Processo
ai nuovi modernisti
Oggi si è smarrita la vera nozione di fede, perché la si riduce a sentimento del cuore, dimenticando che essa è un atto razionale, che ha come oggetto la verità. L’intelletto è la sola facoltà spirituale che può far proprie le verità proposte dalla rivelazione.
(di Roberto de Mattei su Il
Foglio del 26-11-2013)
Le reazioni su questo giornale di mons. Luigi
Negri, di don Francesco Ventorino e del prof. Massimo Borghesi, al mio articolo
sulla “liquefazione della Chiesa” (“Il Foglio”, 12 novembre 2013) mi impongono
di tornare su una questione di fondo del dibattito cattolico contemporaneo:
quella riguardante la definizione della fede, indubbio fondamento della vita
cristiana.
Il dato di fatto da cui partire,
e su cui spero anche i miei interlocutori convengano, è il crollo della fede,
verificatosi nella Chiesa negli ultimi cinquant’anni. Inaugurando il 27 gennaio
2012 l’Anno della Fede, Benedetto XVI si esprimeva in questi termini: “Come
sappiamo, in vaste zone della terra la fede corre il pericolo di spegnersi come
una fiamma che non trova più alimento. Siamo davanti ad una profonda crisi di
fede, ad una perdita del senso religioso che costituisce la più grande sfida
per la Chiesa di oggi. Il rinnovamento della fede deve quindi essere la
priorità nell’impegno della Chiesa intera ai nostri giorni”.
Ma l’Anno della fede si è chiuso
– occorre dirlo – senza che si intraveda in alcun modo una risposta forte delle
autorità ecclesiastiche di fronte alla crisi in atto. La stessa enciclica Lumen
Fidei ignora in maniera sorprendente questo drammatico problema. Ma cos’è la
fede? La risposta a questa domanda non ammette equivoci, dopo la definizione
del Concilio Vaticano I, riproposta dal nuovo Catechismo della Chiesa
cattolica: la fede è l’adesione della ragione, mossa dalla grazia, alle verità
rivelate da Dio, per l’autorità di Dio stesso che ce le rivela. Le verità
rivelate sono dette tali perché sono contenute, in maniera esplicita o
implicita, nella rivelazione divina, conclusa con la morte dell’ultimo
apostolo.
La Sacra Scrittura e la
Tradizione raccolgono queste verità, che formano la fede oggettiva e immutabile
della Chiesa. In alcuni casi tali verità oltrepassano la nostra ragione e sono
dette misteri. I due misteri centrali del Cristianesimo sono la Trinità e
l’Incarnazione del Verbo. Essi sono superiori alla nostra ragione, ma non le si
oppongono. Crediamo queste verità perché ci sono rivelate da Dio. Ma
l’esistenza di Dio prima di essere una verità di fede, è verità filosofica, che
può essere dimostrata dalla ragione, così come può essere dimostrata dalla ragione
l’esistenza e l’immortalità dell’anima.
La fede interessa non solo la
teologia, ma la filosofia, come mostra bene Antonio Livi (si veda ad esempio il
suo Razionalità della fede nella rivelazione, Leonardo, Roma 2005).
L’inconoscibilità della natura di Dio non va confusa con la certezza razionale
della sua esistenza. Solo dopo aver assodato che Dio esiste possiamo credere in
Lui e nella sua rivelazione. Per questo sant’Agostino dice che dobbiamo
“Credere Deum, Deo, in Deum”, cioè credere Dio come oggetto della fede; credere
a Dio come motivo della fede; credere in Dio come suo fine.
Lutero per primo stravolse il
concetto tradizionale di fede. L’uomo, integralmente corrotto dal peccato
originale, è per lui incapace di conoscere il vero e amare il bene. La fede non
consiste nella ragione e nella volontà, imputridite dal peccato, ma nella “fede
fiduciale”, che nasce da un sentimento di disperazione profonda ed ha il
proprio oggetto nella misericordia di Dio, invece che nelle verità da lui
rivelate. Appellandosi a questa visione pietista e individualista della fede,
Lutero e suoi continuatori fanno dell’esperienza religiosa l’unico criterio
della vita cristiana. In tutta la tradizione evangelico-protestante la
religione è vista come un “incontro” salvifico con Dio, in cui la fede
soggettiva assorbe e dissolve quella oggettiva.
Nella Esquisse d’une philosophie
de la religion (1897) di Auguste Sabatier (1839-1901) arriva a compimento la
riduzione protestante della fede a sentimento. L’atto di fede è inteso come
incontro con la potenza oscura e misteriosa da cui l’anima dipende e da cui
dipende il suo destino. Tutto ciò che è dogma e riflessione teologica non è
altro che la trascrizione simbolica di un’esperienza religiosa collettiva in
continua evoluzione.
Negli stessi anni in cui appare
l’opera di Sabatier, Maurice Blondel (1861-1949) pubblica l’Action (1893),
prima espressione di quella filosofia dell’azione che, con il protestantesimo
liberale, costituisce il retroterra immediato del modernismo. Secondo Blondel
l’azione, e non il pensiero, attinge la verità dell’essere.
La massima tradizionale secondo
cui “agere sequitur esse” viene capovolta: l’azione precede l’essere e l’uomo
trova la verità e la stessa fede nell’azione. L’azione è la sintesi del pensare
e dell’agire, il vincolo tra il pensiero e l’essere. Blondel vuole dunque
sostituire alla apologetica tradizionale, che si propone la dimostrazione
razionale delle verità del Cristianesimo, una nuova apologetica basata sul
principio di immanenza. Il metodo dell’immanenza pretende di trovare la verità
della religione e dei misteri della fede partendo dalla coscienza dell’uomo,
dai suoi bisogni, dalle sue aspirazioni, da tutto ciò che sgorga dalla sua
esperienza di vita.
Tesi analoghe erano espresse dal
teologo del modernismo George Tyrrell (1861-1909), che dopo essersi convertito
dal protestantesimo al cattolicesimo entrò nella Compagnia di Gesù, ma presto
ne contestò l’insegnamento. Anche per Tyrrell, la religione è un’unione del
cuore con Dio che fa a meno della verità dei dogmi. Il Dio di Tyrrell, come
quello di Blondel, è immanente alla coscienza, che lo riconosce nella propria
esperienza religiosa. Non è la verità a determinare l’esperienza, ma
l’esperienza a costituire il criterio supremo della verità. “Trait d’union” tra
Blondel e Tyrrell fu Henri Brémond (1865-1930), anch’egli gesuita, insofferente
della disciplina e dell’insegnamento della Compagnia.
La corrispondenza tra Brémond e
Tyrrell è istruttiva a questo proposito (Lettres de George Tyrrell à Henri Brémond,
Aubier, Parigi 1971). Brémond, in preda a crisi di nevrastenia, confidava a
Tyrrell di voler lasciare i gesuiti per vivere, come Tyrrell, con un’amante. Il
suo ideale – scriveva – sarebbe stato quello di una “vita clericale
adogmatica”. Tyrrell risponde al confratello di essere prudente e di
abbandonare la Compagnia senza precipitare le cose.
Quando qualche anno dopo Tyrrell
morirà, dopo essere stato scomunicato da san Pio X, Brémond sarà al suo
capezzale e, seguendo i suoi consigli, vivrà poi nel mondo come un semplice
sacerdote cripto-modernista, intraprendendo una carriera letteraria che lo
porterà all’Académie française. La sua poderosa Histoire littéraire du
sentiment religieux en France (1915-1933, 11 volumi), già nel titolo riassume
le tesi degli amici Blondel e Tyrrell: la fede ridotta a intuizione poetica,
esperienza di vita mistica che vanifica ogni verità dogmatica.
Tra i diretti continuatori di
questa linea di immanenza vitale fu il padre Henri de Lubac (1896-1991),
anch’egli, come Brémond e Tyrrell, appartenente alla Compagnia di Gesù, ma a
differenza di loro gesuita fino all’ultimo giorno della sua vita. De Lubac,
come Blondel, pone nella coscienza dell’uomo la possibilità di incontrare Dio
con le proprie forze, distruggendo la fondamentale distinzione tra l’ordine
naturale e quello soprannaturale.
Il cardinale Siri, in Getsemani.
Riflessioni sul Movimento Teologico Contemporaneo (Fraternità della Santissima
Vergine, Roma 1980), ha ampiamente confutato questi errori teologici. Pio XII,
con l’enciclica Humani generis (1950), condannò le tesi di de Lubac e degli
altri esponenti della nouvelle théologie progressista, ma dopo la sua morte
furono proprio loro i protagonisti del Concilio Vaticano II, a cui diedero
l’orientamento di fondo. De Lubac fu creato cardinale da Giovanni Paolo II ed è
oggi citato spesso da Papa Francesco, anche se pochi ne hanno letto le opere,
criptiche e prolisse.
Negli anni del postconcilio, de
Lubac appartenne all’ala “moderata” della nuova teologia progressista. Ma la
sua moderazione, più che nel contenuto, è nei toni. Basta paragonare il suo
diario del Concilio Vaticano II a quello del domenicano Yves Congar, per
rendersi conto della differenza tra il suo linguaggio misurato e quello
violento e spesso grossolano di Congar. Ciò non impedì a de Lubac di essere un
entusiasta ammiratore e divulgatore delle opere del suo confratello Pierre
Teilhard de Chardin, una delle figure estreme dell’eterodossia cattolica del
Novecento, verso cui lo stesso Blondel aveva manifestato delle riserve.
De Lubac apparteneva a quella
categoria di uomini che detestano le conseguenze delle proprie idee. Criticò il
disfacimento postconciliare, ma non volle ammettere che le radici di quanto
accadeva stavano proprio negli errori della nouvelle théologie. Nel 1972 fu tra
i promotori della rivista “Communio”, e d. Luigi Giussani, che negli stessi
anni lanciava Comunione e Liberazione, lo riconobbe come un suo maestro. I
discepoli di don Giussani protestano quando gli attribuisco una equivoca
nozione di fede, e “Rosso Malpelo” (Gianni Gennari), mi accusa su “Avvenire” di
dire “bugie”, ma la verità è consegnata alla storia.
Invito a leggere il libro di don
Giussani, Un avvenimento di vita cioè una storia. Itinerario di
quindici anni concepiti e vissuti, con un’introduzione del cardinale
Ratzinger (Il Sabato, Milano 1993). Il volume raccoglie le interviste e gli
appunti da conversazioni pubbliche che il fondatore di CL ha tenuto tra il 1976
e il 1992. Il libro non contiene nessuna esplicita negazione delle verità di
fede e vuole manifestare anzi l’attaccamento alla Chiesa di don Giussani. Ma
alla fine delle 500 pagine si rimane con una sensazione di vuoto intellettuale.
Al lettore non rimane che questo messaggio: non serve né l’apologetica, né
l’approfondimento razionale della verità. Ciò che conta è vivere. Ma vivere che
cosa? Si tratta, spiega don Giussani, di “rendere la fede un avvenimento” (p.
339).
Comunione e Liberazione nasce da
una “intuizione del Cristianesimo come avvenimento di vita e quindi come
storia” (p. 349). “Il metodo consiste in questo: che l’intuizione diventa
esperienza (…). L’esperienza è il luogo in cui si vede se ciò che è intuito
vale per la vita” (p. 351). La fede è incontrare Cristo, riconoscere la sua
presenza nella storia e nella propria vita. Ma chi è Cristo? La risposta
ciellina è scoraggiante: colui che si incontra. Il problema di fondo è che, al
di fuori della tautologia dell’incontro, Cielle non è andata e non potrà mai
andare, proprio per la sua pretesa di ridurre il cristianesimo a pura
esperienza ed esigenza dello spirito.
Il Cristianesimo, certo, è anche
esperienza, ma l’esperienza è per sé stessa, incomunicabile; mentre ciò che si
può comunicare sono i princìpi che precedono l’esperienza e da cui l’esperienza
dipende. Nessuno mette in dubbio l’esistenza dell’esperienza religiosa che,
sotto certi aspetti, è la forma più alta di vita cristiana. L’esperienza è
infatti una conoscenza immediata e diretta della realtà. Ma l’esperienza
religiosa non solo non nega la credibilità razionale della fede, ma la
presuppone. Nella prospettiva di Cielle invece cade l’apologetica e tocca alla
vita, e non alla razionalità dei motivi, dare la dimostrazione dell’esistenza
di Dio e della verità della Chiesa. L’esperienza religiosa però ha valore solo
se sottomessa alla ragione, alla rivelazione e al magistero.
Oggi si è smarrita la vera
nozione di fede, perché la si riduce a sentimento del cuore, dimenticando che
essa è un atto razionale, che ha come oggetto la verità. L’intelletto è la sola
facoltà spirituale che può far proprie le verità proposte dalla rivelazione.
Per i modernisti di oggi, come
per i protestanti di una volta, la fede appartiene alla sfera affettiva e
irrazionale. L’oggetto della fede, le verità credute, diventa secondario. Si
rigetta in blocco il realismo greco-cristiano, negando valore al Logos, ai
primi princìpi della ragione e al primato della metafisica. Ciò che conta è
l’esperienza individuale del credente, quello che egli vive nella sua
sensibilità. L’esperienza intima del soggetto diviene l’unica esperienza della
vita cristiana e la coscienza religiosa l’essenza della vita della Grazia.
Questa “esperienza di fede”
rifugge dalle affermazioni dogmatiche, nella convinzione che ciò che è assoluto
divide e solo ciò che muta e si adatta può unire gli uomini tra loro e a Dio.
In questa religione dell’umanità caratteristica dei nostri tempi l’affermazione
netta della verità è un atto di intolleranza verso il prossimo e il compromesso
tra la fede e il mondo diviene il modello di ciò che definito “incontro” con
Dio. La fede però non è irenica: si alimenta con lo studio, con la discussione,
anche con la polemica. Quando si discute con passione, vuol dire che si crede e
il calore della polemica è talvolta la misura dell’amore verso ciò in cui si
crede. Ma all’interno dello stesso clero, chi crede oggi, e in che cosa?
Perché l’esperienza religiosa sia
vera e non sia un’illusione ci vuole invece un criterio di verità. Il problema
di fondo è come determinare l’autenticità dell’esperienza. L’esperienza
religiosa può essere solo esperienza del vero Dio e della vera religione: non è
un generico sentimento di dipendenza dall’assoluto. E’ esperienza religiosa
quella di un buddista immerso nel Nirvana? De Lubac pensa di sì e forse anche
alcuni discepoli di don Giussani.
Ogni errore ha delle conseguenze.
La scarsa sensibilità liturgica
di Comunione e Liberazione non è casuale. La massima della Chiesa secondo cui
la lex orandi traduce la lex credendi presuppone l’esistenza di una integra e
coerente dottrina, di cui la liturgia è visibile espressione. Ma se la dottrina
è assorbita dalla vita, la liturgia non può che essere condannata
all’estinzione. L’amore per la liturgia tradizionale presuppone necessariamente
l’amore per le verità tradizionali. E il tanto bistrattato “tradizionalismo”
non è altro che questo: amore alla verità della Chiesa in tutte le sue
espressioni, da quelle liturgiche a quelle politiche e sociali.
I cosiddetti “tradizionalisti”,
che sono solo cattolici senza compromessi, si richiamano all’insegnamento
immutabile della Chiesa: non idolatrano il potere, ma credono nella Regalità
sociale di Gesù Cristo, ossia sul suo diritto a regnare su ogni uomo e sulla
società intera. L’“esperienza religiosa” a cui si rifanno è quella di coloro che
testimoniarono col sangue la loro visione cristiana della società, come i
Vandeani in Francia e i Cristeros in Messico. Nulla a che fare con l’amoralismo
politico di cui negli anni Cielle ha dato prova. Sarebbe vano cercare un filo
conduttore negli ospiti illustri del Meeting di Rimini, dalle sue origini ad
oggi: personalità di destra e di sinistra, conservatori e progressisti si sono
alternati e si alternano in una passerella del potere, che se è priva di
continuità intellettuale e politica, non manca di intima coerenza nel suo
radicale pragmatismo.
Il lungo idillio di Comunione e
Liberazione con Giulio Andreotti deve far riflettere. Andreotti fu
l’incarnazione dell’amoralismo politico e tra la filosofia della prassi
ciellina e la politica della prassi andreottiana, l’incontro era obbligato.
L’uomo che andava a Messa ogni mattina, non esitava a firmare, nel 1978, la
legge abortista in Italia. La fede svincolata dai princìpi razionali e dai
“valori non negoziabili” rende disponibili a qualunque avventura. Così oggi
Roberto Formigoni, quando “apre” all’affidamento di bambini alle coppie gay,
non è incoerente con la “filosofia della prassi” a cui si ispira.
Il prof. Massimo Borghesi ritiene
che negli anni Settanta, fu “la pedagogia dell’esperienza” di CL e non il
tradizionalismo a “salvare” la Chiesa. Io ritengo invece che Comunione e
Liberazione abbia semplicemente intercettato la parte sana del mondo cattolico
rimasta “orfana” negli anni bui del postconcilio, senza essere in grado di dare
a questi giovani gli strumenti teologici e filosofici di cui avevano bisogno, a
cominciare da una retta nozione di fede.
Molti di essi, oggi non più
giovani, erano e sono di ottima qualità ed è soprattutto a loro che mi rivolgo
quando affermo che Comunione e Liberazione non ha costituito un argine alla
crisi della fede dei nostri giorni, ma ha contribuito all’infiacchimento della
fede e alla sua crisi attuale, senza negare naturalmente le buone intenzioni di
nessuno e con il massimo rispetto per i miei interlocutori, a cominciare da
mons. Luigi Negri, al quale contraccambio stima e amicizia.
Roberto de Mattei
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