Rahner kaputt. Il “Denzinger” trionferà.
È durata poco l’intervista
volterriana. Francesco contro lo spirito del mondo. Denzinger, pioniere del
dogma. Rahner: buona coscienza e libero esame. Si assolvono i peccatori, non i
peccati, ecco il punto.
di Alessandro Gnocchi e Mario
Palmaro (20/11/2013)
Accolta “con gioia” come si usa
nella Chiesa d’oggi, difesa senza “se” e senza “ma”, ermeneutizzata come si
conviene e poi, alla fine, ritirata dal sito internet vaticano, dove era
rimasta un mese e mezzo: da famosa che era, l’intervista di papa Francesco a Eugenio Scalfari è stata
archiviata con un semplice click.
Attendibile nel suo complesso, ha
spiegato il direttore della sala stampa padre Lombardi, non lo è in alcune
singole parti, anche se il controverso passaggio sulla coscienza sarebbe “del
tutto compatibile con il Catechismo della Chiesa cattolica”.
Pur deposta nei faldoni della
semplice cronaca, tale vicenda rimane a indicare un tasso di confusione
eccessivo persino per un ospedale da campo. È davvero strano che nessuno si sia
chiesto, preventivamente e prudentemente, se l’intervistatore della stampa
volterriana fosse un malato venuto a farsi curare o un untore neanche troppo
mimetizzato. Riconoscere cosa vi sia nell’animo dell’interlocutore mondano è
questione che lo stesso papa Francesco, nell’omelia di Santa Marta di lunedì scorso, ha indicato come
essenziale. Commentando un passo del “Libro dei Maccabei” ha messo in
guardia dal rischio di fare mercimonio della fedeltà al Signore, poiché lo
spirito del mondo negozia tutto. Ma l’istantanea della chiesa postmoderna
ritrae da decenni un luogo di mediazione più che una cittadella decisa a
resistere. Un posto dove molti agiscono con aria di sufficienza nell’adozione
di criteri, metodi e strumenti necessari per comprendere tanto le lusinghe del
mondo quanto i lamenti della Chiesa.
La tensione al ragionevole rigore
di moda sotto Benedetto XVI, che insieme all’ascesi e alla preghiera mette al
riparo dalle sirene del mondo, pare evaporata. Oggi, basta solo richiamare la
precisione affilata e caritatevole con cui la Chiesa si è sempre espressa su
fede, dottrina e morale per passare come ideologizzati specialisti del Logos.
Guai a chi osi evocare l’opera di un benemerito pioniere della teologia
dogmatica come Heinrich Denzinger: si viene tacciati di voler sostituire il
Vangelo con il suo Enchiridion Symbolorum, quel cristallino compendio dei
principali testi del magistero che dovrebbe fare da argine là dove il mondo
interroga, provoca, negozia, corrompe. Aggiornato costantemente nel corso dei
decenni, il “Denzinger”, che ha preso il nome del suo primo autore, è uno dei
riferimenti più sicuri per chiunque voglia conoscere e praticare il perenne
pensiero della chiesa: ma non piace più, irrita, infastidisce. Per scoprire la
ragione di tale avversità basterebbe andare su Wikipedia, dove, in
un’impietosa, sinteticissima riga, si legge: «Il grande teologo fondamentale
gesuita Karl Rahner ha tuttavia messo in guardia studenti e studiosi sul
rischio riduzionistico di una “teologia del Denzinger”». Se si considera che,
nella Chiesa contemporanea, l’inventore della teoria dei “cristiani anonimi” ha
sostituito san Tommaso come doctor communis, diviene comprensibile
l’universale avversione per il “Denzinger”, severo giudice di chiunque ami
abbandonarsi a un qualunque incontro personale con il Vangelo. In qualche modo,
ritorna in superficie il tema della coscienza personale che Rahner, confratello
di papa Francesco, ha descritto nella Fatica di credere in termini
che hanno indubbiamente fatto scuola, e che scuola:
“Chiunque segue la propria
coscienza, sia che ritenga di dover essere cristiano oppure non-cristiano, sia
che ritenga di dover essere ateo oppure credente, un tale individuo è accetto e
accettato da Dio e può conseguire quella vita eterna che nella nostra fede
cristiana noi confessiamo come fine di tutti gli uomini”.
“In altre parole: la grazia e la
giustificazione, l’unione e la comunione con Dio, la possibilità di raggiungere
la vita eterna, tutto ciò incontra un ostacolo solo nella cattiva coscienza di
un uomo”.
Posto davanti al Vangelo, un
pensiero simile non può che rifuggire il cogente rigore del “Denzinger”, che è
il cogente rigore della Chiesa. Ma la fede cattolica non può risolversi nel
semplice incontro personale con il Vangelo. Lo spiega il domenicano padre
Roger-Thomas Calmel nella Breve apologia della Chiesa di sempre: «Che ci
sia dunque un andirivieni frequente dalla lettera della Scrittura alle formule
dei Concili e del Catechismo e viceversa. Passiamo dalla lettera dell’Antico o
del Nuovo Testamento alle definizioni conciliari o pontificie per meglio
coglierne il contenuto esatto, il vero significato del testo sacro. Poi
ritorniamo dai Concili e dal Catechismo al semplice testo scritturale per non
perdere mai di vista il dato vivo, concreto, soprannaturale, inesauribile, del
quale le formulazioni del magistero ecclesiastico esprimono, con tutta la
precisione necessaria, la profondità e il mistero».
La guerra al “Denzinger”, e
quindi all’armonioso dipanarsi e manifestarsi della dottrina perenne della
Chiesa, viene da lontano. Non a caso Rahner spiega che «gli enunciati della
fede tradizionale sono inadeguati, in buona parte, per lo meno per quanto
concerne ciò che è necessario prima di ogni altra cosa: l’annuncio della fede
(…) Proposizioni come “vi sono tre persone in Dio”, “noi siamo salvati dal
sangue di Gesù Cristo” sono puramente e semplicemente incomprensibili per un uomo
moderno (…) esse fanno la stessa impressione della pura mitologia di una
religione del tempo passato».
Secondo il teologo gesuita,
dunque, al palato dell’uomo contemporaneo, Gesù che resuscita Lazzaro ha lo
stesso sapore di Ercole che sconfigge l’Idra o di Teseo che uccide il
Minotauro. Quindi non rimane che riformare l’annuncio e sintonizzarsi sulla
lunghezza d’onda della modernità, trarre le parole dai desideri del nuovo
uditorio.
Giuseppe Siri, un cardinale che
rischiò di diventare papa, coglie lucidamente la questione, quando in Getsemani scrive:
«Il grande principio di morte è il principio di secolarizzazione: il mondo
contiene la forza della plenaria realizzazione degli uomini e ne è anche
l’ambiente, in cui lo scopo della vita dell’uomo deve essere raggiunto;
occorrerebbe dunque abolire ogni distinzione tra sacro e profano, tra chiesa e
mondo». Diagnosi confermata da quanto Edward Schillebeeckx andava dicendo nel
1970: «In Cristo è ora possibile dire “Amen” alla realtà mondana e considerarla
come culto poiché, dopo l’apparizione di Gesù, sulla terra abita la pienezza di
Dio».
Se l’oggetto del nuovo culto è il
mondo, diventa impossibile entrarvi in conflitto. I vescovi americani che
contestano Barack Obama, evidentemente, non seguono Rahner o Schillebeeckx. Ma
centinaia di gesuiti con le loro università cattoliche e centinaia di suore in
rivolta dicono “Amen” al presidente e rendono culto al mondo. Il vero problema
dell’ospedale da campo è distinguere chi vi distribuisce la medicina buona e
chi fa eutanasia al paziente.
Se è vero che lo spirito mondano
induce a negoziare finanche la fedeltà a Dio, come ha detto il Papa nell’omelia del 18 novembre, bisognerebbe
avere anche il coraggio di denunciare chi, nell’accampamento cattolico, si
macchia di intelligenza col nemico. Non è possibile additare le lusinghe del
mondo e tollerare un Rahner che dice: «Con il progredire della storia della
grazia, il mondo diviene sempre più indipendente, maturo, profano, e deve
pensare ad auto-realizzarsi. Questa crescente mondanità storica (…) non è una
sventura che si contrappone ostinatamente alla grazia e alla chiesa, ma è
invece il modo nel quale la grazia si realizza a poco a poco nella creazione».
Sulla scia dell’ambiguo e
ossessivo “primato della Parola” e del “sola fide” di matrice luterana, la
Chiesa ha finito per specchiarsi nell’orizzonte ribaltato di un pelagianesimo
che nega il senso del peccato e osanna il mondo. L’esito è comunque il
depotenziamento della tradizione e della funzione di mater et magistra. Il
libero esame, il soggettivismo, la “sola scriptura” prendono la scena svuotando
di significato il ruolo dei vescovi e del papa. Ma l’orizzonte logico di tale
operazione è debolissimo poiché è la tradizione a precedere e definire la
parola: è la chiesa a stabilire quali siano i testi sacri e come vadano
interpretati. Fatto che determina l’impossibilità di parlare di “religione del
libro”, posto che i testi sacri sono oggettivamente diversi nella lettera e
nella loro interpretazione. La Chiesa precede storicamente e logicamente la
scrittura e per questo, spiega il cardinale Siri, «colui che relativizza la
Tradizione relativizza la Scrittura».
La bellezza perenne e unica del
cattolicesimo sta nella capacità di comporre e armonizzare tutti questi
elementi. Sta nella continua tensione tra ragione e mistero, tra anelito
terreno e risposta celeste che, pazientemente, crea un calco nel quale la
creatura si adagia, magmatica e informe, per risorgerne solida e levigata, come
la farfalla da una crisalide. Perché conoscere la dottrina significa amarla e
pregarla assecondandone forme e definizioni. È come un dire le preghiere
secondo formule dettate da altri con precisione ispirata e insondabile. Allora,
lontano dai sentimenti, dalle divagazioni, dagli inutili discorsi, senza uno
iota di troppo, sgorga quel che della beatitudine è concesso su questa terra,
che è un dire sottovoce, un fare e un vivere invece che un discorrere: «I molti
discorsi non appagarono l’anima», insegna l’Imitazione di Cristo, «ma la vita
buona dà ristoro alla mente».
L’annuncio a Maria narrato da San
Luca non produrrebbe nelle anime oranti la stessa tensione verso il “partorire
Dio” predicato da sant’Ambrogio se il Concilio di Efeso, nel 431, non avesse
affilato la lama della dottrina definendo la Vergine Theotokos, Madre di
Dio: «Se qualcuno non Confessa che l’Emmanuele è Dio nel vero senso della
parola, e che perciò la Santa Vergine è madre di Dio perché ha generato secondo
la carne il Verbo che è da Dio, sia anatema». Non vi è nulla di più amato dalla
gente cristiana aliena al mondo che un tale rigore. «Tutto il popolo della
città rimase in attesa dal mattino alla sera, aspettando il giudizio del santo
sinodo», racconta san Cirillo d’Alessandria, che fu l’artefice di quella
decisione. «(…) Alla nostra uscita dalla Chiesa, fummo ricondotti fino alle
nostre dimore. Era la sera, tutta la città si illuminò, donne camminavano
innanzi a noi con incensieri. A coloro che bestemmiavano il suo Nome, il
Signore ha dimostrato la sua onnipotenza».
A saperlo leggere, a studiarlo in
amorevole andirivieni con la Scrittura, il “Denzinger” racconta queste storie e
alimenta la vita buona che, a sua volta, nutre la mente. È la vita della Chiesa
che corre lungo i secoli dandovi forma, è la tradizione che bussa
imperiosamente alle anime chiamandole a scegliere. Non vi è alternativa nella
guerra allo spirito mondano: alla tentazione di negoziare persino sulla fede si
può opporre solo l’immutabilità e l’irreformabilità del magistero. Per tutta la
sua vita, la chiesa lo ha fatto, contendendo al mondo il tempo e lo spazio, le
due dimensioni in cui si espande la tradizione. Le definizioni raccolte dal
“Denzinger” si sono tramandate senza mutare nel corso dei secoli e, senza
mutare, hanno raggiunto gli avamposti più remoti della fede. Quelle stesse
pagine che ora si trovano facilmente a stampa in libreria, hanno corso il mondo
in itinerari avventurosi che Harold Innis ha raccontato nel suo epico Impero e
comunicazioni. Hanno viaggiato su pergamena, “supporto pesante” adatto al
permanere della verità religiosa irreformabile e perenne, a differenza di ciò
che viaggiava su papiro e su carta, “supporti leggeri” che alimentavano la burocrazia
civile caduca e fallace.
Così, la Chiesa di Roma ha
propagato il regno di Cristo e ha conquistato, anima per anima, le intelligenze
più semplici e quelle più laboriose, tutte bisognose dello stesso nutrimento.
Se John Henry Newman non si fosse trovato al cospetto di verità e pronunciamenti
immutabili nello spazio e nel tempo, non avrebbe mai avuto la forza e
l’esigenza di lasciare la comunione anglicana per entrare nella chiesa di Roma.
Nell’Apologia pro vita sua, il cardinale spiega che compì il gran passo verso
casa solo quando si rese conto che gli argomenti degli anglicani contro i padri
del Concilio di Trento erano gli stessi di quelli contro i padri del Concilio
di Calcedonia, che condannare i Papi del Sedicesimo secolo voleva dire
condannare anche quelli del Quinto: «Il dramma della religione, il
combattimento della verità e dell’errore erano sempre gli stessi. I principi e
i procedimenti della chiesa d’oggi erano identici a quelli della Chiesa
d’allora; i principi e i procedimenti degli eretici di oggi erano quelli dei
protestanti di oggi. L' ho scoperto quasi con terrore».
Ma la Chiesa non lascia da sola
anima alcuna davanti a una verità che possa atterrire. A ciascuno porge la
carezza rigorosa e soave del rito. La tradizione si presenta sempre all’uomo
attraverso un poema sacro che nel cattolicesimo, come scrive Domenico
Giuliotti, ha la sua espressione celeste nella celebrazione eucaristica: «La
Messa, e non già la Divina Commedia, è il “poema” veramente “sacro al
quale hanno posto mano e cielo e terra”. (…) Dio, la Trinità e tutti gli Angeli
ne formano l’argomento. La Consacrazione, che rinnova l’Incarnazione, è il
punto culminante di questo immenso mistero. E il Prete n’è, al tempo stesso, il
taumaturgo e il poeta».
Emanazione del Cielo in terra,
tradizione e liturgia sono quasi consustanziali persino nel metodo con cui gli
uomini hanno contribuito alla loro formazione. Mentre una è il repertorio di
pensieri da cui è decaduto tutto, tranne ciò che dice definitivamente il
divino, l’altra è la composizione di gesti e di parole immutabili depurati da
ciò che è solo umano. Sono due ingressi allo stesso mondo, dove ciascuno riceve
perennemente ciò che gli spetta, in qualunque luogo si trovi e in qualunque
tempo viva. Sulla terra non vi è nulla di più equo. Lo racconta con soave precisione
Newman nel romanzo Perdita e guadagno, là dove descrive i pensieri e le
sensazioni del giovane protagonista che, per la prima volta, assiste a una
celebrazione cattolica: «Quello che lo colpì più di tutto fu che, mentre nella
chiesa d’Inghilterra l’ecclesiastico oppure l’organo erano tutto e la gente non
era niente, salvo che veniva rappresentata al funzionario laico, qui era
esattamente il contrario. Il prete diceva poco o niente, almeno in modo da
farsi sentire, invece l’assemblea era come un solo vasto strumento un
panharmonicum che suonava insieme; cosa ancora più mirabile, pareva che
suonasse da solo. (…) Le parole erano in latino, ma tutti le capivano
benissimo, e offrivano le loro preghiere alla Santissima Trinità, e al
Salvatore incarnato, e alla grande Madre di Dio, e ai santi nella gloria del
Paradiso, con nel cuore un’energia pari a quella con cui davano voce al suono.
Vicino a lui c’era un ragazzino, e una povera donna, che cantavano a
squarciagola. No, qui non ci si poteva sbagliare, Reding disse fra sé e sé:
“Questa sì che è una religione popolare”».
A quei tempi, nella Chiesa, la
stessa dottrina e la stessa liturgia erano buone per tutti, per i santi e per i
peccatori, per i vivi e per i morti, per i romani e per i barbari. Per questo
la religione cattolica era equanime e misericordiosa: era popolare. Ancora non
risuonava il lamento che più tardi avrebbe vergato Nicolás Gómez Dávila: «La
Chiesa un tempo assolveva i peccatori, oggi ha deciso di assolvere i peccati».
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