9 settembre
b. Federico Ozanam
La carità, non la filantropia. Federico Ozanam, professore di speranza cristiana alla Sorbona
Cos’è per lui la carità? Egli la distingue da una semplice filantropia: «La carità non deve mai guardare dietro di sé, ma sempre davanti, perché il numero delle suo beneficenze passate è sempre troppo piccolo e perché infinite sono le miserie presenti e future che deve lenire. Guardate le associazioni filantropiche: non sono che assemblee, relazioni, rendiconti, memorie; a meno d’un anno d’esistenza posseggono già grossi volumi di verbali. La filantropia è un’orgogliosa per cui le buone azioni sono una specie d’ornamento e che si compiace di guardarsi nello specchio. La carità è una tenera madre che tiene gli occhi fissi sul bimbo che porta alla mammella, e non pensa più a se stessa e dimentica la sua bellezza per il suo amore».
di Daniele Premoli
Già prima dei continui appelli di papa Francesco a «toccare la carne di Cristo» e a uscire dalle chiese, da alcuni visti come una colossale novità nella bimillenaria storia della Chiesa; ebbene, già prima di questi, alcuni figli obbedienti della Chiesa hanno preso sul serio l’esercizio della carità. La Chiesa è piena di tali esempi, e qui vorrei presentare una di queste figure, sconosciuta ai più: il Beato Federico Ozanam, fondatore delle Conferenze di san Vincenzo de Paoli. Ben più noto è certamente un “figlio spirituale” del Beato Ozanam, membro della Conferenza di San Vincenzo a Torino: il (beato anch’egli) Piergiorgio Frassati!
1 Apologetica e carità: gemelle siamesi legate dal cuore
Federico Ozanam nacque a Milano il 23 aprile 1813 da Jean Antoine, medico ed ex-ufficiale dell’esercito napoleonico, e da Maria Nantas, figlia di un commerciante lionese. È nella famiglia che Federico apprenderà a servire Dio mediante la carità ai più poveri: la madre organizzerà a Lione una “Societé des Veilleuses”, per sostenere le ragazze in difficoltà, operaie, vedove, inferme. Il padre, invece, che era medico, visita i poveri nelle loro soffitte; e fu proprio lì che, nel maggio 1837, verrà trovato morto.
Nel 1831, dopo la maturità classica, Federico parte per Parigi: frequenterà il corso di Diritto alla Sorbona, per obbedire al padre che lo vorrebbe avvocato. La sua passione tuttavia è quella letteraria, tanto che è conservata una lunga lettera scritta ad un cugino in sette lingue (latino, greco, francese, tedesco e spagnolo, italiano ed ebraico). Nel 1839 è dottore in Diritto e – per assecondare la sua passione – in lettere.
Il soggiorno a Parigi, tuttavia, sarà per lui una grande “croce”: «Quanto a me, potrei stare meglio? Una bella camera, una buona tavola, una piacevole società, delle conversazioni quasi sempre istruttive e spesso divertenti con il mio ospite… Ebbene, mi credi felice? Oh no, non lo sono poiché si è creata in me una solitudine immensa, un grande malessere. Separato da coloro che amavo non posso mettere radici su questo suolo straniero. E Parigi mi disgusta perché non vi è vita, fede, amore, dove la freddezza mi gela e la corruzione mi uccide». La Francia del tempo, infatti, è ancora intrisa degli ideali della rivoluzione francese: ideali laicisti e anticlericali. Un professore universitario, Emmanuel Bailly, per rispondere alle sfide degli anticlericali, decide di riunire intorno a sé alcuni studenti cattolici per discutere argomenti di storia, di diritto, di letteratura, di filosofia: sono le conferenze di storia. In esse, Federico diventa leader indiscusso… Ma accade un imprevisto.
Una sera, alcuni studenti atei attaccano quelli cattolici. Ascoltiamo la stessa descrizione di Federico: «”Voi che vi vantate di essere cattolici, cosa fate concretamente? Dove sono le opere che dimostrano la vostra fede e che possono farla da noi accettare e rispettare?”. Essi avevano ragione. In verità noi pensammo che in questo rimprovero vi fosse purtroppo del vero, perché non facevamo nulla. Fu allora che noi dicemmo a noi stessi: ebbene, all’opera! E che le nostre azioni siano in accordo con la nostra fede. Ma cosa fare? Che cosa fare per essere veramente cattolici, se non fare quello che più piace Dio? Soccorriamo dunque il nostro prossimo come faceva Gesù Cristo, e mettiamo la nostra fede sotto la protezione della carità».
2 Due estranee: carità e filantropia
In quegli anni, operava a Parigi una suora,della congregazione delle Figlie della Carità fondate da San Vincenzo dei Paoli. Suor Rosalie – questo era il suo nome – era diventata a 29 anni superiora del convento di Parigi, dove aveva fondato un dispensario, una scuola, una farmacia, un asilo nido, una casa di assistenza per le giovani operaie. Ma soprattutto visitava e faceva visitare dai suoi figli spirituali i poveri, lì dove essi abitavano. Al suo seguito, Federico e alcuni suoi compagni iniziarono le visite ai poveri. Il 23 aprile 1833, con altri cinque amici, fondò la Conferenza della carità, che volle intitolare a San Vincenzo de Paoli. Scrive: «Bisognava formare un’associazione di mutuo incoraggiamento per i giovani cattolici, dove si trovasse amicizia, sostegno, esempi. Ora il legame più forte, il principio di una vera amicizia, era carità e la carità non può esistere senza spandersi all’esterno; è un fuoco che si spegne in mancanza di elementi e l’alimento della carità sono le opere buone. Se noi ci diamo appuntamento sotto il tetto di poveri, serve più a noi che a loro, per diventare migliori e più amici».
Cos’è per lui la carità? Egli la distingue da una semplice filantropia: in una lettera a Léonce Curnier, del 23 febbraio 1835, dice: «La carità non deve mai guardare dietro di sé, ma sempre davanti, perché il numero delle suo beneficenze passate è sempre troppo piccolo e perché infinite sono le miserie presenti e future che deve lenire. Guardate le associazioni filantropiche: non sono che assemblee, relazioni, rendiconti, memorie; a meno d’un anno d’esistenza posseggono già grossi volumi di verbali. La filantropia è un’orgogliosa per cui le buone azioni sono una specie d’ornamento e che si compiace di guardarsi nello specchio. La carità è una tenera madre che tiene gli occhi fissi sul bimbo che porta alla mammella, e non pensa più a se stessa e dimentica la sua bellezza per il suo amore».
E, in un altro passo: «La sapienza della Chiesa e la sincerità del suo amore per i poveri risplendono precisamente nel fatto che essa conosce troppo l’estensione dei loro mali ed è troppo compenetrata dei loro dolori per credere di riuscir mai a mettervi fine. Ecco perché riabilita una condizione che non spera di sopprimere, ecco perché circonda la povertà col rispetto della terra e le promesse del cielo».
3 Una vita per i ricchi
Ma l’apostolato di Federico non si indirizzavaesclusivamente ai poveri. Lo abbiamo lasciato laureato in diritto e lettere; lo ritroviamo ora, a pochi mesi dalla laurea, docente di diritto commerciale all’università di Lione. Il 9 ottobre 1840 è nominato professore di letteratura straniera alla Sorbona, incarico che manterrà sino alla primavera del 1852. Le sue lezioni, seguitissime, vengono così descritte: «quelli che non hanno udito l’Ozanam professore, non conoscono ciò che vi è di personale nel suo ingegno. Preparazioni laboriose, ostinate ricerche nei testi, erudizione accumulata con grandi sforzi, e poi uno splendido improvvisatore, una parola affascinante e colorita, tale e quale era suo insegnamento. Preparava le sue lezioni come un benedettino e le pronunziava come un oratore: una doppia fatica nella quale si logorò la sua ardente costituzione che finì per spezzarsi». Così dirà nella sua ultima lezione: «È proprio sulla cattedra che logoriamo la nostra salute e consumiamo le nostre energie. Io non mi rammarico di ciò perché la nostra vita vi appartiene, noi ve la dedichiamo fino all’ultimo respiro e ve la stiamo donando. Quanto a me, signori, se muoio io sarò contento di farlo vostro servizio».
Tentiamo di capire perché Federico tenga tanto all’insegnamento. Egli intende annunciare gli ideali cristiani ai suoi studenti. Nel suo ultimo discorso, citato prima, afferma: «Non so se ci ritroveremo un altro anno. Ma quale che sia la durata del mio insegnamento, delle mie forze, della mia vita, non avrò perduto il mio tempo se vi avrò fatto credere al progresso attraverso il cristianesimo; se in tempi difficili, avrò saputo rianimare nelle vostre giovani anime la speranza, che non è soltanto l’ispiratrice del bello, ma il principio del bene, che non ci fa soltanto produrre belle opere, ma compiere grandi doveri. Necessaria all’artista per guidare la sua penna o i suoi pennelli, la speranza non lo è meno al giovane padre che fonda una famiglia o al lavoratore che getta il suo grano nel solco, per la celeste parola di colui che ha ordinato: Seminate!».
Svolge così un vero apostolato culturale, articolato sia nella ricerca scientifica e nella docenza universitaria che nella educazione alla gioventù: «La verità non ha bisogno di me, ma io di lei. La causa della scienza cristiana e la causa della fede, è quello in cui credo nel profondo del mio cuore; e in qualunque umile modo l’avrò saputo servire, avrò impegnato degnamente gli anni che mi sono concessi sulla terra». Per lui, la verità coincide con la fede cattolica. La cattedra universitaria diveniva così un pulpito di apologia della fede ed esempio pratico di carità.
«Voi avete dei discepoli ricchi. Quale utile lezione per fortificare i cuori immobili, quale benefico spettacolo per mostrare loro dei poveri, mostrare loro nostro Signore Gesù Cristo non solo in immagini dipinte dai più insigni maestri, o su altari risplendenti d’oro e di luce; ma mostrar loro Gesù Cristo e le sue piaghe nelle persone dei poveri! Spesso abbiamo parlato della debolezza, della frivolezza, della nullità di uomini anche cristiani nella nobiltà di Francia e Italia. Ma io sono certo che sono così perché una cosa è mancato nella loro educazione: una cosa che loro non si è affatto insegnata, una cosa che essi conoscono soltanto di nome e che occorre aver visto soffrire dagli altri per imparare a soffrirla quando presto o tardi verrà. Questi giovani signori devono sapere che cos’è la fame, la sete, un granaio spoglio. Bisogna che essi vedano dei miserabili, dei genitori malati, dei bimbi piangenti. Bisogna che li vedano e li amino. Tale vista risveglierà qualche palpito nel loro cuore, altrimenti questa generazione è perduta».
4 Politica: potenza dell’oro, potenza della disperazione
Il 1848, in tutta Europa è l’anno delle rivolte. È anche l’anno che ci mostra il Federico politico. Un politico dichiaratamente cattolico. A febbraio fonda con altri intellettuali cattolici un giornale intitolato L’Ere Nuovelle, per «introdurre lo spirito cristiano nelle istituzioni repubblicane». In un articolo scritto a settembre, Federico indirizza alla gente dabbene queste parole: «si è detto alle persone dabbene che erano state loro a salvare la Francia: avete cancellato la rivolta, ma rimane un nemico che non conoscete abbastanza, del quale non vi piace sentir parlare e del quale ci siamo decisi a parlar di oggi: la miseria».
Si rivolge al clero: «Voi vi accogliete caritatevolmente l’indigente che bussa alla vostra porta; ma è venuto il tempo di occuparsi di più di quegli altri poveri che non mendicano, che vivono ordinatamente del loro lavoro e ai quali non si assicurerà mai il diritto al lavoro ed il diritto all’assistenza». Ai ricchi, agli industriali e ai banchieri: «riaprite le fonti di quel credito di cui accusate l’esaurimento. Fate l’elemosina del lavoro e fate anche quella dell’assistenza». Ai politici: «non pensate di aver fatto abbastanza avendo votato dei sussidi che finiscono per esaurirsi, avendo regolamentato le ore di lavoro, quando il lavoro è ancora soltanto un sogno».
Scrive al fratello: «dietro la questione della Repubblica che interessa a pochi, se non alle persone colte, ci sono le questioni che interessano il popolo, e per le quali si è armato: le questioni dell’organizzazione del lavoro, del riposo, del salario. Non bisogna credere che si possa sfuggire a questi problemi. Se pensiamo che soddisferemo il popolo dandogli delle assemblee primarie, dei consigli legislativi, dei nuovi magistrati, dei consoli, un presidente, ci sbagliamo di grosso. E fra 10 anni, e forse anche prima, ci sarà da ricominciare». Anni prima aveva esposto lo stesso pensiero: «La questione che divide gli uomini dei nostri giorni, non è una questione di forme politiche, è una questione sociale: si tratta di sapere chi avrà la meglio, se lo spirito di egoismo o lo spirito di sacrificio; se la società non sarà altro che un grande sfruttamento a profitto dei più forti o la consacrazione di ciascuno al bene di tutti. Si sta preparando una lotta e questa lotta minaccia di essere terribile: da una parte la potenza dell’oro, dall’altra la potenza della disperazione. Tra questi due eserciti nemici dobbiamo precipitarci noi, se non per impedire, almeno per attenuare lo scontro».
Nell’aprile 1848, pressato dei suoi concittadini lionesi, e Federico tenta l’impegno politico e si candida per l’assemblea nazionale. Il suo è un grande programma di riforme: sostegno ai diritti del lavoro, misure per la disoccupazione, salario minimo, promozione delle associazioni tra operai imprenditori, sistema di imposte progressivo, impulso ai lavori di pubblica utilità, libertà di parola, d’insegnamento, di culto. Ma il suo è un programma troppo audace e non viene eletto, pur ottenendo 15.000 voti.
5 Finire di pregare e di vivere
Tutto questo, tuttavia, non fece bene alla salute di Federico. Dal 1850 la sua vita è un viaggio continuo tra Parigi e i luoghi con un clima più mite, come la sua amata Italia. A conclusione di questa presentazione vorrei sottolineare la grande vita di fede di Federico. Lo animava un grande amore per l’Eucarestia, per la Liturgia, per la Chiesa. Sua moglie ci assicura di non averlo mai visto svegliarsi o addormentarsi senza pregare. Pregava in ginocchio prima di andare a tenere le sue lezioni. Consacrava ogni giorno mezz’ora alla meditazione. Assisteva alla messa durante la settimana il più spesso possibile e, negli ultimi anni della sua vita, tutti i giorni. Egli viveva senza interruzione alla presenza di Dio. Il giorno dei suoi quarant’anni, il 23 aprile 1853, egli scrive il suo testamento: «rimetto la mia anima a Gesù Cristo, mio Salvatore, spaventato dai miei peccati, ma fiduciosa nella divina misericordia. Ho conosciuto i dubbi del secolo presente, ma tutta la mia vita mi ha convinto che non c’è riposo per lo spirito e il cuore se non nella fede della Chiesa e sotto la sua autorità. Se assegno qualche valore ai miei lunghi studi, è perché mi permettono di supplicare quelli che amo a restare fedeli a una fede nella quale ha trovato la luce e la pace».
In una lettera scritta al suo medico, così afferma: «so che il mio male è grave, ma non disperato, che ci vorrà molto tempo per guarire e che posso anche non guarire, ma mi sforzo di abbandonarmi con amore alla volontà di Dio e dico, sfortunatamente più con le labbra che col cuore: voglio quello che tu vuoi, voglio come tu vuoi, voglio per il tempo che tu vuoi, voglio perché tu vuoi» Di lì a pochi mesi, Federico morirà: è l’8 settembre 1853.
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