martedì 3 maggio 2016

Prendere sul serio la Croce di Cristo


di Marco Mancini 

La domenica di Pasqua Canale5 ha trasmesso in prima serata The Passion of the Christ, il discusso film di Mel Gibson sulla passione e la morte di Gesù: è necessario chiedersi il motivo per cui tale pellicola continua ancora a impressionare gli spettatori, come mi hanno confermato amici e conoscenti che ne hanno descritto la visione come sconvolgente, tale da far loro addirittura riconsiderare il proprio rapporto con la fede.

Cosa c’è di tanto speciale nel film di Gibson? La risposta è semplice: c’è una Passione raffigurata in tutta la sua crudeltà e la sua concreta “materialità”, di cui spesso tendiamo a dimenticarci o che, comunque, tendiamo a dare per scontata. Noi tutti, che abbiamo assorbito il cattolicesimo con il latte delle nostre madri, che siamo cattolici “sociologicamente” prima ancora che nella professione di fede, spesso non riusciamo ad avere fino in fondo la consapevolezza della vicenda storica della Passione e della Resurrezione di Nostro Signore Gesù Cristo, tanto siamo abituati a sentirne parlare fin da bambini quasi fosse una “favola” per l’infanzia, o un racconto mitologico.
“The Passion of the Christ” ha ricordato a molti, anche in maniera brutale, che dietro il mistero della nostra Redenzione c’è un Sacrificio che non rimane sulla carta, che non è frutto di elucubrazioni teologiche o oggetto di teorizzazioni filantropiche, ma che è fatto di carne e sangue. È San Giovanni, non a caso testimone della crocifissione, a ricordarci nella sua prima lettera che Cristo è venuto “non con acqua soltanto, ma con l’acqua e con il sangue” (1Gv 5,6). Senza l’esperienza della Croce, ha scritto Benedetto XVI, “quel che resta del cristianesimo è «acqua» - la parola senza la corporeità di Gesù perde la sua forza. Il cristianesimo diventa puro moralismo e questione di intelletto, ma gli mancano la carne e il sangue” (J. Ratzinger, Gesù di Nazaret, Rizzoli, 2007, p. 284).

Questo è lo scandaloso “materialismo” cristiano: bisognerebbe spiegarlo, ad esempio, al “filosofo” Galimberti, che dall’alto della sua abissale ignoranza ha accusato di incoerenza i cattolici che difendono la famiglia naturale e la natura procreativa del matrimonio, dal momento che – a suo giudizio – essi dovrebbero avere una visione “spirituale” e non “materialista”. Il Cristianesimo si distingue da tutte le altre fedi perché non è semplicemente una dottrina religiosa, o un insieme di precetti morali: esso è un fatto, che pretende di collocarsi all’interno della storia umana. Per citare il compianto Cardinale Giacomo Biffi, “il Cristianesimo è un fatto. E i fatti non si scelgono, i fatti sono”. L’atto di fede del cristiano, e del cattolico in particolare, si gioca anzitutto sulla credibilità storica di quanto raccontato dai Vangeli, dalla nascita di Gesù alla sua resurrezione.

La storicità del sacrificio salvifico di Cristo, del resto, non impedisce di coglierne la portata metafisica, cosmica e, per così dire, simbolica. René Guénon scriveva, nell’introduzione alla sua opera “Il simbolismo della croce”, che “si è troppo indotti a pensare che l'ammissione di un senso simbolico implichi l'esclusione del senso letterale o storico”: è senz’altro possibile sottoscrivere questa considerazione, facendo però i dovuti distinguo. Se per Guénon il fatto storico non è altro che il corrispondente simbolico, nell’ordine inferiore, di un principio superiore e metafisico, nell’ottica cattolica esso ne rappresenta invece la realizzazione, il pieno compimento. Non colgono dunque nel segno, risultando anzi risibili, tutti gli argomenti che vorrebbero ridurre i dogmi della fede cristiana a pallide imitazioni di altri culti ad essa precedenti o contemporanei, dalla religione egizia al mitraismo. Non c’è da stupirsi che elementi “archetipici” fondamentali della storia delle religioni (il problema dell’espiazione, la nascita verginale della figura messianica, il ciclo cosmico vita-morte-rinascita) ricorrano nell’epoca che precede la nascita di Cristo: ciò che conta è che tutto ciò trovi un compimento reale, concreto e storicamente documentato nella vicenda terrena del Dio incarnato in Gesù, che presenta peraltro notevoli elementi di originalità.

Si può dunque comprendere il fascino che il Cristianesimo nascente esercitò su una parte del mondo romano, da tempo ammaliato dalle suggestioni dei culti misterici orientali, fondati proprio sul ciclo vita-morte-rinascita e sulla “liberazione” offerta agli adepti dal rito iniziatico. A tale riguardo, è bene specificare che, con buona pace di una certa vulgata di stampo pauperistico, il Cristianesimo si diffuse anzitutto nelle classi agiate, tra l’aristocrazia di rango senatorio e anche negli ambienti della corte imperiale (vedi, tra le altre, l’opera di Marta Sordi “I cristiani e l’Impero Romano”). Cristo crocifisso, definito da San Paolo “scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani”, era pur tuttavia il Dio-uomo in cui quel ciclo cosmico aveva trovato la sua realizzazione, non solo simbolica ma concretissima. E ai suoi “adepti” era dato addirittura di cibarsi del suo Corpo e del suo Sangue, realmente presenti sotto le specie eucaristiche e offerti in sacrificio sulla Croce per la redenzione del genere umano.

Questo è, infatti, il significato principale della Passione di Cristo. L’umanità ha da sempre riconosciuto la necessità di purificarsi dal male, di espiare i propri peccati e reintegrare il mondo nella sua purezza originaria. Nella storia delle religioni è stato tradizionalmente utilizzato lo strumento del “sacrificio vicario”: animale, persino umano. Nell’Ebraismo antico, ad esempio, nel giorno dello Yom Kippur il coperchio dell’Arca dell’Alleanza veniva asperso con il sangue di un giovenco immolato in sacrificio di espiazione. Secondo le parole di Joseph Raztinger, “l’idea di fondo è che il sangue del sacrificio, nel quale sono stati assorbiti tutti i peccati degli uomini, toccando la divinità stessa viene purificato e così, mediante il contatto con Dio, anche gli uomini rappresentati da questo sangue vengono resi mondi”. Si tratta di un pensiero, prosegue Ratzinger, “che nella sua grandezza e, insieme, nella sua insufficienza è commovente, un pensiero che non poteva rimanere l’ultima parola della storia delle religioni”.
 
L’ultima parola, infatti, è Cristo, che pone termine all’età dei sacrifici trasformando se stesso in sacrificio unico e definitivo di espiazione, “per mezzo della fede, nel suo sangue, a manifestazione della sua giustizia per la remissione dei peccati” (Rm, 3,25), secondo quanto predetto da Isaia attraverso la figura del “servo sofferente” (Is 53). Egli è l’Agnello di Dio, che prende su di sé (tollit) i peccati del mondo e si immola per la redenzione di tutto il genere umano. “In Lui Dio e uomo, Dio e il mondo sono in contatto. In Lui si realizza ciò che il rito del giorno dell’Espiazione intendeva esprimere: nella donazione di sé sulla croce, Gesù depone, per così dire, tutto il peccato del mondo nell’amore di Dio e lo scioglie in esso. Accostarsi alla croce, entrare in comunione con Cristo significa entrare nell’ambito della trasformazione e dell’espiazione”.

Quanti di noi percepiscono fino in fondo questo grande mistero? Quanti intendono realmente che nella Santa Messa l’unico sacrificio di Cristo si rinnova in maniera incruenta? Quanti hanno la consapevolezza di trovarsi sotto il Calvario, ogni volta che assistono alla consacrazione delle specie eucaristiche? Più semplicemente, quanti pensano davvero alla Croce di Cristo come a un evento storico che ci interpella qui ed ora e non può lasciarci indifferenti, e non a uno dei tanti simboli religiosi da ostentare o nascondere a seconda delle circostanze? Ben venga, allora, la Passione di Mel Gibson, se serve a scuotere le nostre coscienze e a darci la consapevolezza che, come recita l’Apocalisse e come il Crocifisso del regista australiano confida alla Madre lungo la sua ascesa al Golgota, Egli ha fatto nuove tutte le cose.
 

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