La Missa pro defunctis e il "funereo"
Novus Ordo: un parallelo liturgico
di Satiricus
Oggi mi sento in vena di
ecumenismo. E vado in cerca di ciò che ci unisce. Di ciò che unisce la Forma
Ordinaria del Rito Latino (FO) alla Forma Extra-ordinaria del medesimo Rito
(FE). E trovo il trait d’union nella celebrazione odierna – In commemoratione omnium fidelium
defunctorum - o anche, se
vogliamo, nelle Missae pro
defunctis in generale.
E’ infatti cosa
evidentissima per chi conosca la FE, quale e quanto sia lì lo scarto tra la
celebrazione feriale e quella di suffragio. Se ne accorge massimamente il
celebrante, e chiunque con lui abbia la pazienza di soffermarsi sulle
indicazioni del rubricale.
Anzitutto la FE chiede
che nelle messe per i defunti sia omesso integralmente il salmo 42, cosicché la
cerimonia si trova ad iniziare ex
abrupto dal Confiteor. Similmente
vengono decurtate la preghiera di purificazione prima della lettura del Vangelo,
che di tre parti – Munda cor
meum, Iube Domine, Dominus sit –
ne mantiene solo una; e le preghiere precedenti la Comunione – Domine I. C. qui dixisti, Domine I.
C. Filius Dei vivi, Perceptio corporis tui – che sono ridotte a due.
L’Agnus Dei conosce una variazione nelle risposte.
Ed ugualmente varia la conclusione del rito, cui vengono omessi il congedo
abituale e la benedizione. Cadono
alcuni gesti: il segno di croce all’Introito (modificato più che annullato), il
bacio del Vangelo, il segno di croce sull’ampollina dell’acqua all’Offertorio,
il percotimento del petto all’Agnus Dei.
Che dirne? La
celebrazione si fa greve. Qualcuno dirà: lugubre. Secca e asciutta. Quasi che
il gesto liturgico del celebrante porti con sé la pesantezza ed il dolore del
popolo che piange i propri morti. E questa morte riveste con potenza il
sacerdote, che si paramenta tutto in nero – non così il paliotto dell’altar
maggiore né il conopeo, luoghi della presenza del Santissimo, di Colui che è
Vita: qui un violetto è l’estrema variatio cromatica concessa – e con ciò davvero sembra, il
sacerdote, non aver più la forza di benedire, di baciare, di salmeggiare, di
battersi e pregare.
Scompaiono – quasi
dimenticavo – anche i gloria (all’Introito e Lavabo)
ed i relativi inchini. Scompaiono
le preci che elargiscono sul popolo la pace: ora che i morti, se pace avranno,
dovranno chiederla direttamente al Giusto Giudice e non da noi mortali.
Tutto nel rito di
suffragio mostra dunque che la ferita della morte preme stancamente e raccoltamente
sul sacerdote, il quale realmente va così facendosi carico delle angosce del
popolo fedele e affranto. Mentre
troneggia quasi al cuore della funzione, ritmata e inesorabile, laSequentia:
Dies irae, dies illa.
E ora a noi e
all’ecumenismo.
Un ecumenismo triste, se
mi è concesso dirlo con ironia nel giorno grigio dei morti affidati a Dio. Sì, perché guardi e vedi come in
fondo l’Ordinario feriale della FO sia piuttosto simile al rito funebre della
FE.
Com’è la Messa
odierna? Inizia, quasi di botto, con un Confesso magro e sbrigativo, procede
sveltamente in un decurtamento generale delle parole e delle azioni. Pochi sono gli inchini comandati, e
meno ancora quelli che in effetti si fanno. Saccheggiati i segni di croce,
depennati al minimo i simboli del pentimento. Di tre preci all’Evangelo la FO
ne tiene una, di tre alla Comunione due; l’Agnello di Dio è variabile; il finale pure.
Ho promesso, e lo
confermo, di voler essere ironico. E’ nel mio stile. Eppure non può sfuggire del tutto,
per quanto concesso al variare dei simboli e alla creatività liturgica attuale,
che la santa Messa d’oggi è così: breve e secca, asciutta. Quasi da funerale?
Stando alle norme,
andrebbe fatta – per esser schietti – sempre con canti, e con silenzi
intelligenti e con ampi coinvolgimenti di popolazione. E questo ne darebbe lo
splendore, per me pur sempre un poco modernista, ma in sé aggraziato e tale da
salvarne la sublimità. Ahimè,
silenzi attori e canti di solito fan pena oppure latitano.
Per cui, daccapo, la
Messa quotidiana, per noi che del perenne rito siamo gli inossidabili amatori,
e dell’ammodernato bistrattato vittime, ha un che di affranto sottili forme
smorto. Come una volta – appunto - nella Missa da morto. E in più senza neppure quel
vigore che il nero, il tumulo e il Dies
irae vibravano ad ogni movimento.
Ciò basti. Non tanto
per dir male di un rito che la Madre Chiesa oggi promuove ed ama, ma per
spronare chi della nuova forma ha cura, a celebrare bene, con scrupolo e con
zelo. Ogniqualvolta
il prete moderno con fare distratto sciupa tempi e cadenze del santo
Sacrificio, mostra a sé e al mondo di stare celebrando non per i vivi ma per i
defunti. Non vivo, lui stesso, ma sciupato e storto. Prete in nero – non nel
vestire, ma nell’intenzione – prete da morto.
Che poi nel dì dei morti
troviamo tanti stimoli a dire della liturgia nelle sue forme, è cosa che
stupisce poco o nulla. In
fondo qui si gioca tutta la sfida del liturgico e del dottrinale: attorno al senso
di una vita che, con Cristo Crocifisso,
dia senso ai morti, ai preti, ai riti, e al nostro quotidiano decadere.
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