Abbiamo ridotto la donna a utero,
i figli a prodotto,
la nascita a fabbricazione.
Quello che non vogliamo vedere
Ecco cosa ha portato la fantasia tecnologica.
Ma questo non è il futuro, è l’Occidente di oggi,
guidato da una grande illusione: “All you need is love”
«La civiltà è sterilizzazione».
Aldous Huxley, Il
mondo nuovo,
1932.
Ci sono cose che non vogliamo vedere.
Ad esempio che «il mondo nuovo è già qui», come scrive Eugenia Roccella nel
libro in uscita la settimana prossima per Cantagalli (Fine
della maternità). A descriverci scenari che per Aldous Huxley erano
solo figli di fantasie distopiche è la cronaca. Settimana scorsa i giornali
inglesi hanno raccontato la vicenda di una famiglia in cui una madre si è
fatta impiantare nell’utero un embrione prodotto con lo sperma del figlio. Il
bambino, che ora ha già sette mesi, può a ragione affermare di essere figlio di
suo fratello e di sua nonna. Non è che l’ultimo caso in ordine di tempo e basta
stare un po’ attenti alle notizie che ci arrivano da ogni parte del mondo per
accorgersi che ciò che fino a ieri ci pareva certo e inconfutabile perché
inscritto nel perimetro della maternità e della filiazione è oggi confuso,
labile e interpretabile. Una slavina (o un progresso, a seconda dei punti di
vista) che pare inevitabile. Dunque, perché opporsi?
Intanto, però, accadono cose
che non vogliamo vedere. Dieci giorni fa, ad esempio, è apparsa un’altra
notizia cui si è dato poco peso, facendola scomparire rapidamente dalle pagine
dei quotidiani: la Thailandia ha vietato l’utero in affitto. Il paese che per
trent’anni ha tollerato la pratica della maternità surrogata ha detto basta:
«Vogliamo impedire che la Thailandia diventi l’utero del mondo», ha spiegato un
parlamentare. La nuova legge impedisce agli stranieri di usare le donne thai
per partorire i figli. Non possono più presentarsi, pagare, ritirare il bambino
come fossero in un supermercato. Sono previste pene severe, fino a dieci anni
di carcere.
Ci sono cose che non vogliamo
vedere, appunto. Ma i thailandesi, invece, hanno smesso di chiudere gli occhi
dopo che il paese è stato scosso dalla vicenda di Pattaramon
Chanbua, una ragazza di 21 anni, che, dietro il compenso di 12 mila euro,
aveva affittato l’utero a una coppia australiana per poi essere abbandonata
quando aveva scoperto di attendere un figlio down. O quella di Mitsutoki
Shigeta, un giapponese che aveva messo in piedi una sorta di catena di
montaggio di pargoli, producendone in serie e rivendendoli all’estero.
Le cose che non vogliamo vedere
tornano a galla caparbiamente. Occorre una raffinata strategia per lasciarle
nel cono d’ombra o ai margini dell’inquadratura. Ricordate l’immagine dei due uomini omosessuali in
sala parto con un bambino in braccio? Lo scatto fece il giro del mondo. I due,
avvinghiati e in lacrime, tenevano stretta al petto la testolina ancora bagnata
del liquido amniotico materno. Si abbracciavano tra loro e abbracciavano
commossi il piccolo. Su un lato di una delle immagini scattate in sala parto
appariva un profilo femminile. Era quello della donna che di quel bambino era
stata l’incubatrice per nove mesi. Espressione stravolta, occhi stanchi. Tanto
che, in un’immagine pubblicata successivamente, fu tagliata, fatta sparire,
tolta. Una comparsa. Lei era “solo” la madre. Lei aveva “solo” prestato
l’indispensabile utero. Non era una mamma, era un utero. La madre di quel
bambino non era più sua madre. Rileggete questa frase senza senso: la madre non
è più la madre. È una prestatrice d’opera, e il fatto che lo faccia dietro
compenso o gratuitamente è quasi un corollario rispetto al grande inganno
antropologico di cui stiamo cercando di autoconvincerci.
Ambizioni
superomistiche
Ci sono cose che non vogliamo più vedere perché, come scrive Roccella, «una volta accettato che l’embrione possa essere non il frutto di un rapporto d’amore tra un uomo e una donna, ma il prodotto di una manipolazione in laboratorio, una tecnica vale l’altra». Ammantando tutto di un amore rimpicciolito a contraccolpo emotivo, abbiamo permesso di declassare a questioni burocratico-giuridiche tutti i limiti che la natura ha posto alle nostre ambizioni superomistiche. Se io voglio avere un figlio perché non posso averlo? Che siano gli ingegneri a renderlo possibile tecnicamente e i giuristi a giustificarlo legalmente. È ciò che sta accadendo in tutto il Mondo Nuovo occidentale che ha trasformato i figli in prodotti da scaffale, la famiglia in un’azienda, la nascita in una fabbricazione. Come ha detto Fabrice Hadjadj aTempi, «non è più questione di teoria, ma di pratica, di mezzi efficaci per produrre al di fuori dei rapporti sessuali degli individui più adatti, più performanti». Poi succedono i pasticci, gli errori, i casini. Roccella si sofferma sul famoso episodio accaduto all’ospedale Pertini di Roma dove ci fu uno scambio di embrioni e una donna portò in grembo e partorì il figlio di un’altra coppia. Una vicenda che, sebbene accaduta prima, fu raccontata solo dopo che la Corte Costituzionale aveva cancellato il divieto all’eterologa contenuto nella Legge 40. Eccola lì la “cosa” che non volevamo vedere: «Chissà cosa sarebbe successo – scrive Roccella – se la notizia fosse stata resa nota quando effettivamente avrebbe dovuto esserlo, cioè alla fine di marzo, quando il Centro di procreazione del Pertini avrebbe dovuto comunicare al Centro nazionale trapianti e al ministero della Salute il grave evento avverso». Già, chissà.
Ci sono cose che non vogliamo più vedere perché, come scrive Roccella, «una volta accettato che l’embrione possa essere non il frutto di un rapporto d’amore tra un uomo e una donna, ma il prodotto di una manipolazione in laboratorio, una tecnica vale l’altra». Ammantando tutto di un amore rimpicciolito a contraccolpo emotivo, abbiamo permesso di declassare a questioni burocratico-giuridiche tutti i limiti che la natura ha posto alle nostre ambizioni superomistiche. Se io voglio avere un figlio perché non posso averlo? Che siano gli ingegneri a renderlo possibile tecnicamente e i giuristi a giustificarlo legalmente. È ciò che sta accadendo in tutto il Mondo Nuovo occidentale che ha trasformato i figli in prodotti da scaffale, la famiglia in un’azienda, la nascita in una fabbricazione. Come ha detto Fabrice Hadjadj aTempi, «non è più questione di teoria, ma di pratica, di mezzi efficaci per produrre al di fuori dei rapporti sessuali degli individui più adatti, più performanti». Poi succedono i pasticci, gli errori, i casini. Roccella si sofferma sul famoso episodio accaduto all’ospedale Pertini di Roma dove ci fu uno scambio di embrioni e una donna portò in grembo e partorì il figlio di un’altra coppia. Una vicenda che, sebbene accaduta prima, fu raccontata solo dopo che la Corte Costituzionale aveva cancellato il divieto all’eterologa contenuto nella Legge 40. Eccola lì la “cosa” che non volevamo vedere: «Chissà cosa sarebbe successo – scrive Roccella – se la notizia fosse stata resa nota quando effettivamente avrebbe dovuto esserlo, cioè alla fine di marzo, quando il Centro di procreazione del Pertini avrebbe dovuto comunicare al Centro nazionale trapianti e al ministero della Salute il grave evento avverso». Già, chissà.
Però, intanto, proprio quel
caso di «eterologa involontaria» spiega assai bene cosa accada nel mondo dove
«la fantasia tecnologica è al potere». Accade che nel mondo fatato da cui è
stata espunta la maternità, in mancanza di un contratto, «non c’è più un
criterio per capire chi sia la vera madre del bambino». Chi sono i genitori?
Quelli che hanno messo a disposizione il patrimonio genetico o colei che ha
nelle viscere il “prodotto”? È un rebus irrisolvibile, un labirinto senza uscite.
Per determinare chi è la madre non possiamo più affidarci alla vecchia idea che
è colei che partorisce, ma dobbiamo andare a vedere cosa è stabilito nel
contratto. In ciò che è stato pattuito tra i due omosessuali e la gestante, tra
la coppia e la madre surrogata, tra il single e la donatrice di ovulo, tra il
donatore di sperma e… eccetera eccetera. In un proliferare di figure
genitoriali, in cui ognuno mette il suo pezzetto, si finisce col dover mettere
sotto contratto tutte le possibili ipotesi per evitare danni, recriminazioni,
cause, risarcimenti. Altro che amore. Come scrive giustamente Roccella, «la
natura della nuova genitorialità è la contrattualità, casistiche dettagliate,
obblighi legali e, infine, sanzioni penali in caso di violazione del contratto».
Poi succede come al Pertini e tutto quel che abbiamo nascosto sotto cavilli e
procedure esplode fragorosamente: chi è la madre di questo bambino? Per
paradosso, nota Roccella, nel rompicapo romano si è reso manifesto che «il
padre è l’unico genitore naturale individuabile univocamente. Adesso dobbiamo
dire pater semper certus est, la madre… qualche volta».
La grande offerta delle biobanche
«Non basta che le formule siano buone; dovrebbe essere buono anche ciò che se ne ricava», scriveva Huxley. Ciò che oggi non si vuol vedere è che il mantra del «love is love» ha conseguenze nefaste innanzitutto per i soggetti che dovrebbero essere i destinatari di quell’amore: i bambini. I figli sono proprio i grandi dimenticati di tutta questa storia. Sebbene sia nel loro nome che tutto viene fatto, sebbene si giuri che ciò che conta è che siano amati, poi è proprio la loro figura a essere tagliata fuori dalla fotografia. Oppure a essere modellata in modo che non rovini la scena. Perché non basta più che il bimbo sia sano. Le biobanche dei gameti offrono veri e propri cataloghi con le caratteristiche dei donatori. E le richieste sono per quelli alti, biondi, con gli occhi azzurri e due master a Princeton, non certo per diplomati tarchiati e con calvizie precoci.
«Non basta che le formule siano buone; dovrebbe essere buono anche ciò che se ne ricava», scriveva Huxley. Ciò che oggi non si vuol vedere è che il mantra del «love is love» ha conseguenze nefaste innanzitutto per i soggetti che dovrebbero essere i destinatari di quell’amore: i bambini. I figli sono proprio i grandi dimenticati di tutta questa storia. Sebbene sia nel loro nome che tutto viene fatto, sebbene si giuri che ciò che conta è che siano amati, poi è proprio la loro figura a essere tagliata fuori dalla fotografia. Oppure a essere modellata in modo che non rovini la scena. Perché non basta più che il bimbo sia sano. Le biobanche dei gameti offrono veri e propri cataloghi con le caratteristiche dei donatori. E le richieste sono per quelli alti, biondi, con gli occhi azzurri e due master a Princeton, non certo per diplomati tarchiati e con calvizie precoci.
Il volume di Roccella è ricco
di esempi e storie che non vogliamo vedere. Dalla vicenda del donatore di
sperma belga 7042, che ha trasmesso ai suoi indefiniti figli una patologia rara
e devastante, a quella del trio di lesbiche (throuple) in cui ognuna vuole il
“suo” bambino. Dai siti di co-genitorialità che spiegano come regolare i
rapporti tra persone che non vogliono formare una coppia ma sono disposti a
unirsi per “fare” un figlio, alle storie dei figli dell’eterologa che rivelano
la grande «opera di mistificazione» con cui sono stati “prodotti”. Come
racconta nel suo blog Lindsay, giovane americana nata nel 1985 da una madre
single e da un donatore di sperma: «Paul McCartney disse una volta “All you
need is love”, “tutto ciò di cui hai bisogno è l’amore”; però non è vero,
malgrado ci siano tanti, tra coloro che hanno concepito grazie a un donatore,
che vorrebbero crederlo. Sembra che ci sia una soverchiante maggioranza di
madri gestazionali sinceramente convinte che finché amano il proprio figlio, a
lui non mancherà il padre biologico. Vorrei alzare la mano e dire che è
un’insensatezza».
Perché l’amore, a partire dal
sesso, ha sempre delle conseguenze che chiedono di essere affrontate, non
eluse. Nasconderle si può, ma solo momentaneamente. Poi, cresciute e diventate
grandi, quelle “conseguenze” inizieranno a rivolgere ai genitori domande ancestrali
sulla loro origine per avere qualche suggerimento sul cammino che sono chiamati
a intraprendere in questa valle di lacrime. E sono questioni di sangue cui non
si può rispondere indicando il numero di un barattolo o di una siringa.
Nessun commento:
Posta un commento