Eutanasia dei diritti umani … o diritto umano all’eutanasia?
di Massimo Micaletti
Il recente caso dello stupratore belga che ha chiesto ed ottenuto di poter essere ucciso in luogo dell’espiazione della pena [1] ha suscitato parecchi commenti, soprattutto nel mondo di coloro che si interessano di Vita e Diritto. Sui profili strettamente giuspenalistici di questa ennesima assurdità dei nostri tempi, posso rimandare serenamente a quanto scritto da Ilaria Pisa [2]; mi interessa invece dimostrare come la vicenda di questo signore, Frank Van De Bleeken, sia la riprova che la retorica dei diritti umani è ormai stantia ed anzi pericolosa. Non è poi così noioso, però è un po’ complicato e tuttavia necessario, se vogliamo fare il punto e soprattutto renderci conto di cosa stia capitando, con uno sguardo preoccupato a quel che capiterà.
Dobbiamo perciò articolare la riflessione in tre momenti: il primo è, appunto, sui diritti umani. Si tratta di una costruzione pericolosissima per il cattolico, per tutta una serie di ragioni e di intenti che provengono dal mondo essenzialmente laicista e massonico da quale i diritti umani promanano; essi hanno però un merito storico oggettivo, che vedremo di sintetizzare qui di séguito.
Il regime nazista – dal processo al quale, a Norimberga, la teoria trovò la sua completa formulazione – si fondava sul positivismo giuridico, concezione che al di là del nome di positivo non aveva proprio nulla: il positivismo è ben riassunto, infatti, nell’assunto “Auctoritas, non Veritas facit legem”, ossia la legge è un prodotto dell’autorità, non della verità. Fermi tutti: che significa? Significa che una volta che si è individuata di comune accordo (o ci è stata imposta) una norma fondamentale che regola la produzione delle leggi ed individua gli organi che pssono produrle, ecco che queste leggi sono tutte giuste e valide: in altri termini, il riferimento per valutare se una norma è giusta non è la morale, il senso del Bene e del Male (Veritas), bensì il procedimento o l’organo da quale la legge deve promanare (Auctoritas), perché il Diritto non può e non deve rifarsi a criteri di Bene o di Male in quanto tali criteri non sono conoscibili dall’Uomo. Non è una cosa troppo tecnica, è anzi un atteggiamento diffuso e ben presente ancora oggi. Pensiamo ad esempio alla Legge 194: ecco, per molti tecnici ed opinionisti (non sempre intellettualmente onestissimi) la legge sull’aborto è giusta perché emanata dal Parlamento e confermata da un referendum, a prescindere dai problemi etici che essa pone. Sono argomenti, del resto, buoni per tappare la bocca a qualcuno, per chiudere una discussione.
Con la teoria dei diritti umani, in reazione al positivismo, si cerca di riportare la legge non solo al cospetto di una morale, ma al di sotto di questa: ed è un grande traguardo, non scontato e che oggi infatti stiamo di nuovo perdendo. Essi riportano il problema del giudizio sulla norma entro un alveo individuato di principi che vogliono essere giuridici e morali, non risolvendolo con la mera rispondenza alle procedure, come invece tagliava corto il positivismo, che non a caso era funzionale al regime nazista come a quello comunista. In quest’ottica, la legge è giusta, insomma, non solo se emanata dall’organo competente secondo le regole condivise, ma anche e soprattutto se non viola i diritti umani.
Parrebbe tutto bellissimo, ma così non è, quantomeno per noi cattolici.
Il problema che pongono al cattolico i diritti umani è che essi sono un catalogo creato dall’Uomo, quale precisa alternativa illuminista ai Dieci Comandamenti ed alla morale cristiana, a fondamento di una nuova civiltà che ha rotto i ponti con Dio e si costruisce da sé i propri principi. Appare dunque evidente che il parametro non è la sola ed unica Veritas, la Veritas divina, ossia i precetti dettati da Dio nel Suo amore infinito per noi, quanto piuttosto un insieme di valori e principi meramente umani, apparentemente condivisi da tutti i popoli: potrebbe dirsi, parafrasando il brocardo che ho riportato sopra a proposito del positivismo, che l’ottica alla base della Dichiarazione universale è “Unitas, non Veritas facit legem”.
In quanto meramente umani, tali principi e valori sono mutevoli, emendabili, interpretabili e tanto sta avvenendo: questi principi vengono interpretati, elusi e manipolati, sebbene vi siano ancora resistenze al loro esplicito stravolgimento. E questo lo vedremo tra poco.
Il secondo momento della nostra riflessione attiene alle caratteristiche peculiari di questo catalogo di diritti, tra i quali è ovviamente ricompreso il diritto alla vita.
Per accordare loro la massima protezione, essi sono stati definiti – tra le altre prerogative – indisponibili, ossia non vi si può rinunciare: io non posso rinunciare al mio diritto alla vita. Al che qualcuno obietterà: ma come, non posso suicidarmi? Dobbiamo allora approfondire il senso reale dei diritti umani.
Poiché essi toccano beni fondamentali e connaturali alla condizione umana (la vita, la libertà, la salute etc.), non si può parlare strettamente di “diritti ad avere qualcosa”, quanto piuttosto di “diritti a non essere privato di qualcosa”.
Facciamo un esempio. Il diritto alla vita non comporta che a ciascuno spetti di vivere, perché il bene vita, che lo si voglia o no, non ce lo diamo da noi: se una persona muore di colpo di morte naturale, gli eredi non possono certo fare causa al Padreterno o alla natura per far valere il “diritto alla vita”. Però ben sappiamo che gli uomini possono uccidere, possono cioè privare della vita altre persone, volontariamente o involontariamente. Ecco dunque che il diritto alla vita non comporta che io possa pretendere (da chi?) di vivere, comporta piuttosto che io posso pretendere che nessuno mi privi della vita, ossia che chi mi priva della vita venga punito.
Bene, dunque posso uccidermi? Tralasciando l’evoluzione normativa in materia, possiamo dire che il suicidio è un problema che non attiene strettamente alla teoria dei diritti umani perché nel suicidio il soggetto si priva da sé della vita, mentre nel suicidio assistito o nell’eutanasia – e veniamo al punto – la persona non si uccide da sé ma viene soppressa da qualcun altro. Questo qualcun altro ha il consenso della persona da uccidere, però – eccoci qua – siccome il diritto alla vita è indisponibile, questo consenso non ha alcuna rilevanza: chi mi priva della vita su mia richiesta o col mio permesso, o chi agevola o rafforza il mio proposito suicida, risponde comunque di omicidio[3].
Per le medesime ragioni non esiste il diritto di morire: non esistendo, come detto, il diritto di vivere, ed esistendo invece il diritto a non essere uccisi, ebbene il diritto di morire si tradurrebbe nel diritto di essere uccisi, quindi nella possibilità di obbligare qualcuno ad uccidere. Il che, oltre ad essere giuridicamente assurdo e del tutto incompatibile con la teoria generale dei diritti umani e soprattutto con la morale cattolica che sola salva, suona per giunta malissimo.
Se cade il presidio della indisponibilità della vita, come ad esempio auspicano alcuni giuristi come Stefano Rodotà[4] o Giovanni Cimbalo[5] o filosofi come Paolo Flores D’Arcais[6], ogni soggetto debole, cosciente o incosciente, diviene gravemente esposto all’arbitrio ed alla coartazione del più forte. Chi si sente forte fatalmente finisce per decidere della vita degli altri dietro la coltre del loro consenso. Per constatarlo basta fare un giro in una casa di riposo, dove potete incontrare anziani lasciati lì in attesa della morte: a questo punto, perché aspettare? Quante persone depresse sarebbero soppresse a cura e spese dello Stato? E chi decidesse di “aiutarli a morire” anziché aiutarli a vivere, non farebbe altro che la propria volontà in risposta alla loro?
Veniamo al terzo passaggio, sperando di non aver già annoiato. Dunque della vita non si può disporre perché chi ce ne privasse sarebbe comunque perseguibile penalmente e civilmente. Allora possiamo dire che il civilissimo Belgio e tutti i civilissimi Paesi che nel mondo legittimano a vario titolo eutanasia, soppressione del malati, interruzione delle cure e via iniettando violino i diritti umani? Letteralmente sì, quantomeno potremmo rispondere di sì se i diritti umani fossero una cosa seria. Ma non lo sono. Ecco che dunque ci sono due grimaldelli attraverso i quali fa saltare i buoni propositi degli aficionados dei diritti di carta.
Una prima via è quella anglosassone liberale, che rifiuta (o comunque oppone molta resistenza) verso la categoria dei diritti indisponibili. In quest’ottica, molto individualista, il diritto è mio e me lo gestisco io, non è uno strumento di risoluzione dei conflitti (come è invece nella tradizione europeo–romanistica), è piuttosto uno strumento per far valere una pretesa. Ma se tale è, allora io a questa pretesa posso rinunciare, poiché il solo che ne pagherà le conseguenze sono io e nessun altro. L’inconsistenza di questa pur influente visione è chiara: così ragionando il diritto diviene non un mezzo pacifico di tutela dei deboli ma un’arma nelle mani dei forti e la comunità si disgrega in una somma di pretese più o meno confliggenti, più o meno garantite. Esattamente l’opposto di quel che la legge dovrebbe fare, ossia regolare i contrasti proteggendo chi altrimenti soccomberebbe.
La seconda via, ben più raffinata, è infilare la rinuncia alla vita nell’ambito del diritto alla salute, che è anch’esso un diritto umano. Ora, chi si occupa di Bioetica per difendere la vita umana dal concepimento fino alla morte naturale ogni volta che sente parlare di “diritto alla salute” mette mano alla pistola: con simili espedienti si è riusciti a contrabbandare l’aborto, la contraccezione, la fecondazione artificiale, la selezione embrionale, gli esperimenti sugli embrioni e – appunto – l’eutanasia.
Nel caso dell’eutanasia, per farla breve, si ritiene che la morte sia compresa negli obblighi che il medico ha verso il paziente. Partendo da un’impostazione che dà il massimo rilievo alla volontà del paziente nei confronti dell’agire del medico, si arriva ad imporre a quest’ultimo di assecondare la volontà di morte del malato. E’ la morte come scelta ma anche come terapia della sofferenza inguaribile.
Attenzione, attenzione: se la morte o la cessazione delle terapie sono equiparate ad un trattamento medico in termini di obbligo giuridico, ecco che per la gente comune lo divengono anche sul profilo morale: non possono essere negati dunque a minori, ritardati mentali, persone in stato d’incoscienza. Del resto, se un bambino ha diritto di essere curato e la morte è una cura, perché rifiutarla?
Anche qui le contraddizioni sono evidenti e numerose e ne rilevo solo una, forse la più macroscopica. Così ragionando si contrappongono diritto alla salute e diritto alla vita (e già questo è preoccupante) e si dà prevalenza alla salute sulla vita: siamo all’assurdo più totale. Se non ci fossero di mezzo le vite (e le morti) di tanti poveri indifesi, verrebbe da dire con una battuta che chi ritiene che uccidere sia curare sarebbe capace di prescrivere la ghigliottina per il mal di testa.
E arriviamo finalmente al povero Frank Van De Bleeken, che dopo trent’anni di galera perché stupratore ed assassino ha deciso di chiedere di morire e sarà accontentato.
Chiara sia una cosa: Frank De Bleeken non soffre per il rimorso di quel che ha fatto, soffre per la detenzione prolungata e che dovrebbe durare per tutta la sua vita; inoltre, i giudici avevano consigliato nel suo caso il ricovero in ospedale psichiatrico ma a quanto pare il Belgio sarebbe sprovvisto di strutture adeguate al suo caso e sebbene la prima di esse dovrebbe aprire entro un anno Van De Bleeken ha dichiarato che non intende aspettare e che quindi vuol essere ucciso. Parliamo quindi di una persona da ospedale psichiatrico, una persona da proteggere anche da se stessa: e puntualmente è la vittima della possibilità di rinunciare al diritto alla vita, come ho scritto poc’anzi. La storia di Frank è l’ennesima riprova che, laddove si riconosce agli uomini il diritto d’uccidere, la morte arriva in un lampo e ghermisce gli indifesi pure sotto il manto apparentemente immacolato dei diritti umani; anzi essi divengono presidio non dall’arbitrio ma dell’arbitrio, piegati ad una concezione di pietà e di cura che nulla ha a che vedere né con Dio né con l’Uomo.
Chi chiede di morire non è mai una persona serena (quando è cosciente), è sempre qualcuno che soffre: dinanzi a questa sofferenza possiamo declamare tutte le Dichiarazioni Universali che vogliamo, ma se è pronto l’inganno, se abbiamo già in tasca l’espediente elusivo, la sola risposta allora sarà uccidere. Se proclameremo l’indisponibilità del diritto alla vita con la destra, staremo pronti a somministrare la “dolce morte” con la sinistra, anche a chi invece dovrebbe essere ricoverato in un centro di igiene mentale come il povero Frank. O ad un bambino.
Solo se gli uomini adegueranno le proprie leggi ai comandamenti di Dio, che sono comandamenti d’amore immenso per tutti, pure per chi muore in agonia e per chi vive nella sofferenza, si potrà parlare di buona morte, di diritti umani che siano realmente tali, di difesa della salute che non sia un attentato a chi sta male. Se si tenta di difendere l’Uomo facendo a meno di Dio, come si è tentato di fare con la teoria dei diritti umani di conio massonico-liberale, si creeranno solo nuove e “civilissime” vie di prevaricazione e morte.
La sola vera Legge, la norma delle norme e sopra tutte le norme, è limpida: come direbbero i giuristi, in claris non fit interpetatio. Dio non Lo si può ingannare, non si presta ai sofismi rabbinici da Talmud: nel Suo disegno di salvezza, Egli ci chiama ad accompagnare il fratello che soffre, a prepararci a vivere la sua sofferenza pregando che un giorno qualcuno lenisca la nostra.
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