ultima causa, arriva a scrivere: “Se la moglie trascura il suo dovere, l’autorità temporale la deve costringere, oppure metterla a morte”).

Inevitabile che le aperture di Lutero ne generino di ulteriori, come quelle degli anabattisti, favorevoli alla poligamia, o quelle del suo discepolo M. Butzer, per il quale Cristo non avrebbe mai abolito il ripudio, e spetterebbe alle autorità politiche legiferare, senza limiti nè condizioni, riguardo al divorzio.

Inoltre Lutero e i riformati insistono, con accenti diversi, sull’opportunità del consenso dei genitori, rimproverando la Chiesa di ridurne l’importanza, e si battono per ridurre gli impedimenti di consanguineità (Jean Gaudemet, Il matrimonio in Occidente, Sei, Torino, 1996, p. 207-2012).

La Chiesa cattolica, dal canto suo, con il Concilio di Trento, prenderà in esame la posizione di Lutero, ribadendo una volta per sempre il carattere sacramentale del matrimonio e la sua indissolubilità, negando la liceità del divorzio luterano, ribadendo, nonostante le pressioni della nobiltà francese, che il consenso dei genitori, pur opportuno, non è vincolante e condannando l’assunto luterano secondo cui vivere in castità è impossibile.

La posizione espressa dal Concilio di Trento verrà ribadita dalla Chiesa e dai pontefici per 500 anni, senza mutamenti.

domenica 25 settembre 2016

lo Stato che fa? Si costerna, s'indigna, s'impegna poi getta la spugna con gran dignità


Don Raffae'
Io mi chiamo Pasquale Cafiero
e son brigadiero del carcere oinè
io mi chiamo Cafiero Pasquale
sto a Poggioreale dal '53
e al centesimo catenaccio
alla sera mi sento uno straccio
per fortuna che al braccio speciale
c'è un uomo geniale che parla co' mme.
Tutto il giorno con quattro infamoni
briganti, papponi, cornuti e lacchè
tutte ll'ore co' 'sta fetenzia
che sputa minaccia e s' 'a piglia co' mme
ma alla fine m'assetto papale
mi sbottono e mi leggo 'o ggiurnale
mi consiglio con don Raffaè
mi spiega che pensa e bevimm' 'o ccafè.

Ah, che bellu ccafè
pure 'n carcere 'o sanno fà
co' 'a recetta ch'a Cicirinella
compagno di cella ci ha dato mammà.

Prima pagina venti notizie
ventuno ingiustizie e lo Stato che fa?
Si costerna, s'indigna, s'impegna
poi getta la spugna con gran dignità.
Mi scervello. mi asciugo la fronte
per fortuna c'è chi mi risponde
a quell'uomo sceltissimo e immenso
io chiedo consenso, a don Raffaè.
Un galantuomo che tiene sei figli
ha chiesto una casa e ci danno consigli
l'assessore che Dio lo perdoni
'ndentro 'a roulotte ci alleva i visoni.
Voi vi basta una mossa, una voce
c'a `stu Cristo ci leva 'na croce.
Con rispetto, s'è fatto le tre
vulite 'a spremuta o vulite 'o caffè?

Ah, che bellu ccafè
pure 'n carcere 'o sanno fà
co' 'a recetta ch'a Cicirinella
compagno di cella ci ha dato mammà
Ah, che bellu ccafè
pure 'n carcere 'o sanno fà
co' 'a recetta di Cicirinella
compagno di cella precisa a mammà

`Cca ci sta l'inflazione, la svalutazione
e la borsa ce l'ha chi c'è l'ha
io non tengo compendio che chillo stipendio
e un ambo se sogno a papà
Aggiungete mia figlia Innocenza
vuò 'o marito, nun tiene pazienza
non vi chiedo la grazia pé 'mmè
vi faccio la barba o la fate da sè?
Voi tenete un cappotto cammello
che al maxi-processo eravate 'o cchiu bello,
un vestito gessato marrone
così ci è sembrato alla televisione
pe `ste nozze vi prego Eccellenza
mi prestasse pé ffare presenza
io già tengo le scarpe e 'o gilè
gradite 'o Campari o vulite 'o ccafè?

Ah, che bellu ccafè
pure 'n carcere 'o sanno fà
co' 'a recetta ch'a Cicirinella
compagno di cella ci ha dato mammà.
Ah, che bellu ccafè
pure 'n carcere 'o sanno fà
co' 'a ricetta di Cicirinella
compagno di cella preciso a mammà.

Qui non c'è più decoro, le carceri d'oro
ma chi ll'ha mai viste, chissà
cheste sò fatiscenti pé cchisto 'e fetienti
si tengono l'immunità
don Raffaè voi politicamente
io vi giuro sarebbe 'nu santo
ma a'cca dinto voi state a pagà
e fora chist'atre se stanno a spassà.
A proposito, tengo nu frate
che da quindici anni sta disoccupato
chillo ha fatto cinquanta concorsi
novanta domande e duecento ricorsi
voi che date conforto e lavoro,
Eminenza, vi bacio e v'imploro
chillo dorme cu mamma e cu mme
che crema d'Arabia ch'è cchistu ccafè. 


sabato 24 settembre 2016

Grasse risate in Vaticano

Grasse risate nei sacri Palazzi 
 

di Francesco Filipazzi 

Ogni tanto a tutti capita di voler essere simpatici. Certo a volte non si riesce ad esserlo. Troviamo un esempio di un fallimento in questo senso sul blog di Andrea Tornielli, Sacri Palazzi. Il Nostro, cercando di prendere in giro (credo) Antonio Socci, in un post dal titolo "Parole del Papa sui Musulmani", riporta una frase (facendo intendere che l'abbia detta Papa Francesco) di Giovanni Paolo II, pronunciata in un incontro con i Giovani Musulmani a Casablanca nel 1985. In essa il Papa dice "Noi crediamo nello stesso Dio, l'unico Dio vivente" ecc. Dunque il colpo di scena. Dopo aver fatto il verso a Socci, il nostrissimo rivela l'arcano "la frase l'ha detta Giovanni Paolo II, Papa e pure Santo. Soprattutto dimenticato".

In effetti ci duole ammettere che Giovanni Paolo II è dimenticato, soprattutto da chi lo cita parzialmente. Tornielli si è dimenticato di citare il paragrafo 10 di quel discorso: "Credo che noi, cristiani e musulmani, dobbiamo riconoscere con gioia i valori religiosi che abbiamo in comune e renderne grazie a Dio. Gli uni e gli altri crediamo in un Dio, il Dio unico, che è pienezza di giustizia e pienezza di misericordia; noi crediamo all’importanza della preghiera, del digiuno e dell’elemosina, della penitenza e del perdono; noi crediamo che Dio ci sarà giudice misericordioso alla fine dei tempi e noi speriamo che dopo la risurrezione egli sarà soddisfatto di noi e noi sappiamo che saremo soddisfatti di lui. La lealtà esige pure che riconosciamo e rispettiamo le nostre differenze. 

 
Evidentemente, quella più fondamentale è lo sguardo che posiamo sulla persona e sull’opera di Gesù di Nazaret. Voi sapete che, per i cristiani, questo Gesù li fa entrare in un’intima conoscenza del mistero di Dio e in una comunione filiale con i suoi doni, sebbene lo riconoscano e lo proclamino Signore e Salvatore. Queste sono differenze importanti, che noi possiamo accettare con umiltà e rispetto, in una mutua tolleranza; in ciò vi è un mistero sul quale Dio ci illuminerà un giorno, ne sono certo".

Sostanzialmente il Papa disse ai Giovani Musulmani che c'è una differenza fra le due religioni che si chiama Gesù Cristo. E' evidente che il buon Tornielli si è dimenticato questa parte.


Così come in questo periodo molti hanno dimenticato un'altra parte del magistero dell'epoca. Ad esempio nella Familiaris Consortio leggiamo: "La Chiesa, tuttavia, ribadisce la sua prassi, fondata sulla Sacra Scrittura, di non ammettere alla comunione eucaristica i divorziati risposati. Sono essi a non poter esservi ammessi, dal momento che il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell'unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall'Eucaristia. C'è inoltre un altro peculiare motivo pastorale: se si ammettessero queste persone all'Eucaristia, i fedeli rimarrebbero indotti in errore e confusione circa la dottrina della Chiesa sull'indissolubilità del matrimonio". Dunque, ci chiediamo, perché citare Giovanni Paolo II solo per le liti con i giornalisti rivali, per far volare qualche straccio via web, mentre invece non citarlo, che so, per commentare Amoris Laetitia?


http://www.campariedemaistre.com/2016/09/grasse-risate-nei-sacri-palazzi.html

mercoledì 21 settembre 2016

gay e prete



di Luca Fumagalli

libIn Wilde, film del 1997 diretto da Brian Gilbert, vi è una scena fugace, solo pochi secondi, che però descrive con brillante intuizione il momento della definitiva separazione tra John Gray, giovane approdato al mondo letterario dopo una dura gavetta, e Oscar Wilde, suo amico e amante. Il loro rapporto era stato idilliaco, almeno fino a quando nell’orbita del vate irlandese aveva iniziato a gravitare l’egocentrico quanto affascinante Lord Alfred Douglas, soprannominato Bosie. Il disastroso esito della loro relazione fu il noto processo del 1895 che trascinò nel fango la reputazione del campione dell’estetismo inglese, confinandolo negli angusti spazi di una cella.
Quando Gray vede Oscar allontanarsi con Douglas, l’autocommiserazione si fa largo in lui: «Io sono solo il figlio di un falegname, mentre Bosie…». Robbie Ross, da poco diventato cattolico, non può far altro se non consolare l’amico con parole che, col senno di poi, suonano singolarmente profetiche: «Qualcun altro era figlio di un falegname».

Miseria e grandezza sono i due limiti entro cui si snodò la vita di uno dei protagonisti più discussi della Londra fin de siècle. Di umili origini, John Gray (1866-1934) dovette faticare non poco per affermarsi. Dalla sua parte vi erano la grande vivacità intellettuale e la serietà con cui si dedicava agli studi. Poeta di rara delicatezza, aperto alle influenze letterarie d’oltremanica, presto entrò a far parte del circolo decadente, legandosi tra gli altri a Ernest Dowson e a Aubrey Beardsley (di cui curò la pubblicazione postuma delle epistole).

Il suo nome iniziò a circolare sulla stampa britannica quando venne associato al protagonista de Il ritratto di Dorian Gray, chiaramente ispirato a lui. La ridda di polemiche che investì Wilde, accusato di aver scritto un romanzo immorale e impudico, fu mitigata dalla stampa cattolica, l’unica impegnata nella difesa di un testo che raccontava con precisione la progressiva discesa di un’anima negli abissi del peccato.

Vincenza Lagioia con il suo La vera storia di Dorian Gray compie un’operazione biografica singolare, soprattutto per quanto riguarda lo stile, costruendo una narrazione fatta di piccoli quadri, di tanti spiragli che si aprono senza soluzione di continuità sulla corrotta maestosità della letteratura britannica alle soglie del XX secolo. Il saggio, quasi un edificio felliniano, ripercorre con la passione di un avventuriero la biografia di John Gray, per troppo tempo rimasta celata dietro la maschera di Dorian.

In pochi, infatti, conoscono il secondo tempo della vita del giovane poeta, il cui inizio coincise proprio con l’abbandono di Wilde. La crisi che ne scaturì guidò provvidenzialmente Gray verso i sicuri lidi della Chiesa di Roma, una strada che percorse in compagnia di un nuovo amico, Andrè Raffalovich, un ebreo russo che divenne cattolico e che gli fu compagno fedele per il resto della vita.

Se è pur vero che il mondo dell’estetismo poté vantare numerose conversioni al cattolicesimo, per la maggior parte si trattò di infatuazioni passeggere, gesti provocatori che durarono lo spazio di un mattino. Quella fin de siècle, come ha scritto Griffith in un recente saggio, fu una “falsa partenza” per il revival cattolico britannico che sbocciò solamente qualche anno dopo, a ‘900 ormai avviato.

Raffalovich e Gray, al contrario, furono due sopravvissuti di quella tragica generazione. Quest’ultimo, tra l’altro, dopo gli studi presso il Collegio Scozzese di Roma – lo stesso seminario che aveva ospitato l’irrequieto Frederick Rolfe “Baron Corvo” – venne ordinato sacerdote. Entrambi divennero terziari domenicani e grazie ai loro sforzi congiunti fu costruita a Edimburgo una nuova chiesa parrocchiale.

Il poeta aveva ceduto il passo al sacerdote, un uomo pio e devoto che prendeva sul serio la sua vocazione. Lontano dagli eccessi giovanili, Gray trascorreva le giornate aiutando i bisognosi e trattenendosi per ore al confessionale. Nutriva un affetto particolare per la liturgia cattolica; ogni giorno, mentre Raffalovich occupava puntuale il suo posto in prima fila, celebrava la messa con dignità, attento a scandire le parole, rispettando il ritmo e le pause.

Negli ultimi anni di vita Gray fu in contatto anche con il domenicano McNabb, amico di Chesterton e Belloc, che tentò inutilmente di coinvolgerlo nel progetto distributista, finalizzato ad applicare i principi del cattolicesimo sociale espressi da Leone XIII nell’enciclica Rerum Novarum.

Attraverso gli studi di esegesi biblica conobbe inoltre il gesuita irlandese George Tyrrel, uno dei campioni del modernismo. Sebbene non condividessero una virgola delle sue idee, lui e Raffalovich gli furono vicini nei difficili momenti della scomunica, offrendogli anche un cospicuo aiuto economico (che Tyrrel rifiutò garbatamente).

La vera storia di Dorian Gray, al di là dei molti altri aneddoti che si potrebbero citare, è dunque un saggio audace, che smitizza attraverso il particolare punto di vista di John Gray, il poeta che divenne sacerdote, un’epoca sovente ridotta a trita collezione di cliché. Il volume è sopratutto la storia di una conversione, di un cuore che cambia, che riorienta il suo desiderio di bellezza passando dall’arte a Dio: «La poesia perfetta che questo sacerdote-poeta ha fatto è stato il poema finito della sua vita a Lui dedicata».

Il libro: Vincenzo Lagioia, La vera storia di Dorian Gray, Bologna, Minerva Edizioni, 2012, pagine 318, euro 19.
 http://www.radiospada.org/2016/09/john-gray-lesteta-omosessuale-che-divenne-sacerdote/?utm_campaign=shareaholic&utm_medium=facebook&utm_source=socialnetwork

martedì 20 settembre 2016

Grazie ...


Le Quattro Tempora di settembre



La santificazione delle Stagioni.
autunnoLa santa Chiesa chiede, per la quarta volta nell’anno, un tributo di penitenza per consacrare le stagioni. si possono vedere al mercoledì della terza settimana di Avvento e alla prima di Quaresima i dati storici relativi alla istituzione delle Quattro Tempora. Qui richiamiamo soltanto le intenzioni che nel cristiano devono guidare questa parte del suo servizio annuale.

Inverno, primavera, ed estate, iniziati con il digiuno e con l’astinenza, hanno veduto scendere la benedizione di Dio sui mesi dei quali si compongono e l’autunno raccoglie i frutti che la misericordia divina ha fatto gemere dal seno della terra maledetta, perché pacificata dalle riparazioni degli uomini peccatori (Gen 3,17).

Il seme prezioso affidato al terreno nei giorni di freddo ha rotto la zolla appena sono venuti i giorni belli e la Pasqua si è annunciata dando ai campi il grazioso ornamento che loro occorreva, per unirsi al trionfo del Signore. Poi subito, come dovette avvenire nelle nostre anime sotto il fuoco dello Spirito Santo, lo stelo crebbe sotto l’azione del sole caldissimo, la spiga, ingiallendo, promise il cento per uno al seminatore e la messe si è raccolta nella gioia, e i covoni accumulati nel granaio del padrone invitano l’uomo a levare il pensiero a Dio dal quale questo dono è venuto.

Non si dica, come il ricco del Vangelo, dopo un raccolto abbondante: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e datti alla gioia. Ma Dio gli disse: Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà? Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio». (Lc 12,16-21).

Se vogliamo essere ricchi, ma ricchi veramente secondo Dio, meritando il suo aiuto nella nostra conservazione, come nella produzione dei frutti della terra, all’inizio di una nuova stagione usiamo gli stessi mezzi di penitenza già tre volte trovati così utili. Questo è d’altra parte un comando della Chiesa, che obbliga, sotto pena di peccato grave, chi non è dispensato legittimamente in questi tre giorni dall’astinenza e dal digiuno.
Valore della penitenza della Chiesa.
Abbiamo già detto della necessità che il cristiano, desideroso di progredire nella via della salvezza, ha di una iniziativa privata sul terreno della penitenza. Tuttavia anche in questo campo come in tutti gli altri l’attività privata non raggiunge mai il merito e l’efficacia dell’attività pubblica, perché la Chiesa veste della sua stessa dignità e della potenza di propiziazione annessa alla sua qualità di sposa gli atti di penitenza compiuti in suo nome nell’unità del corpo sociale. San Leone nei suoi discorsi al popolo di Roma, in occasione di questo digiuno del settimo mese, torna volentieri su questa caratteristica dell’ascetismo cristiano. Se è lecito, egli dice, a ciascuno di noi affliggere il corpo con penitenze volontarie e frenare, ora più dolcemente e ora più energicamente, le esigenze della carne che lotta contro lo spirito, è necessario tuttavia in giorni stabiliti un digiuno generale. Quando la Chiesa si unisce in un solo spirito, in una sola anima, per le opere di pietà, la devozione è più efficace e più santa. Tutto ciò che riveste carattere pubblico è preferibile a ciò che è privato e si deve comprendere che quando si impegna lo zelo di tutti è in gioco un interesse più grave. Il costume del cristiano non diminuisce dunque il suo impegno e, implorando il soccorso della protezione divina, sia assicuri ciascuno l’armatura celeste contro le insidie dello spirito del male. Ma il soldato della Chiesa, pur sapendo comportarsi valorosamente nella lotta da solo, lotterà tuttavia più sicuramente e con esito più felice al posto assegnato nella milizia della salute. Affronti dunque e sostenga la lotta di tutti, a fianco dei suoi fratelli e sotto il comando del re invincibile (s, Leone, Discorso iv, sul digiuno del VII mese).

Un altro anno e negli stessi giorni, il santo Papa e Dottore insisteva più energicamente ancora e più a lungo su queste considerazioni, che non si potrebbero richiamare abbastanza, di fronte alle tendenze individualiste della pietà moderna. Non non possiamo raccogliere che qualcuno dei suoi pensieri, rinviando il lettore alla raccolta dei suoi discorsi. “L’osservanza regolata dall’alto, egli dice, supera sempre le pratiche di iniziativa privata, non importa quali esse siano, e la legge fatta per tutti rende l’azione più sacra che non possa fare un regolamento particolare. L’esercizio di mortificazione che ciascuno si impone di sua volontà riguarda infatti l’utilità di una parte, di un membro, mentre il digiuno fatto dalla Chiesa tutta non esclude alcuno dalla generale purificazione, e il popolo di Dio diventa onnipotente, quando i cuori si riuniscono nell’unità della santa obbedienza e quando, nel campo dell’armata cristiana, le disposizioni sono dappertutto eguali e la difesa è la stessa in tutti i luoghi. Ecco dunque, amatissimi, che oggi il digiuno solenne del settimo mese ci invita a schierarci sotto la potenza di questa invincibile unità. Leviamo a Dio i nostri cuori, togliamo qualche cosa dalla vita presente per accrescere i nostri beni eterni. Il perdono completo dei peccati si ottiene con facilità quando la Chiesa si riunisce tutta in una sola preghiera e in una sola confessione. Se il Signore promette di accogliere ogni domanda fatta nel pio accordo di due o tre (Mt 18,19-20) come dire di no a tutto un popolo innumerevole, che segue uno stesso rito e prega in spirituale accordo? È casa grande davanti al Signore e prezioso lo spettacolo del popolo di Gesù Cristo, che si dedica allo stesso impegno e, senza distinzione di sesso e di condizione, in tutte le sue classi agisce come un cuore solo. È unico pensiero di tutti fuggire il male e fare il bene (Sal 33,15), Dio è glorificato nelle opere dei suoi servi, l’elemosina abbonda e ciascuno cerca solo l’interesse altrui e non il proprio. Per grazia di Dio che fa tutto in tutti (1Cor 12,6), frutto e merito sono comuni, perché comune è l’amore nonostante la sproporzione di quanto si possiede, e quelli che meno possono dare si eguagliano ai più ricchi, per la gioia che sentono della generosità altrui. Nessun disordine in un popolo simile, nessuna dissomiglianza là dove tutti i membri dell’intero corpo tendono tutti a dare prova di una stessa intensità di amore. Allora la bellezza delle parti si riflette sul tutto e fa la sua bellezza. Abbracciamo dunque, o carissimi, questa saldezza di unità sacra e iniziamo il solenne digiuno con la ferma risoluzione di una volontà concorde” (san Leone, Discorso iii sul Digiuno del VII mese).
Preghiera per gli Ordinandi.
Non dimentichiamo nelle nostre preghiere e nei nostri digiuni di questi giorni i novelli sacerdoti e gli altri ministri della Chiesa che riceveranno sabato l’imposizione  delle mani. L’ordinazione del settembre non è generalmente la più numerosa di quelle che il Vescovo compie nel corso dell’anno. L’augusta funzione cui il popolo cristiano deve i suoi padri e le sue guide non sentiero della vita, in quest’epoca dell’anno, offre tuttavia un interesse particolare, perché corrisponde meglio di qualsiasi altra allo stato presente del mondo, portato come è verso la sua rovina. L’anno volge anch’esso al suo termine. Il mondo, già illuminato dall’Uomo-Dio e riscaldato dallo Spirito Santo, vede raffreddarsi la carità, diminuire la luce e la fiamma del Sole di giustizia. Ogni rivoluzione strappa alla Chiesa gemme che essa non ritrova dopo l’uragano, le burrasche si fanno frequenti e la tempesta diviene lo stato normale delle società. L’errore domina e fa legge, l’iniquità abbonda. Quando verrà il figlio dell’uomo, diceva il Signore, pensate che trovi ancora fede sulla terra? (Lc 18,8).

Levate la vostra testa, o figli di Dio, perché la vostra redenzione è vicina (ivi 21, 28-31), ma tuttavia, da adesso all’ora in cui cielo e terra rinnovellati per il regno eterno sbocceranno nella inebriante luce dell’Agnello vittorioso (Ap 21), giorni più duri ancora devono scorrere nei quali anche gli eletti (Mc 13,22) sarebbero sedotti, se fosse possibile. Occorre quindi che in questi tempi sventurati i pastori del gregge siano all’altezza della loro vocazione rischiosa e sublime. Digiuniamo e preghiamo e per molte che siano le perdite già subite nelle file dei cristiani prima fedeli alle pratiche della penitenza, noi non manchiamo. Stretti in piccolo gruppo intorno alla Chiesa imploriamo lo Sposo di moltiplicare i suoi doni su quelli che egli chiama all’onore più che mai temibile del sacerdozio e di infondere in essi la sua divina prudenza, onde sventare le insidie, il suo zelo indomito nella ricerca delle anime ingrate, la sua perseveranza fino alla morte nel conservare, senza incertezze e compromessi, l’integrità della verità da lui rivelata al mondo, la custodia della quale nell’ultimo giorno sarà testimoniata dalla fedeltà della Sposa.

da: dom Prosper Guéranger, L’anno liturgico. – II. Tempo Pasquale e dopo la Pentecoste, trad. it. L. Roberti, P. Graziani e P. Suffia, Alba, 1959, p. 500-504