Sensus Ecclesiae
o conformismo ideologico?
(Giovanni Turco) 1.
Come è possibile che un Istituto religioso di diritto pontificio debba fare un
“rinnovato cammino di ecclesialità”? Analogamente, cosa significa per un
Istituto religioso (regolarmente approvato dalla Santa Sede) correre il rischio
della “autoreferenzialità”? Il caso del Commissariamento dei Francescani
dell’Immacolata ha posto, tra gli altri gravi quesiti di natura teologica e
giuridica, anche il problema del significato dell’ecclesialità. Il che, come è
evidente, andando ben oltre la vicenda particolare, presenta una questione di
rilievo universale.
Si può essere membri della
Chiesa e avere bisogno di acquisire l’ecclesialità? Qual è il metro del “sensusEcclesiae”? Insomma, l’ecclesialità riguarda la
realtà o la percezione? Si riferisce all’essere o all’apparire (a sé o ad
altri)? Configura una essenza o una tipologia? È un dato intrinseco o una
situazione estrinseca? Appartiene al permanere della Chiesa o alla mutevolezza
della prassi prevalente (invalsa o imposta)? Afferisce all’oggettività
teologale, sacramentale e disciplinare, oppure si riferisce al soggettivismo di
opinioni e di atteggiamenti (ecclesiastici)? Come si vede, si tratta di
interrogativi essenziali. Di fronte ad essi le espressioni allusive, come le
formule retoriche non costituiscono alcuna risposta. Come in ogni campo di
ricerca, il vuoto lasciato dai concetti non può essere colmato dall’ossequio al
“si dice”.
Ora, non è arduo rilevare
che l’ecclesialità può avere molteplici accezioni. Senza la loro
chiarificazione, l’equivoco resta insormontabile. E con l’equivoco, la
tendenziosità (di illazioni e di accuse) e la superficialità (di attribuzioni e
di inclusioni). A ben vedere, l’ecclesialità può essere intesa in una triplice
accezione: ovvero in senso teologico, in senso sociologico ed in senso
ideologico.
2. Dal punto di vista
teologico l’ecclesialità è un principio ontologico. Si riferisce alla realtà
della Chiesa e di quanti vi appartengono. A rigore, l’ecclesialità non può
essere se non l’essenza: ciò per cui la Chiesa è Chiesa. Ed analogamente, ciò
per cui chi vi appartiene, vi appartiene. In questo senso, l’ecclesialità
riguarda ciò che è sostanziale, non ciò che è accidentale. Ciò che è
essenziale, non ciò che è marginale. Ciò che è permanente, non ciò che è
provvisorio.
Al riguardo il Catechismo
della Chiesa Cattolica (del 1992) indica i legami visibili di comunione nella
Chiesa (e con la Chiesa) nella “professione di una sola fede ricevuta dagli
Apostoli”, nella “celebrazione comune del culto divino, soprattutto dei
sacramenti”; e nella “successione apostolica mediante il sacramento
dell’Ordine” (§ 815). Il medesimo Catechismo ricorda che si diviene membri
della Chiesa (“Popolo di Dio”) “mediante la fede in Cristo e il Battesimo” (§
782). Il Catechismo Tridentino (pubblicato da san Pio V) insegna che “nella
Chiesa militante vi sono due specie di uomini: i buoni e i cattivi. I cattivi
partecipano dei medesimi sacramenti e professano la stessa fede dei buoni, ma
ne differiscono per la vita e i costumi. Buoni sono quelli i quali sono congiunti
e stretti tra loro non solo dalla professione della fede e dalla comunione dei
sacramenti, ma anche dal soffio della grazia e dal vincolo della carità” (§
108).
L’ecclesialità, per se
stessa – cioè teologicamente – è in dipendenza di tali condizioni. Solo in loro
assenza, essa è assente. Si tratta di condizioni obiettive. Nel loro rilievo
esterno, verificabili. In ogni caso, esse o si danno o non si danno. Come
rispetto ad ogni realtà e ad ogni principio essenziale (quindi necessario
affinché qualcosa sia quello che è), l’ecclesialità è un dato intrinseco (alla
Chiesa ed ai fedeli), non estrinseco. Non dipende dall’arbitrio o dall’opinione
di chicchessia. Come tale vale per essa il principio di non contraddizione. In
definitiva, o la Chiesa è se stessa, oppure non lo è. O si è nella Chiesa o non
lo si è. Se non lo si è, vi deve essere un motivo obiettivo (non una tendenza
non accolta, o un desiderio non adempiuto) che lo escluda. Chi pone in
questione tale motivo (di chiunque si tratti) ha il dovere di dichiarare di
quale si tratti.
Se l’ecclesialità di un
Istituto religioso non è garantita dall’approvazione delle sue Costituzioni o
della sua Regola, da che cosa dovrà esserlo? Se l’approvazione è anche una
convalida obiettiva del carisma del Fondatore, come può essere considerato una
colpa (di “autoreferenzialità”) il conformarsi ad esso? Considerata in se
stessa, quindi, l’ecclesialità o si dà o non si dà. Tertium non datur.
Non c’è alcun cammino da fare. Al di là dell’essere, c’è solo il non essere. Un
cammino presuppone una meta non ancora raggiunta. Chi è in cammino è ancora
estraneo al conseguimento dell’obiettivo. In questo caso la distanza da colmare
non sarebbe altro che l’esclusione da registrare. Su quali basi? Con quale
metro? Dell’ortodossia o del potere? Della comunione sacramentale o
dell’imposizione prassistica? Della disciplina o del conformismo?
3. Se invece
l’ecclesialità si intende in senso sociologico, allora essa corrisponde ad una
tipificazione di osservazioni empiriche, sulla base di una teoria (quale che
sia). In questo caso, quello che rileva non è la natura delle cose, ma la
rappresentazione più diffusa. Quello che risulta decisivo non è la realtà
(della Chiesa), ma diviene l’immagine che deriva dalla ricorrenza di
determinati comportamenti. Quello che si afferma non è ciò che è essenziale, ma
ciò che è percepito come distintivo (di un gruppo). Ci si riferisce a ciò che
accade per lo più, non a ciò che vale (e deve valere) per sempre. Si fa appello
all’opinione (tale da essere contata), non alla valutazione (che, per se
stessa, va pesata). Conta il «qui ed ora», non l’ubique et semper (in cui san Vincenzo di Lerino, indica
due criteri per riconoscere le verità di fede). Così ciò che è attuale diventa
il criterio di ciò che vale (per un certo gruppo). Come ogni identità
sociologica, anche questa pretende di essere autofondante. Sicché è
incommensurabile in termini obiettivi ed arbitraria in termini assiologici.
D’altra parte, se
l’ecclesialità corrisponde, sociologicamente, al sentire prevalente tra gli
ecclesiastici (e tra i fedeli) in un certo momento, occorrerebbe concludere che
nel contesto della crisi ariana, l’ecclesialità era appannaggio degli eretici
che negavano la divinità di Cristo, vista la diffusione che conseguirono. Bisognerebbe
ammettere che al tempo della “riforma gregoriana” l’ecclesialità spettava al
clero ed ai vescovi, simoniaci e concubinari. E non al gruppo, meno numeroso,
dei santi riformatori. Ci sarebbe da ricavare che allorquando l’empirismo e il
razionalismo si era diffuso nelle Scuole cattoliche, l’ecclesialità era da
attribuirsi alla confusione dottrinale (ampiamente diffusa) e non ai pochi
centri di studio che diedero vita (col decisivo sostegno di Leone XIII) alla
«rinascita» della filosofia cristiana. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi.
Insomma, come si vede, l’ecclesialità sociologica è un criterio di appartenenza
del tutto estrinseco ed effimero. Se viene assunto come principio, per se
stesso, non solo risulta vuoto di contenuto e perciò fallace, ma porterebbe
sovente a capovolgere il giudizio di valore, a favore delle deviazioni e degli
scandali.
4. Infine, l’ecclesialità
può essere intesa in senso ideologico (in modo più o meno implicito). Come in
ogni opzione ideologica, ciò si verifica allorché la prassi dà origine alla
teoria, si identifica con essa e fa della prassi stessa il mezzo e il fine,
insieme. In questo caso, come ogni paradigma ideologico, l’ecclesiasialità si
identifica con un progetto da attuare, il quale viene assunto come unico giudice
di se medesimo. L’ideologia, infatti, è un pensiero strumentale, che fa della
propria parzialità la misura della totalità. È un pensiero che sostituisce
l’opinione alla verità, quindi l’opzione al bene. Opinione ed opzione fatte
misure di se stesse, quindi tali da escludere ogni misura.
Il mutamento della
teologia in ideologia avviene obiettivamente (prescindendo da ogni
considerazione relativa alle intenzioni) allorché si adotta il primato della
prassi (quindi, del risultato) e la conseguente immanentizzazione della fede.
Allorché il naturalismo (metodologico e prassiologico) prende il posto della
vita soprannaturale, il progressismo sostituisce l’escatologia, l’attivismo
subentra all’ascesi. Allora la prassi (pastorale, organizzativa, comunicativa,
diplomatica o mediatica, che sia) pretende di essere il criterio per intendere
la Rivelazione. Così i gesti si sostituiscono ai principi. Le tendenze
operative vanificano l’oggettività della fede, della morale, della disciplina.
Anzi, pretendono di esserne la misura.
Se l’ecclesialità si
identifica con un progetto (di “nuova Chiesa” o di “nuovo Cristianesimo”) che
pretende di farsi prassi – ovvero con una pretesa di futuro che si identifica
col mito dell’irreversibilità della storia – allora occorre rilevare che questo
è precisamente il criterio di ecclesialità di tutti i gruppi (semanticamente,
settari) che hanno preteso di identificare la Chiesa con il loro opinare ed il
loro operare, dai montanisti, ai donatisti, ai dolciniani, ai modernisti. In
questo caso la condivisione di un nuovo senso della Chiesa, costituisce il
criterio di ecclesialità. Solo chi lo condivide vi appartiene. E nessun altro.
Poco importa il progetto dichiarato dirimente. Quale che sia la dilatazione del
consenso.
È chiaro che se
l’ecclesialità assume i connotati dell’ideologia (che erge a spartiacque un
evento, una tesi, o un atteggiamento) essa può riempirsi dei contenuti più
diversi ed arbitrari. Ma certamente abbandona il campo del riferimento al
Fondatore della Chiesa, per optare per una sua “rifondazione”, o per fare di
questa il criterio di Quello.
Solo se l’ecclesialità è
intesa in senso sociologico o in senso ideologico è (effettivamente) possibile
un “cammino di ecclesialità”. Allora, infatti, l’approssimazione data dal
“cammino” sarebbe tale da assimilare ad una (prevalente) identità sociologica o
ad una (nuova) prassi teorizzata. A cui si può aderire più o meno ampiamente,
sotto il profilo della condivisione soggettiva (delle mode o delle pratiche,
delle opinioni o delle teorie).
5. A queste distinzioni
potrebbe essere aggiunto – stando a talune tesi – un ulteriore significato
dell’ecclesialità: quello “ermeneutico”. In questo caso l’ecclesialità
dipenderebbe da una particolare “ermeneutica”. Una certa ermeneutica
assicurerebbe l’ecclesialità. Una diversa ermeneutica la escluderebbe. In
termini immediati l’oggetto dell’ermeneutica sarebbe il Concilio Vaticano II.
Ma è ovvio che il principio, per se stesso, è suscettibile di essere esteso a
qualsivoglia dato o fatto. Allora, il criterio equivarrebbe tanto ad una prassi
(quella ermeneutica), da praticare, quanto ad uno schema (quello
interpretativo), da assumere. Non al Depositum fidei, non ai principi (naturali e
soprannaturali) dell’agire.
Insomma, il criterio
risulterebbe un a priori (metodologico),
assunto quale filtro conoscitivo, rispetto al quale ogni conclusione non
varrebbe per se stessa, ma come risultato (ermeneutico). Si darebbe un metodo,
che subordinerebbe a sé qualsiasi contenuto. In questo caso l’ortodossia come
l’eresia non sarebbe una questione di verità (accolta o rigettata), ma
l’effetto di una certa ermeneutica.
L’operazione ermeneutica,
a sua volta, potrebbe essere manchevole per eccesso o per difetto (come per
rigidità o per variabilità). Gli errori nel campo della fede, non avrebbero
come riferimento le verità rivelate, ma l’attitudine ermeneutica, suscettibile
di deviazioni su opposti crinali. La collocazione degli errori sarebbe allora
topografica, piuttosto che teologica, tendenziale piuttosto che dottrinale. In ogni
caso, il «dogma fondamentale» (il dogma che giudica tutti dogmi) sarebbe quello
che definisce l’ermeneutica. E la colpa più grave sarebbe il «delitto di lesa
ermeneutica». Dogma e delitto, ovviamente, inesistenti.
Ora, se l’ermeneutica
viene assunta come criterio di ecclesialità, non si può fare a meno di chiedere
quale significato si attribuisca all’ermeneutica stessa. Si tratta
dell’ermeneutica nella prospettiva di Schleiermacher o di Nietzsche? Di
Heidegger o di Gadamer? D’altra parte, se l’ecclesialità dipendesse
dall’ermeneutica del Vaticano II, occorrerebbe osservare che ci si troverebbe
nella singolare situazione, in cui sarebbe possibile una storia (degli
avvenimenti) ed una esegesi (dei documenti) di tutti i Concili, fuorché del
Vaticano II. Solo per questo Concilio sarebbe necessario far rifluire ogni
indagine in una ermeneutica prestabilita, pena addirittura l’illegittimità
(ecclesiale) dello studio.
In questo caso il “cammino
di ecclesialità” coinciderebbe con un “cammino ermeneutico”. Dunque di
progressiva ermeneutizzazione della fede. Dove l’ermeneutica sarebbe data, il
cammino obbligato, il risultato – l’ecclesialità – da trovare (di volta in
volta). Come in ogni apriorismo metodologico, il metodo fonderebbe il
contenuto. Dove il metodo (privo di contenuto) è tutto. E il contenuto è solo
una (sua) derivazione possibile. Il metodo diviene, così, una opzione o una
ipotesi, non un criterio obiettivo richiesto da un determinato oggetto di
indagine. Diversamente dal realismo della (retta) ragione e della fede
(autentica), per il quale il contenuto fonda il metodo. E non viceversa. In
filosofia come in teologia. (Giovanni Turco)
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