BENEDETTO XVI "SONO LA FINE
DEL VECCHIO E L'INIZIO DEL NUOVO"
L'11 maggio 2010 Benedetto XVI si recava in Portogallo e, sull'aereo per Lisbona, rilasciava un'intervista importantissima di cui riportiamo solo una parte: "Quanto alle novità che possiamo oggi scoprire in questo messaggio, vi è anche il fatto che non solo da fuori vengono attacchi al Papa e alla Chiesa, ma le sofferenze della Chiesa vengono proprio dall'interno della Chiesa, dal peccato che esiste nella Chiesa. Anche questo si è sempre saputo, ma oggi lo vediamo in modo realmente terrificante: che la più grande persecuzione della Chiesa non viene dai nemici fuori, ma nasce dal peccato nella Chiesa e che la Chiesa quindi ha profondo bisogno di ri-imparare la penitenza, di accettare la purificazione, di imparare da una parte il perdono, ma anche la necessità della giustizia. Il perdono non sostituisce la giustizia".
Profondo, profetico...troppo spesso inascoltato all'interno della chiesa stessa!
Profondo, profetico...troppo spesso inascoltato all'interno della chiesa stessa!
Il nostro
ultimo incontro risale a ben dieci settimane prima della storica rinuncia. Il
Papa mi aveva accolto nel Palazzo Apostolico per proseguire i nostri colloqui
finalizzati al lavoro sulla sua biografia. L’udito era calato; l’occhio
sinistro non vedeva più; il corpo smagrito, tanto che i sarti facevano fatica a
tenere il passo con nuovi abiti. È diventato molto delicato, ancora più amabile
e umile, del tutto riservato. Non appare malato, ma la stanchezza che si era
impossessata di tutta la sua persona, corpo e anima, non si poteva più
ignorare.
Abbiamo parlato di quando ha disertato dall’esercito di Hitler;
del suo rapporto con i genitori; dei dischi su cui imparava le lingue; degli
anni fondamentali sul «Mons doctus», il monte dei dotti di Freising dove da
1.000 anni l’élite spirituale del Paese viene introdotta ai misteri della fede.
Qui aveva tenuto le sue primissime prediche davanti a un pubblico di scolari,
da parroco aveva assistito gli studenti e nel freddo confessionale del Duomo
aveva dato ascolto alle pene della gente. Ad agosto, durante un colloquio a
Castel Gandolfo, durato un’ora e mezzo, gli avevo chiesto quanto lo avesse
colpito l’affare Vatileaks. «Non mi lascio andare a una sorta di disperazione o
di dolore universale – mi ha risposto – semplicemente mi appare
incomprensibile. Anche considerando la persona (Paolo Gabriele, ndr ), non
capisco cosa ci si possa aspettare. Non riesco a penetrare la sua psicologia».
Sosteneva tuttavia che l’evento non gli aveva fatto perdere la bussola né gli
aveva fatto sentire la stanchezza del suo ruolo, «perché può sempre accadere».
L’importante per lui era che nell’elaborazione del caso «in Vaticano sia
garantita l’indipendenza della giustizia, che il monarca non dica: adesso me ne
occupo io!».
Mai lo avevo visto così esausto, così prostrato. Con le ultime
forze rimaste aveva portato a termine il terzo volume della sua opera su Gesù,
«il mio ultimo libro», come mi ha detto con sguardo triste al momento dei
saluti. Joseph Ratzinger è un uomo incrollabile, una persona capace sempre di
riprendersi rapidamente. Mentre due anni addietro, malgrado i primi disturbi
dell’età, appariva ancora agile, quasi giovanile, ora percepiva ogni nuovo
raccoglitore che approdava sulla sua scrivania da parte della Segreteria di
Stato come un colpo.
«Cosa ci si deve ancora aspettare da Sua Santità, dal Suo pontificato?»,
gli ho chiesto. «Da me? Da me non molto. Sono un uomo anziano e le forze mi
abbandonano. Penso che basti ciò che ho fatto». Pensa di ritirarsi? «Dipende da
cosa mi imporranno le mie energie fisiche». Lo stesso mese ha scritto a uno dei
suoi dottorandi che il successivo incontro sarebbe stato l’ultimo. Pioveva a
Roma, nel novembre del 1992, quando ci incontrammo per la prima volta nel
Palazzo della Congregazione per la dottrina della fede. La stretta di mano non
era di quelle che ti spezzano le dita, la voce piuttosto insolita per un
«panzerkardinal», mite, delicata. Mi piaceva come parlava delle questioni
piccole, e soprattutto delle grandi; quando metteva in discussione il nostro
concetto di progresso e chiedeva di riflettere se davvero si potesse misurare
la felicità dell’uomo in base al prodotto interno lordo.
Gli anni lo avevano messo a dura prova. Veniva descritto come un
persecutore mentre era un perseguitato, il capro espiatorio da chiamare in
causa per ogni ingiustizia, il «grande inquisitore» per antonomasia, una
definizione azzeccata quanto spacciare un gatto per un orso. Eppure nessuno
l’ha mai sentito lamentarsi. Nessuno ha sentito uscire dalla sua bocca una
cattiva parola, un commento negativo su altre persone, nemmeno su Hans Küng. Quattro
anni dopo abbiamo trascorso insieme molte giornate, per parlare del progetto di
un libro sulla fede, la Chiesa, il celibato e l’insonnia. Il mio interlocutore
non camminava in giro per la stanza, come fanno abitualmente i professori. Non
c’era in lui la minima traccia di vanità, né di presunzione. Mi colpivano la
sua superiorità, il pensiero non al passo coi tempi ed ero in qualche modo
sorpreso di udire risposte pertinenti ai problemi del nostro tempo,
apparentemente quasi irrisolvibili, tratte dal grande tesoro di rivelazione,
dall’ispirazione dei padri della Chiesa e dalle riflessioni di quel guardiano
della fede che mi sedeva di fronte. Un pensatore radicale – questa era la mia
impressione – e un credente radicale che tuttavia nella radicalità della sua
fede non afferra la spada, ma un’altra arma molto più potente: la forza
dell’umiltà, della semplicità e dell’amore.
Joseph Ratzinger è l’uomo dei paradossi. Linguaggio sommesso,
voce forte. Mitezza e rigore. Pensa in grande eppure presta attenzione al
dettaglio. Incarna una nuova intelligenza nel riconoscere e rivelare i misteri
della fede, è un teologo, ma difende la fede del popolo contro la religione dei
professori, fredda come la cenere.
Così come egli stesso è equilibrato, così insegnava; con la
leggerezza che gli era propria, con la sua eleganza, la sua capacità di
penetrazione che rende leggero ciò che è serio, senza privarlo del mistero e
senza banalizzare la sacralità. Un pensatore che prega, per il quale i misteri
di Cristo rappresentano la realtà determinante della creazione e della storia
del mondo, un amante dell’uomo che alla domanda, quante strade portino a Dio,
non ha dovuto riflettere a lungo per rispondere: «Tante quanti sono gli
uomini».
È il piccolo Papa che con la matita ha scritto grandi opere.
Nessuno prima di lui, il massimo teologo tedesco di tutti i tempi, ha lasciato
al popolo di Dio durante il suo Pontificato un’opera altrettanto imponente su
Gesù né ha redatto una cristologia. I critici sostengono che la sua elezione sia
stata una scelta sbagliata. La verità è che non c’era un’altra scelta.
Ratzinger non ha mai cercato il potere. Si è sottratto al gioco degli intrighi
in Vaticano. Conduceva da sempre la vita modesta di un monaco, il lusso gli era
estraneo e un ambiente con un comfort superiore allo stretto necessario gli era
completamente indifferente.
Ma restiamo alle presunte piccole cose, spesso molto più
eloquenti delle grandi dichiarazioni, dei congressi e dei programmi. Mi piaceva
il suo stile pontificale; che il suo primo atto sia stata una lettera alla
Comunità ebraica; che abbia tolto la tiara dallo stemma, simbolo anche del
potere terreno della Chiesa; che ai sinodi vescovili chiedesse di parlare anche
agli ospiti di altre religioni – anche questa una novità.
Con Benedetto XVI per la prima volta l’uomo al vertice ha preso
parte al dibattito, senza parlare dall’alto verso il basso, bensì introducendo
quella collegialità per la quale si era battuto nel Concilio. Correggetemi,
diceva, quando presentava il suo libro su Gesù che non voleva annunciare come
un dogma o apporvi il sigillo della massima autorità. L’abolizione del
baciamano è stata la più difficile da attuare. Una volta ha preso per un
braccio un ex studente che si inchinava per baciare l’anello, dicendogli:
«Comportiamoci normalmente». Tante prime volte. Per la prima volta un Papa
visita una sinagoga tedesca (e successivamente più sinagoghe nel mondo di tutti
i papi prima di lui messi assieme). Per la prima volta un Papa visita il
monastero di Martin Lutero, un atto storico senza eguali.
Ratzinger è un uomo della tradizione, si affida volentieri a ciò
che è consolidato, ma sa distinguere quello che è davvero eterno da quello che
è valido solo per l’epoca da cui è emerso. E se necessario, come nel caso della
messa tridentina, aggiunge il vecchio al nuovo, poiché insieme non riducono lo
spazio liturgico, bensì lo ampliano.
Non ha fatto tutto giusto, ma ha ammesso gli errori, anche
quelli (come lo scandalo Williamson) di cui non aveva alcuna responsabilità. Di
nessun fallimento ha sofferto di più che di quello dei suoi preti, anche se da
prefetto aveva già avviato tutte le misure che consentivano di scoprire i
terribili abusi e punire i colpevoli. Benedetto XVI se ne va, ma la sua eredità
resta. Il successore di questo umilissimo Papa dell’era moderna seguirà le sue
orme. Sarà uno con un altro carisma, un proprio stile, ma con la stessa
missione: non incentivare le forze centrifughe, ma coloro che tengono insieme
il patrimonio della fede, che restano coraggiosi, annunciano un messaggio e
fanno una testimonianza autentica.
Non è un caso che il Papa uscente abbia scelto il Mercoledì
delle Ceneri per la sua ultima grande liturgia. Vedete, vuole dimostrare, era
qui che vi volevo portare fin dall’inizio, questa è la via. Disintossicatevi,
rasserenatevi, liberatevi dalla zavorra, non fatevi divorare dallo spirito del
tempo, non perdete tempo, desecolarizzatevi! Dimagrire per aumentare di peso è
il programma della Chiesa del futuro. Privarsi del grasso per guadagnare
vitalità, freschezza spirituale, non da ultimo ispirazione e fascino. E
bellezza, attrattiva, in fondo anche forza, per far fronte a un compito
diventato tanto difficile. «Convertitevi», così disse con le parole della
Bibbia quando segnò la fronte di cardinali e abati con la cenere, «e credete al
Vangelo».«Lei è la fine del vecchio – chiesi al Papa nel nostro ultimo incontro
– o l’inizio del nuovo?». La sua risposta fu: «Entrambi».
Peter Seewald
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