Fuori dal matrimonio
di Gennaro Rossi
“Vado a rifarmi una vita”. “Mi rimetto in discussione”. “Raggiungo la felicità che tu non mi hai dato”. Tutto molto bello, se vogliamo legittimo, ma sappiamo quali sono le strade lastricate dalle buone intenzioni. I proclami scontano quasi sempre il contrappasso della realtà. Perché magari non si può dire, magari non sta bene dirlo, ma va detto e va fatto a maggior ragione proprio siamo una società ipocrita ed emotiva, quindi dissociata dalla verità non intesa in senso dogmatico ma come sguardo oggettivo sulla realtà: fuori dal matrimonio c’è la miseria. Guardatevi attorno, fatelo con sguardo laico: separati e divorziati fuori dal matrimonio quasi mai combinano niente che abbia il fiato lungo di una relazione degna di questo nome e quasi sempre si riducono a saltare di emozione in emozione collezionano fallimenti su fallimenti. Dice: parli da cattolico. Sbagliato: parlo da peccatore. Non è questa l’opinione di un prete visto che anch’io ho bisogno del prete.
La prospettiva non è quella della condanna del peccato altrui proprio perché sono un peccatore affaticato dai suoi di peccati, tra cui quello di aver trafficato enne volte con persone sposate o già state impegnate in modo solenne, a volte assecondando la reciproca voglia di evasione diventando entrambi oggetto del piacere egoistico dell’altro per sublimare l’urgenza del momento, a volte sforzandomi di costruire relazioni perché a volte al cuor non si comanda.
Col tempo e osservandomi mi sono convinto che chi ha sperimentato sulla propria pelle un fallimento fa precipitare l’altro, più o meno suo malgrado, nei vortice dei suoi fallimenti del passato. Chi si è scottato, è obtorto collo meno portato a donare e se si vuole giustamente, visto che il matrimonio resta un momento capitale della vita di un essere umano che produce riverberi anche quando finisce. Senza il dono di sé all’altro, quell’afflato all’appartenenza che Agostino ben rappresentò ne Le Confessioni con “Che cos’è così tuo come te stesso? Ma che cosa è meno tuo di te stesso, se ciò che tu sei appartiene a un altro?” che rende il rapporto affettivo anche doloroso perché accettando la possibilità del dolore lo si rende più vero, resta l’opportunismo delle emozioni, quindi la cosa più mutevole e precarie che ci siano.
Fuori dal matrimonio non c’è la “libertà” ma irresolutezza spesso irresponsabile, e la vita che qualcuno pensa di “andarsi a rifare”, alla prova dei fatti, è basso cabotaggio, è miseria del tramestio emotivo che porta a fare tante esperienze che finiscono tutte allo stesso modo. Cioè male. Abbiamo delle aspettative – il desiderio di ognuno di noi resta quello di amare ed essere amati nella verità del sentimento dell’altro – che mettiamo nelle mani di uno strumento sbagliato chiamato emozioni. Che servono ad altro non a costruire un rapporto.
Accorciare i tempi del divorzio si iscrive a questa vulgata emotiva. E’ indubbiamente un vantaggio burocratico ridurre da tre a uno gli anni per ottenere una sentenza di divorzio dal momento in cui i coniugi sono comparsi innanzi al presidente del tribunale (ridotti a 6 mesi nel caso di separazione consensuale) ma è anche un grande inganno coerente alla vulgata di chi vuole banalizzare il matrimonio (e le conseguenze sulla vita affettiva delle persone che la sua fine determina) e destrutturarne la portata, liberando l’uomo dai legami. Se è sempre più facile divorziare saranno sempre più futili i motivi che giustificano il divorzio. Meno ponderati, più emotivi. Del resto, sul piano comparatistico tra le diverse legislazioni nazionali, esiste un legame fra i divorzi maggiormente veloci e un numero maggiore divorzi, a cui, volendo, dissociandoci dalla realtà, ovviamente si può dare un’incidenza minima. Ma così è. Non andava detto? Ormai l’ho detto.
fonte: laversionedirossi
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