Relativismo nella Chiesa?
p. Giovanni Scalese
Fino a qualche anno fa mi sono occupato, in forma piú o meno diretta, di formazione all’interno del mio Ordine religioso. Quel che lamentavo sovente era la “molteplicità delle formazioni”: praticamente tanti erano i modi di formare, quanti erano i formatori. Nonostante ci fossero le Costituzioni, la Ratio institutionis, le delibere dei Capitoli generali, le tradizioni domestiche, di fatto ciascun novizio o studente veniva formato a seconda dei gusti personali del Padre Maestro che si ritrovava ad avere. Con quali conseguenze sull’unità della Congregazione, vi lascio immaginare. In tutte le riunioni dei formatori e nei Capitoli ho sempre insistito sulla necessità dell’unità della formazione e, devo riconoscere, delle delibere in tal senso sono state anche approvate; ma ho l’impressione che, nonostante le delibere, la situazione sia rimasta pressoché immutata.
Beh, quel che lamentavo riguardo alla formazione nel mio Ordine, in realtà costituisce un problema generale, che tocca ogni ambito, diffuso in tutta la Chiesa, soprattutto dopo il Vaticano II, col quale ciascuno si è sentito autorizzato a fare di testa propria. Non mi si fraintenda, non sto criticando il Concilio: accetto con convinzione tutte le riforme da esso promosse e successivamente realizzate; sono riforme che si rendevano necessarie per il mutamento dei tempi. Negli anni dopo il Concilio i Papi e i Dicasteri della Curia Romana hanno fatto un enorme sforzo di aggiornamento in tutti i settori, lasciando talora spazio anche alla possibilità di ulteriori adattamenti alle situazioni locali, ma sempre entro i limiti previsti dalle nuove normative. Il problema è che spesso tali normative sono state completamente ignorate dalla “base”, la quale anzi riteneva che, col Concilio, si era fatta piazza pulita di ogni legalismo e che unico criterio di azione fosse ormai l’attenzione al soffio dello Spirito, solitamente coincidente — guarda caso — con i propri gusti personali.
Perché, direte voi, questa lunga introduzione? Dove vuole arrivare Padre Scalese? È la riflessione che mi è venuta in mente quando, l’altro giorno, ho letto una notizia che mi ha lasciato alquanto perplesso: il Papa, il giovedí santo, celebrerà la Messa in Cena Domini nel carcere minorile di Casal del Marmo. Beh, dove sta il problema? Non è un bellissimo gesto quello deciso da Papa Bergoglio? “Visitare i carcerati” non è forse una delle opere di misericordia corporale? Il Papa non può decidere liberamente dove celebrare la Messa del giovedí santo?
Vorrei cominciare col rispondere a quest’ultima domanda, perché credo che da una corretta risposta ad essa dipenda tutto il resto. È vero che il Papa può decidere quel che vuole: egli è il legislatore supremo. Ma può decidere, appunto, legiferando. Se esiste una legge che a lui non piace, può cambiarla; ma, se una legge esistente, fatta da lui o da uno dei suoi predecessori, lui non la cambia, non mi sembra opportuno che la disattenda. Non sono un canonista, ma non mi pare che al Papa possa applicarsi il principio “Princeps legibus solutus”: non sarebbe molto corretto nei confronti di quanti quelle leggi sono tenuti a osservarle. Questo, come principio generale.
Nel caso presente, non si tratta propriamente di leggi, ma di indicazioni pastorali, che comunque hanno, a mio parere, un valore piuttosto vincolante. Una trentina d’anni fa fu pubblicato il Cæremoniale Episcoporum, che non credo fosse destinato soltanto ai cerimonieri delle cattedrali, ma innanzi tutto ai Vescovi stessi. Faccio notare che non mi riferisco al Cerimoniale del 1600, ma a quello del 1984, “ex decreto Sacrosancti Œcumenici Concilii Vaticani II instauratum, auctoritate Ioannis Pauli PP. II promulgatum”. Ebbene, che cosa si dice nel suddetto Cerimoniale a proposito dei riti del Triduo pasquale?
«Tenendo quindi presenti la particolare dignità di questi giorni e la grande importanza spirituale e pastorale di queste celebrazioni nella vita della Chiesa, è sommamente conveniente che il Vescovo presieda nella sua chiesa cattedrale la Messa nella Cena del Signore, l’azione liturgica del venerdí santo “nella passione del Signore”, e la veglia pasquale, soprattutto se in essa si devono celebrare i sacramenti della iniziazione cristiana» (n. 296).
E, specificamente a proposito del giovedí santo, il Cerimoniale prosegue:
«Il Vescovo, anche se ha già celebrato al mattino la Messa del crisma, abbia ugualmente a cuore di celebrare anche la Messa della Cena del Signore con la piena partecipazione di presbiteri, diaconi, ministri e fedeli intorno a sé» (n. 298).
Non si tratta di norme tassative, ma di indicazioni in ogni caso pressanti, dalle quali, a mio parere, solo per gravissime ragioni ci si potrebbe discostare. Ma, a quanto è stato riferito, Papa Francesco non fa altro che continuare un’abitudine che aveva quando era Arcivescovo di Buenos Aires (il che lascia presumere che intenda ripetere il gesto ogni anno). È chiaro che il problema non sorge solo ora che Bergoglio è diventato Papa, ma esisteva già quando era Arcivescovo. Posso supporre il ragionamento che avrà fatto: “Ho già celebrato questa mattina la Messa del crisma con tutto il mio clero; questa sera la Messa in Cena Domini sarà celebrata nelle diverse parrocchie; con chi celebro io in cattedrale? Magari non ci saranno neppure i seminaristi perché mandati ad aiutare nelle rispettive parrocchie. Quindi me ne vado a celebrar Messa ai carcerati (o agli ammalati o agli anziani) e cosí faccio anche un’opera di misericordia”. Un ragionamento abbastanza comprensibile, addirittura encomiabile, ma che rischia di “smontare” tutto d’un tratto quanto il Concilio aveva autorevolmente dichiarato:
«Il Vescovo deve essere considerato come il grande sacerdote del suo gregge: da lui deriva e dipende in certo modo la vita dei suoi fedeli in Cristo. Perciò tutti devono dare la piú grande importanza alla vita liturgica della diocesi che si svolge intorno al Vescovo, principalmente nella chiesa cattedrale, convinti che c’è una speciale manifestazione della Chiesa nella partecipazione piena e attiva di tutto il popolo santo di Dio alle medesime celebrazioni liturgiche, soprattutto alla medesima Eucaristia, alla medesima preghiera, al medesimo altare cui presiede il Vescovo circondato dai suoi sacerdoti e ministri» (Sacrosanctum Concilium, n. 41).
Un testo che viene ripreso dal Cerimoniale, che aggiunge:
«Dunque le sacre celebrazioni presiedute dal Vescovo, manifestano il mistero della Chiesa a cui è presente Cristo; perciò non sono un semplice apparato di cerimonie … In tempi determinati e nei giorni piú importanti dell’anno liturgico si preveda questa piena manifestazione della Chiesa particolare a cui siano invitati il popolo proveniente dalle diverse parti della diocesi e, per quanto sarà possibile, i presbiteri» (nn. 12-13).
«La principale manifestazione della Chiesa locale si ha quando il Vescovo, come grande sacerdote del suo gregge, celebra l’Eucaristia soprattutto nella chiesa cattedrale, circondato dal suo presbiterio e dai ministri, con la partecipazione piena e attiva di tutto il popolo santo di Dio. – Questa Messa, chiamata stazionale, manifesta l’unità della Chiesa locale e la diversità dei ministeri attorno al Vescovo e alla sacra Eucaristia. – Quindi ad essa siano convocati quanti piú fedeli è possibile, i presbiteri concelebrino con il Vescovo, i diaconi prestino il loro servizio, gli accoliti e i lettori esercitino le loro funzioni» (n. 119).
«Questa forma di Messa sia osservata soprattutto nelle maggiori solennità dell’anno liturgico, quando il Vescovo confeziona il sacro crisma e nella Messa vespertina in Cena Domini, nelle celebrazioni del santo fondatore della Chiesa locale o del patrono della diocesi, nel giorno anniversario dell’ordinazione del Vescovo, nelle grandi assemblee del popolo cristiano, nella visita pastorale» (n. 120).
Nel comunicato con cui si informa della decisione di Papa Francesco, si aggiunge: «Com’è noto, la Messa della Cena del Signore è caratterizzata dall’annuncio del comandamento dell’amore e dal gesto della lavanda dei piedi» (21 marzo 2013). Anche in questo caso il Cerimoniale dei Vescovi appare piú completo e preciso:
«Con questa Messa dunque si fa memoria della istituzione dell’Eucaristia, o memoriale della Pasqua del Signore, con la quale si rende perennemente presente tra di noi, sotto i segni del sacramento, il sacrificio della nuova alleanza; si fa ugualmente memoria della istituzione del sacerdozio, con il quale si rende presente nel mondo la missione e il sacrificio di Cristo; infine si fa memoria dell’amore con cui il Signore ci ha amati fino alla morte. Il Vescovo si preoccupi di proporre opportunamente ai fedeli tutte queste verità mediante il ministero della parola, affinché possano penetrare piú profondamente con la loro pietà in cosí grandi misteri e possano viverli piú intensamente nella vita concreta» (n. 297).
La lavanda dei piedi è certamente un momento significativo della celebrazione del giovedí santo, ma sarebbe un errore considerarlo il suo elemento essenziale. Tanto è vero che non è un rito obbligatorio: esso viene compiuto solo «dove motivi pastorali lo consigliano» (n. 301). Purtroppo, negli ultimi anni, in diversi luoghi, esso è stato caricato di significati che esorbitano dal suo valore originario.
Qualcuno dirà che sto facendo di un’inezia una montagna; qualcuno mi accuserà di pignoleria, se non addirittura di rubricismo o di legalismo; qualcuno sicuramente scomoderà anche i farisei, che accusavano Gesú di non osservare la legge quando guariva di sabato; qualcuno dirà che voglio insegnare il mestiere al Papa. Ciascuno dica quel che vuole. Nessuno però può impedirmi di pensare che certe decisioni, apparentemente innocue, potrebbero avere conseguenze devastanti:
a) innanzi tutto, disattendendo le norme esistenti, anche quelle che potrebbero apparire secondarie, si rischia di mettere in discussione alcuni valori fondamentali, che il Concilio ha rimesso in luce e ha voluto che divenissero patrimonio comune della Chiesa;
b) in secondo luogo, potrebbe passare l’idea che le norme ci sono, sí, ma non è poi cosí importante rispettarle: se il Papa ritiene possibile trascurarle, significa che non sono poi cosí importanti; e se lo fa lui, perché non potrei fare io altrettanto?;
c) inoltre si potrebbe dare l’impressione che non esista alcuna norma oggettiva e stabile, valida per tutti e per sempre, ma che tutto dipenda esclusivamente dalla discrezionalità del responsabile di turno;
d) infine c’è il rischio che il relativismo, tanto osteggiato a parole nella società, diventi di fatto la norma suprema anche all’interno della Chiesa.