Ho provato il burqa e mi è piaciuto
Flavia Piccinni
A Kuwait City esistono due tipi di persone: i musulmani, e tutti gli altri. Gli altri li riconosci perché sono vestiti all'occidentale (spesso male, secondo le suggestioni che i Paesi Arabi inglobano nel loro lessico). I musulmani invece si giovano dell'unica vera produzione locale (oltre i datteri): quella tessile.
Gli uomini indossano tutti kandura (tuniche lunghe fino alle caviglie, solitamente dai toni chiari) e in testa portano keffiyeh fermate da agal. Alle donne è data più scelta: devono semplicemente essere coperte dalla testa ai piedi. Possono indossare burqa - che ha una rete davanti agli occhi -, avere lo sguardo libero con il niqab, tenere il viso scoperto con lo hijab o per mezzo del chador. Può sembrare una cosa semplice, ma non lo è affatto. È consigliato - se non obbligatorio - uniformarsi alle regole locali.
Ma quando la settimana scorsa sono arrivata all'aeroporto di Kuwait City avevo dimenticato le direttive arabe, e indossavo una giacca di lana aderente in vita, un vestito sotto al ginocchio, delle calze coprenti e delle scarpe con mezzo tacco. Non mi sono mai vergognata tanto. Per gli arabi sono le prostitute a lasciare le spalle, le braccia e le gambe scoperte. Le occidentali smemorate non sono particolarmente amate. Se credete di essere coraggiose e strafottenti non siete mai state a Kuwait City vestite all'occidentale. Una cosa da sapere sugli arabi è che non gradiscono particolarmente le mezze misure, e sanno come fartelo notare.
Per spirito di autoconservazione, curiosità e non ultimo un sottile (sottile?) gusto della provocazione, ho pensato allora di andare al Souk Al-Mubaeakiya, il più importante souk della città che è un'intricata sovrapposizione di negozi, negozietti, posticini dove prendere il the e mangiare piatti tradizionali ed economici. Una sorta di Ballarò molto più grande, più pulito e più arabo.
In una strada, saracinesca contro saracinesca, erano esposti solo abiti femminili. Manichini senza testa indossavano lunghe sequenze di abiti neri, apparentemente uguali. Sono entrata nel primo: un ragazzo egiziano (la maggior parte dei lavoratori a Kuwait City sono stranieri), camicia blu e jeans, mi ha guardato: "Can I help you?". Se c'è una cosa che non manca, è la gentilezza verso il cliente apparentemente danaroso.
Dopo venti minuti avevo comprato, per la modica cifra di dieci denari che sono poco più di trenta euro, un burqa nero. Avevo acquistato la taglia più piccola disponibile: la 48. Praticamente ci navigavo dentro. Quando ho domandato qualcosa di più stretto, il ragazzo mi ha guardato offeso: "No, deve andare largo e fluttuare" mi ha spiegato.
Indossarlo è stato piuttosto semplice. Praticamente te lo infili, e il gioco è fatto. Non devi perdere tempo a coordinare le scarpe con la borsa, o magari a scegliere il vestito che ti fascia meno, i pantaloni che non ti fanno difetto, la maglietta che evidenzia tragicamente e irrispettosamente i chili di troppo. Non devi neanche perdere tempo a sistemarti i capelli, o a truccarti.
Non ti vede nessuno. Nessuno sa se dietro c'è una bella donna, o una donna poco attraente. È tipo il grembiule che ti facevano mettere da bambino, a scuola, ma molto più comodo: non solo non è più necessario preoccuparsi dei vestiti, ma anche del proprio aspetto esteriore.
Abituarsi a respirare dietro una specie di grata, sentendosi avvolti da un lenzuolo, è poi piuttosto semplice se non si soffre di claustrofobia, si dimenticano tutti gli insegnamenti della mamma e della nonna, nonché quelli relativi alla propria libertà e al significato religioso che l'oggetto custodisce: difendere la donna dagli sguardi altrui, preservandone l'immagine e dunque l'anima.
Per un attimo, con il burqa addosso, ho pensato che forse potrebbe essere giusto indossarlo ogni giorno. E guardandomi allo specchio, non ritrovando il mio viso, ma solo una nuvola nera, mi sono domandata se non sia forse questa una lezione che dobbiamo prendere dal mondo arabo: annullare la necessaria ossessione per l'immagine che tutte abbiamo, annullare il giudizio delle altre attraverso la loro bellezza, imparare a mostrarci privi di ossessioni e di sovrastrutture. Imparare a concentrarci su noi stessi, e non sull'abito/aspetto/percezione che abbiamo e che diamo. Forse, dove il femminismo ha fallito, il burqa nel 2017 potrebbe riuscire. O no?
http://www.huffingtonpost.it/flavia-piccinni/ho-provato-il-burqa-e-mi-e-piaciuto_b_14313888.html?ncid=fcbklnkithpmg00000001
Benissimo! Questa tizia è già pronta.......come si vede, i musulmani ci hanno già conquistati! Ma dove sono le vere femministe? Ne ho nostalgia......almeno loro si battevano per la libertà, falsa, ma almeno si battevano......non ci sono più le femministe di una volta!
RispondiEliminaA parte il mio sarcasmo, questo articolo mi preoccupa e non poco. A quanto pare si è già pronti alla sottomissione, a tradire la nostra identità, fede e libertà. Ma ci accorgeremo presto che non si tratta solo di burqa ed allora forse sarà già troppo tardi.
Ciascuno ha una sua identità che è riconosciuta anche dall'aspetto esteriore. Essere costrette a nascondersi dietro una maschera che impedisce di essere riconsciute toglie a queste donne la possibilità di essere considerate per quelle che sono realmente: delle persone con una identità precisa. Ostacolare l'accesso a questa identità serve solo a ricordare che queste donne sono proprietà di qualcuno. Altro che femminismo!
RispondiEliminaLa nostra cara Flavia Piccinni nella sua esperienza fatta in tutta libertà e per sua scelta, a confuso il burqa con il gioco delle mascherine. A carnevale occultando il nostro aspetto con una maschera ci liberiamo della nostra identità per interpretare il ruolo che più ci piace, liberi dal giudizio degli altri.