giovedì 13 settembre 2012

Card. Carlo Caffarra

La fede nella vita e nel ministero del sacerdote

in Seminario a Imola 04 settembre 2012

S. Em. Card. Carlo Caffarra

La formulazione del tema indica che esso sarà svolto in due parti. Nella prima parte parlerò della fede nella vita del sacerdote; nella seconda, nel ministero del sacerdote. Si tratta in realtà delle due principali dimensioni della stessa realtà: la fede del sacerdote.

1. Nella vita
Inizio chiedendovi un piccolo sforzo di fantasia. Immaginiamoci di essere Mosè quando, iniziando a condurre il suo popolo fuori dalla schiavitù, si trova davanti il mare e alle spalle l’enorme esercito del faraone.
Le soluzioni possibili, in linea teorica, erano tre. La prima, ritornare sui propri passi; riconoscere davanti al Faraone il proprio errore; pregarlo di perdonare e di riaccoglierli nel suo regno. La seconda, affrontare in combattimento l’esercito faraonico: o vincerlo o morire. La terza, cercare di attraversare il mare per porre fra sé e il Faraone un’invalicabile barriera.
 Esaminiamo un momento le tre ipotesi. La prima era la più praticabile, perché la più a misura di Mosè e del suo popolo. Ma aveva un costo: la definitiva perdita della libertà. La seconda era la più eroica, ma aveva un costo: la sconfitta certa, e condizioni di schiavitù ancora più dure. La terza era semplicemente folle.
Sappiamo come sono andate le cose: Dio apre il mare davanti a Israele, e lo libera definitivamente dal Faraone. La fede di Mosè ha reso possibile l’impossibile, ed ha acconsentito a Dio di compiere la sua opera per eminenza, della quale Israele non doveva più perdere la memoria mediante la celebrazione della Pasqua. La fede è la possibilità di Dio [«a Dio tutto è possibile»] dentro l’impossibilità umana.
Penso che la vicenda di Mosè ci introduca alla comprensione del “ruolo della fede” nella vita del sacerdote. Esso può descriversi nel modo seguente. È la fede che rende il sacerdote consapevole del ministero di salvezza cui Cristo lo ha chiamato, in vista del quale è stato “segregato fin del grembo materno”. Quale mistero di salvezza? Rigenerare l’uomo in Cristo.
Mosè era già stato chiamato: davanti al mare fa accadere l’evento della liberazione, e fa nascere Israele. Ogni sacerdote è sacramentalmente abilitato a compiere l’opera di Cristo, redimere l’uomo; mediante la fede si inserisce consapevolmente in questo mistero, il mistero della redenzione dell’uomo, e lo rappresenta realmente.
D. Barsotti ha scritto: «Verbum caro factum est. L’incarnazione riempie la storia. Tutto comincia: è come una nuova creazione – e più nulla è impossibile, perché l’impossibile è avvenuto… vuota l’anima di tutti gli idoli umani, getta via tutto; la fede nel Figlio di Dio è bastevole a riempire la tua anima, a rinnovare la tua vita. Gli Apostoli non avevano che questa» [La fuga immobile, San Paolo, Milano 2004, 41].
Possiamo capire tutto ciò che ho detto per contrarium, come dicevano i vecchi logici [veritas per contrarium]. Che cosa accade nel sacerdote quando va in crisi di fede?
A che cosa si riduce la vita sacerdotale quando la fede non è solida? L’uscita del sacerdote dalla luce della verità; un’esistenza vissuta nell’oscurità della menzogna e dell’errore. Mi spiego.
La fede è una capacitazione della ragione umana che la rende così penetrante da vedere ben oltre ciò che possiamo vedere colle sole forze umane. Faccio un esempio. Certamente la ragione può capire che essere «qualcosa» è essenzialmente diverso che essere «qualcuno». Può cogliere cioè il valore proprio della persona. Ma la fede si spinge ben oltre. Mi dice: «siete stati comprati ad un caro prezzo». Esiste un universo dei sensi; esiste un universo della ragione; esiste un universo della fede. Puoi rimanere fuori dal secondo; puoi rimanere fuori dal terzo.
La missione sacerdotale si svolge dentro l’universo della fede. Se questa è in crisi, accade nella vita sacerdotale la più tragica delle spaccature: fa il prete senza esserlo. Cioè: è diventato un funzionario chiamato a svolgere un pubblico servizio. Ma il suo io è fuori dalla realtà.
Che cosa può indebolire la fede del sacerdote? A me sembra che le cause di indebolimento possano ordinatamente e agevolmente disporsi a due livelli.
a) A livello del pensiero: una fede non, poco, male pensata è sempre una fede debole ed esposta ad ogni insidia.
Per varie ragioni, che non è ora il momento di esporre, i sacerdoti non sono stati profondamente educati alla cogitatio fidei.
La prima conseguenza di questa scarsa educazione è che non si è preso sul serio il confronto col pensiero contemporaneo, soprattutto quello scientifico. Ma anche col pensiero… pratico [dottrina economica, dello Stato, del diritto]. La conseguenza ulteriore è stata che molti sacerdoti hanno sentito la loro fede come un modo di vedere la realtà difficile da proporre oltre l’età dei sacramenti dell’Iniziazione Cristiana. Sarebbe interessante verificare quanti dei nostri sacerdoti affrontano coi giovani, o direttamente o invitando persone competenti, questi problemi.
L’esperienza di una intrinseca debolezza della fede a proporsi oggi, può essere assai pericolosa per il sacerdote. È un’esperienza che può condurlo a sentirsi un “residuato” di altri tempi.
b) A livello di vissuto: una fede che non plasma la vita è una fede debole ed esposta, perché costretta a convivere con giudizi di valore, giudizi pratici discordanti. Dobbiamo chiederci se la dottrina della fede circa il sacerdozio ha riempito la coscienza che il sacerdote ha di se stesso oppure se altre dottrine [non necessariamente false: si pensi a certe proposte monastiche di vita fatte ai sacerdoti diocesani].
C’è poi un altro aspetto del vissuto sacerdotale che desidero richiamare. Il mondo in cui viviamo è un mondo contrassegnato dall’assenza di Dio. In un mondo così costruito è difficile intravedere l’agire di Dio, il suo operare salvifico. Questa difficoltà può causare un senso di scoraggiamento, come la sensazione di appartenere ad un’azienda in fallimento. È fondamentale dunque per la vita del sacerdote conoscere quelle che i teologi medioevali chiamavano le regulae divinae sapientiae. La lettura quotidiana, fedele, meditata e pregata della S. Scrittura è la scuola dove si imparano. La Scrittura narra precisamente come Dio agisce nella storia.

2. Nel ministero
All’inizio della seconda parte devo premettere una spiegazione. Intendo molto semplicemente rispondere alla seguente domanda: come celebrare colle nostre comunità l’Anno della Fede?
Penso che possiamo partire da un interrogativo e da una constatazione. La constatazione: l’assenza degli adulti dalla nostra comunità. Per adulti intendo le persone che hanno responsabilità sociali. L’interrogativo: quali sono gli obiettivi principali che dobbiamo proporci durante questo anno? Vedremo che c’è un rapporto fra la constatazione e l’interrogativo.
Tre mi sembrano gli obiettivi fondamentali, gli orientamenti che durante questo anno devono ispirare la nostra trasmissione della fede.

2.1.          Il primo è l’impegno di restituire un contenuto completo ed ordinato alla fede professata dai nostri fedeli.
La fede è un’attitudine permanente della nostra ragione, e la nostra ragione è la capacità di conoscere mediante il giudizio “qualcosa”, cioè la realtà. Una fede priva di contenuti è pura emozione; è una opinione soggettiva. Non posso ora fermarmi ulteriormente, come il tema meriterebbe.
La dottrina della fede [la fides quae creditur] è composta da tanti insegnamenti: circa Dio, circa Cristo, circa l’uomo, circa il mondo. La nostra trasmissione della fede è stata in questi anni gravemente lacunosa. Abbiamo mantenuto un assordante silenzio su verità fondamentali, quali per es. i novissimi, il peccato originale, la verità della creazione, la dottrina cattolica circa la coscienza morale.
La dottrina della fede è una “sinfonia” [S. Ireneo]. Non è semplicemente un insieme di dati. Ha una sua armonia interiore, come risulta dal Simbolo della fede.
Non c’è alcun dubbio nella S. Scrittura che il centro della dottrina della fede è la persona e l’opera di Gesù. Egli è la pietra angolare dell’architettura della fede.
È per questa ragione che il S. Padre raccomanda tanto il Catechismo della Chiesa Cattolica. Non possiamo più ignorarlo. Esso è l’esposizione completa e ordinata della fede della Chiesa. Non può essere sostituito, il suo studio, dai gruppi biblici. Essi hanno un altro significato.

2.2.          Il secondo è di sottolineare con grande forza la dimensione veritativa della fede. Mi spiego: è un punto assai importante.
Uno dei “dogmi” indiscutibili della post-modernità è che “la verità sia una nozione inutile perché la solidarietà è più importante dell’oggettività [M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Bari – Roma 2012, XI]. Se lasciamo che questa convinzione prenda corpo in noi e nel nostro ministero, la proposta cristiana è … spacciata; è finita. Per quali ragioni?
S. Paolo, gli Apostoli percorsero tutto il mondo allora conosciuto perché avevano visto, o [Paolo] sentito narrare avvenimenti realmente accaduti. Quando gli Apostoli predicano, non hanno la consapevolezza di narrare dei miti; di proporre dottrine religiose. Semplicemente di raccontare dei fatti che alla luce delle Scritture avevano in sé dei significati reali. Questo è assai evidente dalle prime formulazioni sintetiche della fede, che troviamo già nel N.T.. Brevemente: gli Apostoli predicavano ciò che predicavano, perché erano certi della sua verità. È assolutamente vero che “noi abbiamo toccato il Verbo della Vita”; che Gesù è morto per i nostri peccati; che è risorto nel suo vero corpo.
Se perdo anche di un soffio questa consapevolezza, inevitabilmente o rifiuto prima o poi la proposta cristiana come qualcosa di assurdo oppure ne salvo solo l’insegnamento morale. Nell’un caso come nell’altro, il cristianesimo è spacciato.
Si comprende come la Chiesa ha posto alla base [radix et fundamentum, dice il Tridentino] di tutto l’edificio cristiano la fede, non la carità. E la fede è sempre intesa come un assenso dato ad un annuncio di cose realmente accadute: «se Cristo non è risorto, la vostra fede è vana». Cioè: è priva del suo oggetto; è come un occhio che non vede niente.
2.3.          Il terzo fondamentale impegno nell’Anno della Fede è di sottolineare, parlare con grande forza della contemporaneità di Cristo. Cristo è presente veramente, realmente oggi nella sua Chiesa: è nostro contemporaneo.
Ne deriva una conseguenza pastorale di grande importanza: la presentazione del cristianesimo come incontro. Fu così che i primi discepoli furono affascinati e mossi a seguire Gesù. L’uomo può accettare o no questa compagnia [questa è la fede]; ma non si proponga mai prima di tutto in Cristianesimo come una dottrina religiosa, o come un codice morale. Esso ti propone un incontro, dandoti ragione di ciò che accade nella vita di chi accoglie questo incontro. Si comprende ora il legame con quanto ho detto nella prima parte: può parlare e proporre un incontro solo chi è già stato incontrato.
Il metodo dell’evangelizzazione quindi non può essere egemonico: l’egemonia ha una logica contraria all’evangelizzazione. Il metodo è quello della testimonianza. Non in senso etico [testimonianza = coerenza], ma in senso storico: ti testimonio un avvenimento realmente accaduto.

Conclusione
Mi sembra che tutto quanto ho cerato di dire, sia già stato detto da Ch. Peguy.
«O miseria, o gioia, è da noi che dipende,
Tremito di gioia,
Noi che non siamo nulla, noi che passiamo sulla terra qualche annata da nulla,
Qualche povera annata miserabile,
(Noi anime immortali,)
O pericolo, rischio di morte, siamo noi che siamo incaricati,
Noi che non possiamo nulla, che non siamo nulla, che non siamo sicuri del domani,
Né del giorno stesso, che nasciamo e moriamo come creature di un giorno,
Che passiamo come mercenari,
Siamo ancora noi che siamo incaricati,
Noi che al mattino non siamo sicuri della sera,
E nemmeno del mezzogiorno,
E che la sera non siamo sicuri del mattino,
Dell’indomani mattina,
È insensato, siamo ancora noi che siamo incaricati, è unicamente da noi che dipende
Assicurare alle Parole una seconda eternità Eterna.
Una perpetuità singolare.
È a noi che appartiene, è da noi che dipende assicurare alle parole
Una perpetuità eterna, una perpetuità carnale,
Una perpetuità nutrita di carne, di grasso, e di sangue.
Noi che non siamo nulla, che non duriamo,
Che non duriamo si può dire nulla
(Sulla terra)
È insensato, siamo ancora noi che siamo incaricati di conservare e di nutrire eterne
Sulla terra
Le parole dette, la parola di Dio» [Charles Peguy, I misteri, Jaka book, Milano 1984, 212-213]

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