Tempo di ciechi condotti da furfanti.
Alcuni farisei, che erano con lui, udirono queste cose e gli dissero: «Siamo ciechi anche noi?» Gesù rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane. (Gv 9, 38-41)
L'articolo riportato di seguito è di Roberto Pecchioli su Blondet & Friends. Lo riprendiamo perché offre un'analisi tanto impietosa quanto lucida e condivisibile della temperie in cui ci troviamo.
Dio acceca coloro che vuole perdere, scrisse il profeta Isaia. Il nostro
è un tempo di accecati e di creduloni, guidati da mascalzoni e
briganti. Non occorre scomodare l’Altissimo o attribuirgli colpe che non
ha : i ciechi siamo noi, che ci siamo lasciati cucire gli occhi ed
abbiamo regalato il nostro cervello ad esigentissimi padroni. Ben più
vera è l’osservazione di Gilbert K. Chesterton, per cui l’umanità, da
quando non crede più in Dio, è disposta a credere a qualsiasi cosa.
Tranne alla realtà, aggiungiamo noi.
Un sociologo francese, Marc Ferro, ha scritto un libro, L’aveuglement,
L’accecamento, ovviamente non tradotto nella nostra lingua, nel quale
dà una lettura della storia recente dell’Europa e dell’occidente come di
una vicenda di cecità, incapacità o testarda volontà di non vedere. Con
la benda sugli occhi, prestiamo fede ad una visione della realtà che ci
esenta dall’assumere responsabilità, prendere posizione, un eterno film
rosa il cui titolo potrebbe essere l’imbarazzante frase di certe
bandiere arcobaleno: Lasciateci in pace. Passiamo la vita ad evitare,
fuggire, dimenticare, scansare la verità, abolire i fatti, vivere
nell’attimo, nascondere il passato quanto il futuro. No, l’accecamento
non è opera di un Dio dispettoso o malvagio, ma di un pugno di briganti
al cui servizio sta una legione di servi. Uno scrittore contemporaneo
americano, Chuck Palahniuk ha espresso tutto ciò in un breve brano del
romanzo Cavie: “Stiamo crescendo in una generazione di schiavi. Stiamo
insegnando ai nostri figli l’impotenza.”
Un testimone acuto del nostro tempo, Renaud Camus, il francese autore della “Grande sostituzione”
(altro libro non tradotto in italiano, e non è un caso) dà una versione
complementare dell’accecamento e della credulità, affermando che non
sappiamo neppure più credere ai nostri occhi. Come è possibile, ci
chiede, che non vi accorgiate della nostra sostituzione con popolazioni
extraeuropee, che sta avvenendo a tappe forzate, e, negli ultimi due
anni (motus in fine velocior) con modalità impressionanti per
dimensioni, arroganza e spiegamento di mezzi politici e mediatici ?
L’avete davanti agli occhi, solo che usciate di casa, facciate una
passeggiata, saliate su treni o metropolitane. Se non vedete, è perché i
vostri occhi sono chiusi o il vostro cervello è paralizzato,
sequestrato dai briganti, che vi hanno instillato assurdi sensi di
colpa, strappato il senso dell’identità, estirpato l’orgoglio
dell’appartenenza, trasformato in un gregge impaurito, che i servi
pastori conducono a piacimento verso il mattatoio.
È una ostinata sindrome di Stoccolma, un veleno che ci hanno
instillato dopo aver convinto gli europei che il loro glorioso passato,
la straordinaria, variegata civiltà che hanno creato e diffuso non fu
altro che una volgare storia di violenza, dominio e sopraffazione. Noi
dovremmo quindi pagarne il fio, scusandoci continuamente e con chiunque,
accettando senza fiatare la nostra estinzione, anzi collaborando ad
essa. Cecità, ed insieme credulità dinanzi a menzogne costruite ad arte
da chi, dopo la sconfitta del 1945, ci ha in pugno e non vuole che
servi. Ciò che stupisce è l’accettazione di questa espiazione
collettiva, comunitaria e transgenerazionale in un mondo che ha fatto
dell’individualismo l’unico valore. Abbiamo ucciso il padre, seguendo la
triste lezione di Freud, non vogliamo eredi ed abbiamo rinunciato ad
identificarci nella nostra razza, nel nostro popolo, nella stessa
famiglia di origine: ci riconosciamo però debitori e colpevoli ereditari
per le azioni dei nostri migliori antenati. Non ci resta che accettare
la qualifica di figurine dell’opera dei pupi, che si muovono attraverso i
fili tirati dal puparo e parlano attraverso di lui. Cecità più afasia.
Lo stesso Camus, a proposito del silenzio collettivo dinanzi
all’immigrazione sostitutiva, ci richiama ad un’altra verità elementare,
che ignoriamo per chiusura mentale indotta : integrare degli individui è
sempre possibile, ma è da escludere che lo si possa fare con grandi
masse umane, o con intere comunità. Un altro accecamento, poiché i
fatti, questi convitati di pietra cui volgiamo le spalle per follia
collettiva, sono lì a dimostrarlo, e ci parlano delle banlieue francesi,
dei tribunali islamici presenti e tollerati in Gran Bretagna e
Germania, della sostanziale extraterritorialità di Molenbeek in Belgio,
di Marsiglia Nord e di un numero ogni giorno più elevato di strade e
quartieri in tutto il continente.
In Algeria, cinquant’anni fa, dopo la guerra e la decolonizzazione,
alcuni milioni di francesi furono cacciati in poche settimane, poiché si
riteneva che non potessero convivere con gli algerini indipendenti.
Molti di loro erano laggiù da generazioni, ma dovettero tornare
precipitosamente nella vecchia madrepatria. Ciò che fu imposto ai
bianchi (il problema era la razza, non lo scordiamo!) non può neppure
essere ipotizzato a carico dei nuovi arrivati. Lo vieta non solo il
politicamente corretto, ma l’intera mentalità da morti viventi dei
nostri popoli, alimentata da centrali di potere finanziario, chiesa in
agonia, ragione economica utilitaria.
Perdita di memoria, o memoria con reset selettivo. Un esempio: popoli di
antica cultura hanno smarrito il concetto stesso di storia. Lo capì un
altro francese, Fernand Braudel, animatore del gruppo di Annales, che
istituì la categoria della “lunga durata” rispetto agli eventi ed alla
loro percezione. Alla massa, cui manca il senso della storia, sembra che
le fluttuazioni siano pressoché impercettibili, o che increspino solo
lievemente la superficie della vita. Così non è, e le accelerazioni che
abbiamo vissuto negli ultimi trenta-quarant’anni avrebbero dovuto
rendere tutti più attenti, ricettivi. È il contrario, ed il concetto di
accecamento collettivo scoperto da Marc Ferro deve quindi essere accolto
come elemento costitutivo dell’epoca corrente.
Il potere, per di più, ha costruito una falsa coscienza collettiva su
nuove credenze organizzate, ed ha utilizzato con sapienza un concetto
tratto da Hegel, quello di coscienza infelice, che permette di far
passare nella mente dei più autentici spropositi e follie per senso di
colpa. Da ultimo, tale concetto è stato riesumato in qualche misura
dalla sociologia attraverso la cosiddetta “finestra di Overton” [qui - qui],
ovvero i passaggi culturali, talora metastorici, che convertono in
normale, giusto ed accettato anche ciò che è assurdo o innaturale.
Pensiamo, ad esempio, all’ossimoro delle nozze omosessuali o alla
trasformazione delle parole: da clandestini a migranti, ed ancora
rifugiati o profughi, da prostituta ad escort, sino agli orribili
femminili sindaca o ministra (coscienza infelice di genere, ergo
sessismo, maschilismo) od al femminicidio, che è un assassinio con
l’aggravante di essere compiuto su un soggetto di sesso, anzi di genere
femminile.
Marc Ferro denuncia, in verità, accecamenti di natura storica, ma la sua
lezione ci è utile per capire anche i meccanismi citati. In una fiaba
di Andersen un re vanitoso – oggi diremmo schiavo dell’immagine -
assolda dei tessitori imbroglioni per confezionare degli abiti che lo
rendano invisibile agli indegni ed agli stolti. Per timore di apparire
tali, tutti lodano l’inesistente abbigliamento del sovrano, solo un
bimbo ha il coraggio della realtà, e pronuncia la frase, divenuta
famosa, Il re è nudo ! Nudi siamo noi, indifesi dinanzi a meccanismi che
non hanno nulla di naturale, e neppure di divino.
Ferro parla di “credulità militante” come causa della cecità che ci sta
conducendo al suicidio, attribuendola alla prevalenza dell’ideologia.
Finito il comunismo, religione secolare per milioni di uomini, tuttavia,
una sola ideologia è rimasta in piedi, il liberismo, ormai sfrenato e
dissociato persino dalla sua componente di liberalismo politico. Ovvio
dunque di chi sia la responsabilità della pigra credulità di massa di
chi si accontenta della versione ufficiale dei fatti, quella diffusa da
chi conta e può.
Una prima osservazione è semplice: le due maggiori agenzie di stampa del mondo, la Reuter e l’Associated Press
sono di proprietà di un unico gruppo, facente capo alla grande
galassia dei Rothschild. Se aggiungiamo che, tra i tanti altri assets
posseduti, quelli dello Scudo Rosso detengono quote di controllo della
Banca d’Inghilterra, della petrolifera Royal Dutch Oil Company, sono
monopolisti del mercato dell’oro e della relativa borsa ( London Bullion
Market Association) ), ed hanno quote importanti del Fondo Monetario,
attraverso le partecipazioni nella Federal Reserve e nella Banca
Centrale Europea, per cui di fatto hanno il controllo anche della BRI
(Banca dei Regolamenti Internazionali, la banca centrale delle banche
centrali) dovremmo concludere che le notizie che riceviamo sono, quanto
meno, filtrate da interessi giganteschi. Gli stessi oligarchi, insieme
con pochi altri facenti capo a famiglie come i Rockefeller o gli
Warburg, sono i padroni dei governi, ricattati dalle istituzioni
finanziarie e vincitori di elezioni le cui campagne sono finanziate da
loro. La storia , come ce la raccontano, è quindi inevitabilmente la
versione dei fatti autorizzata da costoro. Basta rammentare come la fine
del comunismo e la dissoluzione dell’Unione Sovietica ci venne
rappresentata come alba di una nuova era per tutti, mentre si rivelò una
bomba posta sotto la vita dei popoli, sottoposti al regime del
liberismo economico più ideologico e pervasivo della storia.
La stessa URSS venne rapidamente divisa in molti stati per distruggere
la capacità della Russia di riprendere un ruolo guida, privata
dell’apporto di Kazakhstan, Azerbaigian, di altre repubbliche federate
e, in Europa, dell’Ucraina, terra madre della stessa Russia dal XIII
secolo, quella Rus di Kiev la cui conquista ispirò Il canto della
schiera di Igor, il primo poema nella lingua che fu poi di Tolstoj e
Dostojevsky. A noi dissero che nasceva un universo di libertà, di
rispetto per i diritti dei popoli e delle persone. Ci abbiamo creduto
per vent’anni, il dubbio sta affiorando da poco, ma intanto siamo nel
pieno di una offensiva dei nostri padroni globali, gli Usa braccio
armato del potere finanziario, nei confronti della Russia e di ogni
popolo di cui interessi controllare le risorse.
Le primavere arabe sono state salutate con altrettanto entusiasmo, ed
abbiamo potuto verificare i drammatici esiti dei rivolgimenti tunisini
ed egiziani, per tacere del dramma libico provocato dagli interessi
anglo francesi, con l’assassinio di Gheddafi ad opera di gruppi legati
ai servizi segreti di quei Paesi. La “democrazia” americana in Iraq è
stata imposta al prezzo di una guerra civile che dura tuttora, ha
distrutto il paese, le sue infrastrutture e polverizzato quel tanto di
tessuto civile che possedeva. Della Siria, con l’attacco forsennato ad
Assad, il verminaio degli interessi turchi, sionisti e statunitensi
meglio tacere, nella speranza che non conduca ad un confronto diretto
russo-americano dalle conseguenze tragiche.
Altrettanta cecità, e credulità popolare, nel giudizio sull’attentato
dell’11 settembre 2001 che ha inaugurato il terzo millennio, ed
assoluta, totale malafede nell’interpretazione e nella stessa
informazione spicciola sulla crisi del 2007/2008, di cui viene tuttora
taciuto lo stretto rapporto con la globalizzazione e con la predominanza
della finanza sull’economia e sulla sovranità degli Stati. La
globalizzazione, al contrario, venne proposta, o meglio imposta, come un
progresso tecnico e culturale, anziché come la forma nuova di un
dominio e di una presa del potere da parte del capitalismo che, come
Crono della mitologia greca e del celebre dipinto di Goya, divora i suoi
stessi figli.
Dell’espiazione dovuta dagli europei per il loro passato di dominatori,
architrave della giustificazione dell’immigrazionismo, abbiamo detto.
Potremmo aggiungere l’incapacità di comprendere per tempo il risveglio
islamista, che vive di risentimento, ma che si nutre soprattutto del
disprezzo per il materialismo e l’immoralismo occidentale. L’Islam, nel
frattempo, è penetrato profondamente in Europa, e non solo nelle vesti
terroristiche di Al Qaeda o dell’ ISIS. No, tenacemente continuiamo ad
attribuire tutto alla sola povertà, come se il sedicente Bin Laden fosse
un proletario saudita o una religione che ha quattordici secoli ed una
storia aggressiva si potesse rappresentare con le chiavi concettuali
della vulgata marx-progressista del pensiero occidentale.
Pigrizia ed autentica ignoranza sapientemente indotta e largamente
diffusa da chi possiede tutti i media, lo scrisse già negli anni 90 il
docente universitario Harold Bloom, denunciando il basso livello delle
istituzioni culturali americane in un importante saggio proposto in
Italia solo da una piccola casa editrice “La chiusura della mente americana”.
Insomma, ci rifiutiamo di vedere e di sentire, come le tre scimmiette
della storiella, che non vedono, non parlano e non sentono, tanto per
noi fa tutto il Grande Fratello globale.
Il guaio è che la cecità nostra è condivisa dalle élite che ci guidano,
quelle politiche che si alternano in governi formati da bande diverse
dell’unica centrale liberista, quelle economiche e finanziarie, vassalle
e valvassine dei padroni che contano, dislocati per lo più in America,
e, ovviamente quelle dei chierici della cultura e dei mezzi di
comunicazione, impiegati di concetto alle dipendenze di chi possiede
tutti i mezzi, dunque determina i fini generali e, incidentalmente,
carriere e privilegi della casta intellettuale.
Auguste Comte, padre del positivismo ed iniziatore della sociologia,
affermò che governare significa prevedere. In Europa, nessuno sembra
eccellere per lungimiranza e visione di lungo termine. In America, le
“cupole” sono indubbiamente più preparate, ma il loro impegno è volto a
preservare l’egemonia USA attraverso le armi, la prepotenza, l’influenza
culturale.
La cecità, e la credulità estrema di cui siamo colpevoli, consiste
anche, forse soprattutto, nel non guardarsi attorno, e non riconoscere
che gli interessi nostri e quelli americani sono divergenti, e, in prima
battuta, vivere nella sciocca credenza che esista la democrazia. Ci
sono gli interessi di pochissimi, nudi e crudi, e la loro scelta di
farci digerire tutto in nome di parole astratte quanto venerate: la
democrazia, appunto, i diritti umani, i nuovi diritti civili in materia
etico sessuale, il progresso. Termini difficili da contestare, ancora
più da smascherare per la loro indeterminatezza che acceca ed insieme
appaga le greggi dormienti in cui hanno trasformato i nostri popoli.
Il fallimento delle élite divenute oligarchie, la loro evidente
bancarotta morale e pratica completano il quadro. Ancora alcuni esempi
di cecità accompagnata alla credulità di massa: la tenace convinzione
dei comunisti europei che l’URSS fosse un paradiso; la violenta, unanime
campagna di delegittimazione della scelta britannica di uscire
dall’Unione Europea; la demonizzazione di una pur discutibile
intellettuale della statura di Oriana Fallaci, cacciata nel cono d’ombra
dei pazzi e dei reazionari – lei, ex staffetta partigiana e tutt’altro
che “di destra” – per aver rivendicato la civiltà europea contro lo
strisciante, progressivo cedimento all’Islam; l’indifferenza con cui
venne accolta, nel 2001, la notizia dell’ammissione della Cina al WTO,
che ha cambiato la mappa economica e geopolitica della Terra.
Un caso italiano di accecamento e di accettazione acritica di false
verità “al ribasso” è la data dell’ 8 agosto 1991. Nessuno ricorda che
cosa accadde quel giorno, ed è la prova della verità di quanto qui si
afferma: una nave stracarica di 20.000 albanesi attraccò nel porto di
Bari. Il dramma dell’immigrazione massiccia in Italia ebbe la sua data
simbolo, come il 14 luglio per la rivoluzione francese. Non capimmo
allora, né chi ci governava colse la portata degli avvenimenti. Oppure,
comprese benissimo e non disse il vero alla nostra gente:
minimizzazione, invocazione generica alla solidarietà ( un’altra parola
abusata ed astratta in bocca a mascalzoni ed anime belle), incapacità
previsionale, rifiuto di organizzare una risposta all’invasione.
Fiumi di parole di bassa sociologia, incomprensione della storia, la
quale è soprattutto lunga durata, sequenza irregolare di eventi ed idee i
cui nessi determinano la condizione di protagonisti o di vittime. Noi,
con gli occhi bendati, ci siamo limitati ad essere spettatori passivi
non di fatti, ma di notizie, anzi di news, felici di passare rapidamente
al blocco successivo, allo sport o all’ultimo festival. Convinti di
vivere in una sorta di bolla protetta da qualche misteriosa entità,
abbiamo creduto alle versioni ufficiali, continuato a campare in un
angolino della cronaca, meglio se rosa.
Negli anni Settanta, poco ascoltato dal suo stesso ambiente politico, un
uomo della cultura e della tempra morale di Beppe Niccolai esortava i
giovani a ragionare con le categorie della storia, allontanando le
sirene della sociologia, che non spiega, ma giustifica.
Contemporaneamente, in Francia, il MAUSS, Movimento Anti Utilitarista
delle Scienze Sociali denunciava, con un magistrale libretto-manifesto
di Alain Caillé, la ragione utilitaria che si era impadronita
dell’Occidente e si poneva ormai come unico “ethos” di una
civilizzazione allo stremo. Il MAUSS, sulle piste tracciate dal grande
antropologo Marcel Mauss, ma anche da Karl Polanyi, dall’antropologia
culturale di Malinowski a Lévi Strauss, e, paradossalmente perfino da
sociologi ed economisti come Vilfredo Pareto, dimostrò che l’agire umano
è determinato da molteplici cause. Il tornaconto utilitario, la ragione
economica, l’interesse è solo una delle tante, con il prestigio, la
religione, la sete di dominio, l’avventura, l’affermazione della propria
gente, e per millenni non è stata la più importante. Solo da noi e solo
da due secoli si è impadronita dell’animo umano, in alleanza con il
positivismo scientifico e soprattutto con la tecnologia.
L’uomo medio europeo si è fermamente convinto, da diverse generazioni,
che solo l’interesse economico sia il motore delle nostre vite e la
causa di ogni avvenimento. In anticipo sul movimento francese, un uomo
politico di ampia cultura, Pino Rauti, scrisse un libro che fu
orientamento per una generazione di militanti, Le idee che mossero il
mondo, nel quale ricostruiva ed interpretava i grandi avvenimenti
storici alla luce delle idee che li determinarono. Silenzio, sonno della
ragione, indifferenza hanno accompagnato tutti coloro che non si sono
piegati al pensiero dominante. In Occidente non sono state innalzate
forche per i dissenzienti, ma ha funzionato a pieno regime il Tribunale
della Nuova Inquisizione Progressista: cattedre negate, libri non
pubblicati o costretti ad una semi clandestinità che ricorda
sinistramente i samizdat con cui circolavano in Russia i testi ostili al
regime sovietico, derisione, supponenza, e, per contro, porte
spalancate alla sottocultura della televisione commerciale, dei Bignami
da terza ragioneria, alle verità prefabbricate e vendute a dispense,
abbinate ai concorsi a premi.
La Grecia antica, che nel mito aveva già rappresentato ogni aspetto
della civiltà che avrebbe plasmato per i millenni successivi, inventò la
figura di Cassandra, la sfortunata troiana figlia di Priamo,
sacerdotessa di Apollo da cui ebbe il dono della preveggenza, ma che lo
stesso Dio, cui non si era concessa, condannò a non essere mai creduta.
Invisa ai più per le sciagure che prevedeva, figura tragica, subì il
destino terribile di chi sa e comprende, ma, con altrettanta certezza,
conosce la vanità delle sue parole. Può solo affidarle al tempo ed alla
storia, ed è il destino amaro di coloro che si oppongono alle idee
correnti.
Il pessimismo della ragione espone all’odio, o quantomeno
all’infastidito rancore della maggioranza, la quale preferisce il colore
rosa, l’ottimismo di maniera e, come i gatti, ama solo chi le liscia il
pelo. Jerome Klapka Jerome, il grande umorista inglese, descrisse
sapientemente tale attitudine in Tre uomini a zonzo, allorché espresse
la livorosa antipatia suscitata in un gruppo di gitanti da un vecchio
montanaro che previde il maltempo che puntualmente si abbatté sulla
zona. Che cosa ne sa della meteorologia, quell’ignorantone, e perché ci
vuole impedire il nostro divertimento ? Quanto è più gradito e simpatico
agli stessi turisti l’albergatore che li rassicura, è solo qualche
nuvola di passaggio, e pazienza se la tempesta si è abbattuta sugli
incauti: lui non ha colpa, ha fatto del suo meglio.
È una splendida fotografia della realtà. Se poi è credenza comune che
solo la ragione utilitaria è il motore del mondo, come fa credere un
poderoso apparato di disinformazione e diseducazione, ridiventa
paradossalmente vera la convinzione rautiana secondo cui sono le idee a
muovere il mondo. L’utilitarismo, da Bentham in poi, o meglio da
Mandeville e la Favola delle Api, è l’ideologia dei mercanti e dei
finanzieri padroni del mondo: normale che la impongano come dogma alle
loro vittime, noi. Assolutamente anormale che vi si presti fede, ciechi
volontari, fiduciosi nei cani che ci conducono, negli economisti armati
di modelli matematici, negli esperti di tutto e di niente, negli
imbonitori da circo che ripetono quella vecchia battuta da
avanspettacolo “venghino, signori, venghino, più gente entra, più bestie
si vedono”.
La storia, purtroppo, ha sviluppi e forme che non sono direttamente
comprensibili. Esiste un rapporto tra le convinzioni popolari e la
demografia, la produzione, le forme concrete di dominio, le relazioni
sociali. I più lo ignorano, o non lo riescono a cogliere. Talora, si
verificano delle accelerazioni improvvise, pensiamo alla caduta del
comunismo, o all’attentato di Sarajevo del 1914 che innescò la prima
guerra mondiale. Negli ultimi due secoli, addirittura, l’accelerazione è
divenuta la norma, tanto da modificare la stessa percezione del tempo.
Un filosofo come Bergson, all’inizio del Novecento, distinse e
contrappose il “tempo spazializzato” della scienza, misurabile , a
quello che definì ” durata reale “, il tempo cioè che scorre nella
nostra coscienza.
Più recentemente, Reinhart Koselleck ha parlato di “futuro passato”, per
descrivere la velocità, l’anticipazione che viviamo nel presente
continuo fatto di notizie, dati, idee sempre nuove, che sconcertano
l’uomo comune e lo dispongono ad affidarsi alle verità di comodo,
confezionate per lui dall’apparato di potere. Quel potere che non si
presenta come un Grande Fratello, pigra traduzione italiana di Big
Brother, ma piuttosto come un bonario Fratello Maggiore che sa tutto,
conosce il nostro bene meglio di noi e ci tiene alla larga dai guai.
Pensare, appunto, è un guaio, e salta alla mente il titolo di un’opera
teatrale dell’Ottocento russo, di Griboedov, Che disgrazia l’ingegno !
L’accelerazione, ci spiega Koselleck, lo spazio dell’esperienza (ciò che
sappiamo, abbiamo sperimentato ed appreso dalla comunità e dalla vita)
cede dinanzi all’avanzata dell’orizzonte dell’aspettativa, la tensione
verso un futuro che vorrebbe farsi presente. Mutamento ed accelerazione
sono troppo difficili da dominare per l’essere umano, ed ecco pronta
l’interpretazione “autentica” ed unificata dei fatti, l’opinione che
occorre avere, la credenza che vale in società ed apre tutte le porte. I
padroni del tempo hanno chiaro che l’uomo ha bisogno di una certa dose
di conformismo per vivere; la posologia corrente è da cavallo, ma, ai
piani alti, sanno bene che la complessità non funziona con l’uomo
comune.
Di qui il riduzionismo di matrice anglosassone, che è una sorta di
pragmatismo ad uso degli imbecilli. Abbiamo bisogno di spiegazioni
semplici, di soluzioni pronte, il pensiero complesso ce lo hanno
sequestrato. Eppure, personalità come Edgar Morin hanno richiamato
tutti, e specialmente la classe degli intellettuali, degli esperti,
contro l’iper-semplificazione, moderna patologia della mente che rende
ciechi alle molteplici sfumature della realtà. Malattia è l’idealismo (ideismo,
correggeva Del Noce, ovvero situare la realtà nell’idea che ci si fa di
essa), come malattia è il razionalismo, che restringe ogni cosa a
formula o misura. Abbiamo parlato di civiltà-Bignami, ed è questo :
ridurre il tutto a dieci paginette che, a loro volta, possano essere
sintetizzate in una sola, fino ad una definizione in una frase.
Scienza e tecnica spiegano tutto, l’utile è il moderno Motore Immobile,
quasi l’Atto puro cui dobbiamo inchinarci. Resta insuperabile
l’intuizione di Mc Luhan secondo cui mezzo e messaggio coincidono. Il
baccano mediatico, infatti, diventa messaggio in quanto esprime tutto:
fatto, interpretazione, visione, commento, morale da trarre. Veloce,
breve, una successione di fotogrammi (frames) che rapidamente ci
trasportano altrove, dalle guerre ai diritti degli omosessuali,
dall’immigrazione al Prodotto Interno Lordo, passando per il campionato
di calcio, il divorzio di Angelina Jolie da Brad Pitt ai numeri del
Superenalotto che simboleggiano la speranza. Una cecità programmata
anche nei particolari. Infatti, deviano il rancore popolare sui governi,
che contano poco o nulla, anziché sulle oligarchie finanziarie e
l’apparato militare industriale multinazionale; convincono che i diritti
sociali contino meno dei cosiddetti nuovi diritti civili (matrimonio
gay, procreazione assistita, ormai anche l’eutanasia, il “diritto” di
morire !).
La credulità sembra arretrare, nella gente comune. Lo dimostrano le
manifestazioni di massa contro il Trattato Transatlantico, silenziate
dai media, il voto britannico sull’Europa, l’insofferenza montante nei
confronti dell’immigrazione, lo stesso fenomeno Trump in America. La
risposta, finora, è desolante: curare la malattia con dosi ancora più
massicce degli ingredienti che l’hanno prodotta. Le sedicenti élite sono
indietro rispetto a noi poveri popolani.
La loro cecità, la loro credulità consiste nel credere allo specchio
deformante che hanno di fronte . Non prestano fede ai propri occhi, non
gettano lo sguardo oltre la finestra, la loro realtà assomiglia sempre
più a quei balconi dipinti iperrealisti, con tanto di vasi di fiori
sulla facciata di certe case. Sembrano veri finché non ci si avvicina:
si chiama “trompe l’oeil”, inganna l’occhio, ed è il paradigma di quel
che viviamo.
C’è necessità di un nuovo realismo, simile a quello prospettato da Carl
Schmitt, di uno sguardo su tutto che riprenda a credere a quanto vedono
gli occhi e trarne le conseguenze. Un concetto bellissimo è la
concretezza, che non è materialismo, riduzionismo, o banale presa d’atto
di qualcosa, ma è la voglia, il gusto, il dovere di cogliere i fatti,
individuarne i nessi e le cause, ed agire di conseguenze, armati di un
progetto. Per questo, c’è bisogno di strapparsi la benda dagli occhi,
inforcando semmai occhiali che correggano tanto la miopia degli
utilitaristi quanto la presbiopia degli utopisti.
Altrettanto urgente è recuperare la fiducia in se stessi, nella nostra
capacità di capire, chiamare con il giusto nome ciò che vediamo,
valutare gli avvenimenti senza attenersi ai libretti di istruzioni
predisposti per noi dal Grande Rieducatore di potere. In Germania, la
fine della prima guerra mondiale fu salutata con manifestazioni di gioia
popolare, ma l’impero guglielmino aveva perduto, i soldati si erano
ribellati, lo stesso imperatore aveva abdicato. I comandi, per
nascondere la capitolazione, emisero un comunicato in cui si affermava
che i soldati tornavano “non vinti” dai campi di battaglia, e
l’armistizio era dovuto alle pugnalate alla schiena dei nemici interni.
Quel che successe dopo lo sappiamo tutti, le sue conseguenze sono
tuttora sulle carni dell’Europa.
Ma la menzogna, se si combatte l’accecamento e si smette di credere alle
balle ripetute sino allo sfinimento per farle diventare verità unica,
non può durare per sempre. Soprattutto, non è possibile ingannare tutti e
per sempre. Certo, ritornare al pensiero critico è difficile, comporta
difficoltà, studio, opposizioni diffuse. È vietato essere
“revisionisti”, ma in questo consistono civiltà e cultura : cercare con
pazienza e senza preconcetti la verità rivedendo continuamente gli
elementi di un problema, ricostruendo i fatti, e non decostruendoli o
cristallizzandoli.
C’è un ostacolo terribile, che ben conosce il Potere, il quale infatti
lo usa contro di noi: è il desiderio di conformismo indotto
dall’esaltazione dell’uguaglianza in cui tutti vogliono essere “come
tutti gli altri”. La tendenza ad accettare, quando non ad amare, ciò che
è uguale, uniforme, rassicurante, già pronto e servito come il cibo
precotto della mensa, si accorda con il nostro paradossale
individualismo di atomi identici e massificati, api operaie di un
immenso alveare impegnato a produrre il miele per un’Ape Regina che
neppure conosciamo, disinteressati ai perché .
Alexis De Tocqueville fu il primo a capirlo, riconoscendo nell’umanità
democratica un’invidia profonda per chi ha di più e per chi è migliore,
una passione smodata per il possesso che diventa idolatria per
l’uguaglianza allorché non riesce a possedere. L’esito è la tirannia dei
più, tanto più drammatica in quanto la maggioranza è prima determinata,
quindi manipolata dal potere del denaro, unito oggi in un’ alleanza
formidabile con la Tecnologia.
“Vedo chiaramente nell’eguaglianza due tendenze: una che porta la mente
umana verso nuove conquiste e l’altra che la ridurrebbe volentieri a non
pensare più.” L’aristocratico francese immaginava in cuor suo che
l’esito sarebbe stato quello della seconda alternativa. Possiamo
smentirlo, se accettiamo la sfida della complessità e della realtà, se,
innanzitutto, ci convinciamo che il nostro non è solo il tempo dei
creduloni e dei ciechi, ma è soprattutto quello dei briganti. Un vecchio
detto popolare consiglia : A brigante, brigante e mezzo. Un altro, più
elegante perché francese afferma “A la guerre, comme à la guerre” .
Travolti da un pacifismo ridicolo (altra cecità, altra credenza
ingenua…) non sappiamo ancora, o non vogliamo prendere atto che le
oligarchie sono in guerra contro di noi molto più dei tagliagole
islamici, peraltro largamente armati da loro.
Le guerre si possono vincere o perdere, ma è senz’altro sconfitto chi non combatte perché cieco, sordo e muto.
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