di Luca Fumagalli
In Wilde,
film del 1997 diretto da Brian Gilbert, vi è una scena fugace, solo
pochi secondi, che però descrive con brillante intuizione il momento
della definitiva separazione tra John Gray, giovane approdato al mondo
letterario dopo una dura gavetta, e Oscar Wilde, suo amico e amante. Il
loro rapporto era stato idilliaco, almeno fino a quando nell’orbita del
vate irlandese aveva iniziato a gravitare l’egocentrico quanto
affascinante Lord Alfred Douglas, soprannominato Bosie. Il disastroso
esito della loro relazione fu il noto processo del 1895 che trascinò nel
fango la reputazione del campione dell’estetismo inglese, confinandolo
negli angusti spazi di una cella.
Quando
Gray vede Oscar allontanarsi con Douglas, l’autocommiserazione si fa
largo in lui: «Io sono solo il figlio di un falegname, mentre Bosie…».
Robbie Ross, da poco diventato cattolico, non può far altro se non
consolare l’amico con parole che, col senno di poi, suonano
singolarmente profetiche: «Qualcun altro era figlio di un falegname».
Miseria e grandezza sono i due limiti entro cui si snodò la vita di uno dei protagonisti più discussi della Londra fin de siècle.
Di umili origini, John Gray (1866-1934) dovette faticare non poco per
affermarsi. Dalla sua parte vi erano la grande vivacità intellettuale e
la serietà con cui si dedicava agli studi. Poeta di rara delicatezza,
aperto alle influenze letterarie d’oltremanica, presto entrò a far parte
del circolo decadente, legandosi tra gli altri a Ernest Dowson e
a Aubrey Beardsley (di cui curò la pubblicazione postuma delle
epistole).
Il suo nome iniziò a circolare sulla stampa britannica quando venne associato al protagonista de Il ritratto di Dorian Gray,
chiaramente ispirato a lui. La ridda di polemiche che investì Wilde,
accusato di aver scritto un romanzo immorale e impudico, fu mitigata
dalla stampa cattolica, l’unica impegnata nella difesa di un testo che
raccontava con precisione la progressiva discesa di un’anima negli
abissi del peccato.
Vincenza Lagioia con il suo La vera storia di Dorian Gray
compie un’operazione biografica singolare, soprattutto per quanto
riguarda lo stile, costruendo una narrazione fatta di piccoli quadri, di
tanti spiragli che si aprono senza soluzione di continuità sulla
corrotta maestosità della letteratura britannica alle soglie del XX
secolo. Il saggio, quasi un edificio felliniano, ripercorre con la
passione di un avventuriero la biografia di John Gray, per troppo tempo
rimasta celata dietro la maschera di Dorian.
In
pochi, infatti, conoscono il secondo tempo della vita del giovane
poeta, il cui inizio coincise proprio con l’abbandono di Wilde. La crisi
che ne scaturì guidò provvidenzialmente Gray verso i sicuri lidi della
Chiesa di Roma, una strada che percorse in compagnia di un nuovo amico,
Andrè Raffalovich, un ebreo russo che divenne cattolico e che gli fu
compagno fedele per il resto della vita.
Se
è pur vero che il mondo dell’estetismo poté vantare numerose
conversioni al cattolicesimo, per la maggior parte si trattò di
infatuazioni passeggere, gesti provocatori che durarono lo spazio di un
mattino. Quella fin de siècle, come ha scritto Griffith in un
recente saggio, fu una “falsa partenza” per il revival cattolico
britannico che sbocciò solamente qualche anno dopo, a ‘900 ormai
avviato.
Raffalovich
e Gray, al contrario, furono due sopravvissuti di quella tragica
generazione. Quest’ultimo, tra l’altro, dopo gli studi presso il
Collegio Scozzese di Roma – lo stesso seminario che aveva ospitato
l’irrequieto Frederick Rolfe “Baron Corvo” – venne ordinato sacerdote.
Entrambi divennero terziari domenicani e grazie ai loro sforzi congiunti
fu costruita a Edimburgo una nuova chiesa parrocchiale.
Il
poeta aveva ceduto il passo al sacerdote, un uomo pio e devoto che
prendeva sul serio la sua vocazione. Lontano dagli eccessi giovanili,
Gray trascorreva le giornate aiutando i bisognosi e trattenendosi per
ore al confessionale. Nutriva un affetto particolare per la liturgia
cattolica; ogni giorno, mentre Raffalovich occupava puntuale il suo
posto in prima fila, celebrava la messa con dignità, attento a scandire
le parole, rispettando il ritmo e le pause.
Negli
ultimi anni di vita Gray fu in contatto anche con il domenicano McNabb,
amico di Chesterton e Belloc, che tentò inutilmente di coinvolgerlo nel
progetto distributista, finalizzato ad applicare i principi del
cattolicesimo sociale espressi da Leone XIII nell’enciclica Rerum Novarum.
Attraverso
gli studi di esegesi biblica conobbe inoltre il gesuita irlandese
George Tyrrel, uno dei campioni del modernismo. Sebbene non
condividessero una virgola delle sue idee, lui e Raffalovich gli furono
vicini nei difficili momenti della scomunica, offrendogli anche un
cospicuo aiuto economico (che Tyrrel rifiutò garbatamente).
La vera storia di Dorian Gray,
al di là dei molti altri aneddoti che si potrebbero citare, è dunque un
saggio audace, che smitizza attraverso il particolare punto di vista di
John Gray, il poeta che divenne sacerdote, un’epoca sovente ridotta a
trita collezione di cliché. Il volume è sopratutto la storia di
una conversione, di un cuore che cambia, che riorienta il suo desiderio
di bellezza passando dall’arte a Dio: «La poesia perfetta che questo
sacerdote-poeta ha fatto è stato il poema finito della sua vita a Lui
dedicata».
Il libro: Vincenzo Lagioia, La vera storia di Dorian Gray, Bologna, Minerva Edizioni, 2012, pagine 318, euro 19.
http://www.radiospada.org/2016/09/john-gray-lesteta-omosessuale-che-divenne-sacerdote/?utm_campaign=shareaholic&utm_medium=facebook&utm_source=socialnetwork
Nessun commento:
Posta un commento