Quel che resta della Quaresima: dal regimen salvationis al regimen sanitatis
Il grasso e la morte, il sesso anche. La Quaresima oggi. Dove il benessere ha preso il posto di ciò che è bene, la profilassi quello della santità, l’allenamento fisico quello dell’esercizio della virtù. La dietetica quello dei digiuni, l’ossessione contro i cibi grassi quello delle rinunce alimentari. E’ il nuovo moralismo neognostico.
Così siamo passati dal regimen salvationis al regimen sanitatis
*Per gentile concessione del quotidiano LA CROCE. Il mio articolo è apparso nel numero 35, di venerdì 28 febbraio 2015 col titolo “Cronache grasse da un venerdì di Quaresima”.
E siamo in quaresima. Quale tempo migliore per parlare del grasso e del magro, del cibo e dell’astinenza, della vita e della morte? Il grasso, il sesso, la morte. La fede. Delle evitazioni cristiane che via via sono andate scomparendo, anche se nulla scompare del senso religioso delle cose che è inscritto nell’uomo; tutto si trasforma. Dalla penitenza quaresimale, ormai politicamente scorretta, caduta in disuso e accusata persino di neo-pelagianesimo da certi, si precipita velocemente verso il neo-gnosticismo.
È veramente curioso, ma per dire proprio triste, vedere che all’udienza del mercoledì a San Pietro, a quaresima appena iniziata, nel periodo forte delle Ceneri, qualcuno non trova di meglio da fare che regalare salumi e torte al papa. Ebbene sì: quando si smette di essere “neo-pelagiani” si finisce col diventare neo-luculliani. C’è davvero da chiedersi se ancora siano cristiani questi. O forse non è triste affatto: è doveroso ormai regalare salami ai papi, in quaresima. Arriverò a spiegarmi.
LA MORTE OSCENA
Come muoiono le api? Lo chiedo a un apicoltore che è anche un noto blogger cattolico: Francesco Colafemmina. E me lo racconta, e resto commosso, turbato dalla delicatezza di quello che appare come un vero rituale funebre, antico, immutabile, un pietoso ufficio vorresti dire quasi cristiano, in ogni caso pieno di una poesia ancestrale.
Le api vivono solo 50 giorni. Non immaginavo campassero così poco. E nonostante ciò hanno una memoria gigantesca, come dovessero campare cent’anni. Dico all’apicoltore che se il lutto è memoria, allora le api sono sempre in lutto: sono così brevi i loro giorni! Ma il tempo è relativo, è una superstizione, non esiste. La memoria non conta le ore, come neppure Dio: “per Lui un attimo è un millennio, un millennio è un attimo” sta scritto.
Le api operaie vivono da febbraio ad agosto, 50 giorni le più gracili, 60 le più robuste. «Settanta sono gli anni dell’uomo; ottanta per i più robusti» sta scritto. Tuttavia le api nate a fine agosto vivono anche 180 giorni. La regina campa anche 5 anni.
Ma quando l’ape muore, che ne è del suo corpicino? Lo chiedo a Colafemmina.
Le api al mattino prendono i cadaveri e li portano in volo a distanza dall’alveare, adagiandoli preferibilmente su un filo d’erba. “Cerimonia alla quale ho assistito personalmente innumerevoli volte”: sono andate a dormire con quel pensiero, si svegliano presto con lo stesso pensiero. In tutti gli alveari sani non si troverà mai un cadavere o la minima traccia di sporcizia. È una scena che mi ha commosso, sino quasi alle lacrime: l’ape defunta adagiata su un filo d’erba, lasciata al soffio del vento e al tocco lieve della brezza, prima che il sole sorga.
Immaginiamo di vederlo nella prima alba, alle 6, d’estate. Le api che trascinano le loro sorelle e le vedi cercare un filo d’erba, sceglierlo, poggiarsi con quel peso e poi d’un tratto lasciarlo tornare alla terra. È commovente. Senza dubbio alcuno.
Così muore l’ape. Ma come muore l’uomo? Chi lo porta via dal suo “alveare” umano, la città, il condominio, poi dove lo adagia con tanta poesia? Chi ha pietà di lui? Chi sono i suoi “fratelli”, che, al pari delle sorelle api, lo adageranno su un filo d’erba o un fiore di maggio o sulla terra lieve?
Lo scopro, per l’ennesima volta, tra le pagine del Messaggero di Roma, che sfoglio una domenica all’alba, al solito bar dell’Africano.
«Povero papà: è stato sfortunato in vita, lo è stato anche da morto. L’ho visto morire due volte: lo guardavo e mi vergognavo», dice Debora, la figlia. Maurizio Sebastianelli, 52 anni, 180 cm per 130 chili di peso muore d’improvviso prima di natale. È la sua sola figlia che si occupa del funerale: va all’Ama, agenzia comunale che s’occupa dei servizi funebri “da poveri” e comunque paga 2.300 euro: li ha dovuti cercare in prestito. Una sola cosa raccomanda: una bara capiente e resistente, “rinforzata” per il corpulento, obeso babbo morto. Ma dentro la metropoli, negli uffici della burocrazia cittadina, in tutto quello che è “pubblico” nessuno vede e sente niente, nessuno conosce nessuno o avverte quel segnale istintivo che indica la comune umanità: l’empatia. Si è numeri, si è ordinaria apatica amministrazione, e se si è poveri si è anche niente. Un onere fastidioso da licenziare senza troppi complimenti dal mondo, senza scomodare troppo l’indolenza di nessuno.
Mentre leggo tutto questo, penso: penso a come muoiono le api. A come sarebbe bello diventare api, circondati da altre api, mentre si muove: essere afferrati all’alba per le ali dalle “sorelle” e adagiati su un filo d’erba, accarezzati dalla brezza mattutina, portati via dal vento fresco del primo giorno, scivolare nella terra umida delicatamente.
Arrivano in casa di Maurizio con una bara qualunque, né rinforzata né abbastanza capiente e anche così è la più grande che il comune di Roma è disposto a concedere: può mai essere, stante il politicamente scorretto del “grasso”, che anche l’Ama non si adegui alla guerra all’adiposo? Allora niente bare agli obesi! Non sono previste le persone obese a Roma, sono un’offesa prima che al decoro pubblico e al senso estetico, al salutismo, e se muoiono sono pure fastidiose da maneggiare. Non sono degne neppure di avere una bara della loro stazza vergognosa, insalubre, certamente causa della loro stessa morte prematura: gente che se l’è andata a cercare! E adesso che si pretende? Ha il Comune le bare per i nani, i deformi, per pigmei e vatussi, ma non per gli obesi. Nemmeno a pagarle. È una malattia morale socialmente scabrosa, l’obesità.
Pressano il cadavere di Maurizio nella bara, oscenamente. Sollevano issando la bara, la bara si spezza. Un tonfo lugubre: il cadavere è sprofondato. La figlia urla piena d’orrore, esce per strada, la portano al pronto soccorso con la pressione altissima. Mettono un foglio di zinco sotto la salma, accartocciano la cassa rotta in una coperta, vanno in chiesa anche se ormai sono in gravissimo ritardo. In tutto lo scempio penoso che segue, arrivano anche tardi, col cadavere penzolante, al cimitero di Prima Porta: è persino troppo tardi per seppellirlo, neppure a questo ha diritto un defunto grasso a Roma. Se ne sarebbe parlato il giorno dopo, semmai si fosse trovato un loculo abbastanza capiente, e quanto alla sepoltura a terra, solo qualche tempo fa qualcuno disse che “i grassi inquinano di più”, la terra e le falde acquifere, anche se non ce ne sono sotto il cimitero ma tant’è! Bruciarli? Inquinano l’aria assai e consumano troppa energia. Semplicemente: non devono esistere, o dimagrire.
Guai ai grassi. Guai soprattutto ai soli e ancora di più ai poveri: non c’è tristezza più grande nell’anonimato della metropoli che ricorrere alla municipalità per un funerale da poveri. E, giacché si è poveri, non si può essere grassi, i poveri devono essere macilenti: dunque niente bare capienti e resistenti. Bastano quattro fogli di compensato. Morire nella città non è solo triste, diventa anche pericoloso.
Certe volte mi viene la tentazione di fondare un ordine religioso che si occupi solo dei morti (altra periferia esistenziale quella) e delle pompe funebri: la civiltà di un popolo, lo stato di salute di una umanità la vedi dal rispetto per i morti. La morte senza sacralità, che sola preserva quel pudore al quale il morto ha diritto, è la fine del mondo.
IL GRASSO AMARO
Così muore l’uomo, così è il suo ultimo sventurato viaggio. Allora pensi alle api leggere. Ma pensi anche che più amaro della morte è il grasso. Nei secoli scorsi non era così: simbolo di bellezza, emblema di salute, prova di opulenza, forma della raggiunta pace morale e sociale, il grasso era una benedizione di Dio. Ci si privava del grasso in quaresima proprio per questa sua valenza festosa, perché a tavola era una prelibatezza e addosso una sciccheria. Non stava bene ostentarlo in un tempo forte, penitenziale perché la penitenza sta appunto nel privarsi di qualcosa di gradevole: altrimenti si smetteva d’essere tristi e contriti. Il grasso era il sapore e la consistenza della vita benedetta dalla sovrabbondanza di grazia. Era la gioia di vivere.
In uno dei suoi non pochi attacchi di autodemolizione, il post-Concilio di fatto liberalizzò precetti e penitenze, le evitazioni e i digiuni nei tempi forti, li lasciò alla libera iniziativa e fantasia dei fedeli. Col risultato che scomparvero, e la fede, la quale è anche fare o non fare delle cose in determinati tempi, ne risentì. Poco dopo, alla liberalizzazione dei precetti seguì una demonizzazione e una repressione del penitenziale. E nella furia devastatrice, persino il peccato a momenti risultò “liberalizzato” o, perché no, “abolito”, va da sé la necessaria penitenza e riparazione.
Ma ciò che dai vertici viene soppresso, riemerge poi alla base, trasfigurato. E nel nostro caso, di questi tempi, l’impallidimento del senso del peccato (e della riparazione penitenziale) rinverdisce sotto forma di senso di colpa salutista ed estetico. Dove alle rinunce alimentari – si pensi al mangiar di magro nei venerdì – che un tempo avevano un valore religioso e purificatorio attinente al regimen salvationis, si sostituisce il regimen sanitatis, con la demonizzazione dei cibi grassi e perciò “impuri”, dove il grasso è sinonimo di malattia e di brutto, di morte potenziale, sinonimi che si sostituiscono ai concetti di peccato e di vizio, e di dannazione, laddove la colpa individuale di prima, si fa, adesso, per mezzo sempre dell’ab-uso del grasso, colpa e stigma sociale. La trascuranza della riparazione e della purificazione, che nascevano dalla paura del peccato, è rimpiazzata dall’ossessione patofobica ed estetica. Il corpo ha preso completamente il posto dell’anima, mentre un tempo era semplicemente l’altra metà dell’uomo.
LA CARNE IMMONDA
Sono certo un “allievo” di Piero Camporesi, e basta studiarlo per capire alcune cose. L’antico testamento satura e nevrotizza, mobilita tutta la religiosità ebraica sulle evitazioni alimentari: l’interdetto più pesante cade sulla carne, la più sopraffina e primaria tra tutte le delizie, la fonte primigenia di ogni “corruzione”, dal momento che la gola è la regina e la porta principale di ogni vizio.
Poi arriva il cristianesimo a spazzare via tutti questi terrori alimentari e lascia al cristiano, e Gesù stesso gran mangiatore lo dimostra, ogni libertà alimentare quasi mondando tutti i cibi. Infine, però, anche il cristianesimo sembra recuperare le astensioni alimentari di un tempo: non è più questione di cibi puri e impuri, è questione di penitenza, di privazione temporanea, in accordo coi tempi liturgici – ed è dunque più una sacralizzazione del tempo –, da alcuni cibi. Anzi, dal Cibo per eccellenza, il più prestigioso: la carne. Ma non perché impura, bensì “impenitente”, un lusso del quale privarsi nei tempi forti: non è questione d’essere contagiati dall’impuro ma di purificazione, il problema riguarda la persona non l’oggetto dei suoi appetiti.
Infine, come detto, il Concilio spazza via anche queste cose, creando non pochi danni alle consuetudini sacre dei cattolici, desacralizzando il tempo e lasciandolo in balia del “secondo le proprie esigenze”, l’oggettivo comunitario è dissolto negli egoismi dell’individuale. Scompare la dimensione penitenziale ma anche la materializzazione tangibile del tempo sacro tra i cattolici.
Ciò che è con forza negato dalle autorità religiose, ciò che la secolarizzazione di massa rimuove e ricaccia dalla porta, poi, trasmutato, rientra dalla finestra, come si diceva. Cos’è questo crescente terrore e terrorismo sul consumo di carni se non un revival alterato delle antiche proibizioni ebraiche e delle astinenze cristiane? Cos’è questo laicissimo ritorno alla evitazione del consumo di carni, come politicamente scorretto, e cos’è questo apocalittico predicare circa la sua impurità che si manifesterebbe sotto forma di cancri e infarti e grassi “in eccesso” se regolarmente divorata? Cos’è se non un ritorno al passato sacro, sfigurato, profanato, quasi scrostato da qualsiasi raccordo al divino e ai significati escatologici?
“Quasi”, dico: perché ormai gli stessi militanti vegani o vegetariani a sostegno delle loro tesi più e più volte tirano fuori testi sacri piuttosto immaginari, più o meno manipolati, in ogni caso decisamente prodotto di una esegetica spericolata e naif, ideologica, per sostenere i loro teoremi neo-puritani, la loro etica delle nuove evitazioni, “naturali” a loro dire, mentre, bibbie alle mani, vite di santi alle mani, persino paradossalmente santini del Nazareno, dimostrano che “innaturale” è l’essere carnivori. Si tenta dunque di ri-sacralizzare nell’ambito puramente laico una tendenza già sacra ma decaduta nel contesto religioso e che laddove in modo residuale sussiste, come in certo mondo ebraico, è accusata di fariseismo, di scaricare su pratiche ormai prive di senso, o delle cui ragioni profonde ci si è scordati, il valore che dovrebbero avere i fatti e le categorie dello spirito, piuttosto che quelle culinarie.
IL CASTO SESSO
Se la gola è la porta di tutti i vizi, le pudenda, e dunque il sesso, ne sono il riflesso condizionato e la cloaca: la continenza a tavola sempre è stata vista come propedeutica alla continenza a letto. Non è mistero che nei tempi andati, in quaresima, persino l’astinenza sessuale all’interno dello stesso talamo nuziale era considerata auspicabile e compagna speculare dei digiuni: la purificazione del corpo, tempio dello Spirito, doveva essere totale, «dalla boca sin allo bucio del cul» spiegò il poeta.
E oggi, in questi tempi laicisti e paradossalmente neo-puritani?… in una parola: neo-gnostici? Il sesso era il terminale di tutti i vizi, lo zenit e il nadir del peccato più comune e umano e perciò anche il più contaminante e impuro: l’unico rimedio era l’astinenza, o, “piuttosto che bruciare” sposarsi, dice Paolo. Se il sesso aveva in sé il germe del peccato e della dissoluzione, finché si era cristiani, adesso che cristiani non possiamo più dirci la paura del “virus” ha preso il posto della paura del peccato: il sesso “trasmette malattie”, perché allora come oggi resta sempre “sporco” e “infetto”, dunque vettore di morte potenziale. Sul piano simbolico e concreto, il terrore della contaminazione virale ha sostituito l’orrore dell’impurità morale. Se dalla corruzione dell’impurità ci si difendeva con la castità, adesso, dalla contaminazione virale ci si difende in un solo modo, apparentemente concreto e in realtà simbolico: il condom. Una castità sublimata.
Qui pure, noterà anche Camporesi, il preservativo con le sue relative sicurezze, ha sostituito il senso di colpa cristiano. La “sicurezza” del rapporto diventa l’anti-peccato, l’atto penitenziale e l’assoluzione preventiva. Il sesso è reso “casto” da quella membrana isolante che preserva dal contatto diretto con l’impurità. Perché il vero peccato odierno è la malattia, la trasmissione del virus così come un tempo si “trasmetteva” il peccato facendone corruzione, che si riverberava “anche” sul corpo, disfacendolo: la malattia stessa infatti poteva essere vista, un tempo, come decorso fisiologico della malattia morale.
Il condom è il rimedio alla rinuncia al sesso, unico sistema di “immunizzazione” dalla concupiscenza e dal virus devastatore che gli è congenito, come un tempo “rimedio” era lo sposarsi “piuttosto che bruciare”. Il condom rende il sesso sterile, ne neutralizza simbolicamente il germe della vita che ha in sé quello della morte, così come prima era reso inerte nella rinuncia al sesso. Così facendo, assume tutte le sembianze della castità e dell’ascesi, dell’elevazione e della virtù scrupolosa, che preserva e assolve chi lo pratica e chi lo riceve. Il preservativo ha sostituito sul piano simbolico e inconscio la salute del corpo alla salute dell’anima, santificando la prima e obliando la seconda.
DAL BENE AL BENESSERE
Il benessere ha preso il posto di ciò che è bene. La profilassi quello della santità. L’allenamento fisico quello dell’esercizio della virtù, la dietetica quello dei digiuni, l’ossessione contro i cibi “grassi” quello delle evitazioni alimentari; la carne sacra leccornia tra tutti i cibi, simbolo del perpetuarsi della vita, dalla quale ci si astiene come da una piacevolezza per penitenza e rievocazione del memento mori, col vegetarismo di moda diventa repulsione: la carne è manifestazione del cadaverico e della putrefazione, da fuggire per sfuggire alla stessa idea della morte, che si rifiuta.
E’ il rifiuto della caducità ineliminabile, incuneata nella carne dell’uomo dal peccato originale, il cui ricordo è stato rimosso e la cui rimozione è la madre di tutti gli squilibri, dopodiché tutto, la caducità, la sofferenza, la vecchiaia, la morte appaiono logicamente “incomprensibili” e irricevibili: si divinizza il corpo e lo si disumanizza “imbalsamandolo” per conservarlo, lo si unge di sacri balsami “miracolosi”, ci si inietta elisir di eterna giovinezza proprio per coprire ed esorcizzare l’afrore di morte latente che esala ogni giorno di più dai pori sensori dello sfaldamento. Ed è così che la rituale dieta primaverile per la “prova costume” in estate, ha preso il posto di quella del magro quaresimale in attesa della Pasqua.
E’ un ritorno a un neo-gnosticismo che ha le stesse rigidità moralistiche e la stessa durezza del puritanesimo calvinista. Ma all’edonismo di massa segue logicamente e paradossalmente, trasfigurata, la incessante, schizofrenica, dilacerante guerra moralistica al piacere: il cibo, il grasso, il fumo, l’alcol; solo il sesso appare lecito, anzi consigliato fortemente: ma a patto che sia “sicuro” e sterile, senza contatto. Versione che ha preso il posto del cristianissimo sesso “coniugale e fecondo”. Su tutto incombe il sentore di morte, proprio nel momento in cui si rifugge anche solo l’idea della morte.
Altro non siamo che al rovesciamento simbolico e concreto della morale cristiana. Che, mutata di segno e di significati, privata dell’aspetto ultramondano e riempita di pretesti mondani, è però di nuovo inflitta, desacralizzata e secolarizzata, rovesciata e svuotata, con una aggressività, intollerante e fanatica, sconosciuta alle generazioni cristiane. Così esasperata nota solo ai popoli puritani e calvinisti d’altri tempi, appunto, privi com’erano della valvola di sfogo del sacramento della penitenza; e che non per amore di Dio praticavano e specialmente infliggevano le loro inflessibili regole ma per paura di Dio, e dell’opinione sociale. Quella vox populi più moralistica dei moralisti che si sostituisce man mano al giudizio di Dio e conosce solo due tipologie umane, irrimediabilmente: i puri e gli impuri. Quando il cattolicesimo riconosce solo medi peccatori, ovunque. Gli impuri odierni, i paria del regno sono in primis i grassi, veri arcidiavoli in questo eden ossesso e gnostico. Il grasso appare come l’unguento della morte, sebbene fin pochi anni fa il magro era la consistenza della morte: la “commare secca”, sempre rappresentata come magrezza spettrale, come scheletro, in ogni caso priva di grasso e di carni, solo brandelli di pelle bigia e incartapecorita. La vita se n’era volata via portandosi appresso il prezioso carico di grasso che le dava forma e consistenza terrena.
Con quale auspicio concludere questa lunga riflessione che ha al centro il grasso e la quaresima? Ci verrebbe da dire che oggi la vera penitenza da rispettare in quaresima sarebbe non l’astinenza dal grasso ma l’astinenza dal magro. L’unica purgazione possibile da questo neo-gnosticismo di massa ossessionato dal corpo e dalla magrezza, è ingrassare in quaresima non per piacer nostro, ma per amor di Dio.
http://www.papalepapale.com/develop/quel-che-resta-della-quaresima-dal-regimen-salvationis-al-regimen-sanitatis/
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