Il
custode dei doni. Riflessione di Alessandro Gnocchi sull'utilità e sul danno
del cattolico tradizionalista
Pubblichiamo la riflessione di Alessandro Gnocchi, apparsa nel quotidiano il Foglio, sulla condizione del cattolico tradizionalista "in tempi di macerie e bastonate" e sul "virus tremendo" dell'"ipertrofia della cervice", comunque la si metta.
Parliamo del tradizionalista, un po’ come sett’anni fa Leo Longanesi diceva “Parliamo dell’elefante”. I vizi intellettuali non sono mutati e l’Italia a cavallo tra fascismo e antifascismo, che era comunque un po’ cattolica, apostolica e romana, assomiglia tremendamente alla chiesa di oggi, che è comunque sempre un po’ italiana. Allora, Longanesi metteva alla gogna i tic e le ipocrisie di una classe intellettuale che preferiva esibirsi in esotiche disquisizioni, amava “parlare dell’elefante” invece che dello sfacelo in cui era vittima e carnefice. Allo stesso modo, nella Chiesa d’oggi, fanno bella mostra coloro che preferiscono “parlare del tradizionalista” invece che prendere atto dell’allegro clima autodemolizione in cui, come usa dire, cantano e portano la croce.
Si fa presto a dire
“tradizionalista” con la stessa levità del Duclos longanesiano. “Signori,
parliamo dell’elefante” diceva l’ineffabile signore “è la sola bestia di una
certa importanza di cui si possa parlare, in questi tempi, senza pericolo”. Ma
il tradizionalista, a conoscerlo davvero, non è una bestia di cui si possa
parlare ricorrendo ai servigi della banalità. Non è quello vituperato nei
sermoni e nei tischreden dei prelati, non è quello degli imbonitori di
rassegne stampa a onde medie, non è quello dei cultori di sociologia appesi
all’attimo fuggente di un magistero in perenne evoluzione, non è quello dei
vescovi che emanano poveri decreti di scomunica contro i fedeli che osano
frequentare la buona Messa di una volta. Non è tutto questo e non è tanto altro
ancora.
Il tradizionalista non è ciò che
sembra. E’ misteriosa e inalienabile intimità con ciò che non ha più, è riparo
per i legami tra cielo e terra ai tempi dell’oblìo decretato dalle voglie
mondane penetrate nel tempio: è la sua stessa povertà, la sua stessa solitudine
che si fanno luogo della carne e dell’anima dove è possibile incontrare
grandezza o miseria, salvezza o perdizione. Lo scoglio su cui può salvarsi o
fare naufragio è l’evangelico vivere nel mondo senza essere del mondo. La
tentazione di ritirarsi altrove salvando una purezza terrena che non esiste è
una sirena tremenda e vince con una troppa facilità. Così certi tradizionalisti
preferiscono vivere in un mondo in bianco e nero quando il persino il colore è
quasi passato di moda. Finiscono per coltivare un giardino nel quale gli altri,
i moderni, non possono neanche guardare e, se anche lo facessero, non
potrebbero godere dei tesori che vi crescono. Lo sdegno per una suor Cristina
che imita Madonna, la cantante, dice poco o nulla se non si comprende dove e
come nasce il fenomeno. Vivere nel mondo significa correre il rischio del
contagio sapendo che l’antidoto sta nel non appartenergli. O si è contemporanei
del proprio tempo pur combattendolo, o si diventa guardiani di un museo in cui
il passato cessa di vivere e di essere tradizione poiché gli si sottrae il
cuore.
Il destino del tradizionalista è in
bilico come quello delle chiese che Proust proteggeva dalla rapacità
laica dello stato in un articolo che il 16 agosto 1904 il “Figaro” titolava “La
morte delle cattedrali”: “Ebbene, meglio devastare una chiesa che dissacrarla.
Finché vi si celebra la Messa, per mutilata che sia essa conserva ancora la sua
vita. Dal giorno in cui viene dissacrata è morta, e se anche sia protetta come
monumento storico di celebrazioni scandalose, non è più che un museo. (...)
Quando il sacrificio della carne e del sangue del Cristo, il sacrificio della
Messa, non sarà più celebrato nelle chiese, non vi sarà in esse più vita”.
D’altra parte, bisogna riconoscere
che la sirena di ritrarsi altrove è tanto più ammaliante in quanto ora è la
Chiesa stessa a essere dissacrata dai tradimenti dei suoi figli e dei suoi
pastori. Il custode della tradizione oggi vive nel dramma dei primi versi del
Salmo 11, “Salvum me fac, Dómine, quóniam deficit sanctus, quóniam diminúte
sunt veritátes a filiis hóminum”, si misura con il momento in cui non vi sono
più santi, la sincerità è venuta meno tra i figli degli uomini e chi dovrebbe
custodire la castità del vero, parla con “lábia dolósa”.
È questa la radice della grande
tentazione: porre la domanda del salmista a Dio rispondendo però da se stessi
con le proprie parole. Il frangente che costituisce il tradizionalista come
tale, la consaoevolezza di essere ciò che ha perso, è anche quello in cui deve
decidere se amare ancora una Chiesa divenuta matrigna e infida oppure perdersi
nel rimpianto zelante e amaro di quando era madre e maestra. Questo sans
papiers de l’Église, non può sottrarsi alla scelta impostagli dal tempo in cui
vive: tenere per sé il tesoro che custodisce nella sacca o riportarlo tra le
navate, sotto gli archi, davanti all’altare da cui è stato cacciato. Se ha
carità, dividerà con i fratelli il seme che ha saputo salvare. Se non ne ha, lo
conserverà per se stesso, finendo irrimediabilmente per modellare quel tesoro a
propria immagine e somiglianza e renderlo sterile.
Chi gli rimprovera di mutare i pani
in pietre, di farsi duro di cuore, intellettualista, legalista ne ha poca
pratica e lo scambia colpevolmente con la sua caricatura. Lo stregone che
lancia sui suoi seguaci i precetti come fossero pietre non ha nulla a che fare
con il custode della tradizione, ha ben altra origine. Lo testimoniano quei
cattolici progressivi, liberi e disinibiti già negli anni Ottanta, che al
momento di divorziare, vivevano come momento più drammatico “quello in cui
dovevamo dirlo al padre”: quel “padre” duro e inflessibile era David Maria
Turoldo, il profeta dei tempi nuovi e di una Chiesa nuova, che aveva trovato
proprio nel sostegno al divorzio la chiave per predicare la sua religione al
mondo. La morale e la misericordia, senza la verità, diventano sempre moralismo
e violenza.
Nulla di più lontano dal reverendo
Bournisien, oggi ridotto a vecchio arnese tradizionalista, il sacerdote che
porta i sacramenti a madame Bovary sul letto di morte. “Il prete” racconta
Flubert “si sollevò per prendere il crocefisso. Allora ella allungò il collo
come un assetato e, premendo le labbra al corpo dell’Uomo-Dio, con le poche
forze che le restavano vi depose il più grande bacio d’amore che mai avesse
dato. Poi il prete recitò il Miserere e l’Indulgentiam, immerse il pollice
della mano destra nell’olio e cominciò l’unzione. Prima sugli occhi che avevano
bramato tutte le ricchezze terrene; poi sulle nari tanto avide di tiepida
brezza e di profumi amorosi; poi sulla bocca che si era schiusa alla menzogna,
che aveva avuto gemiti d’orgoglio e gridi di lussuria; poi sulle mani che
avevano conosciuto la delizia dei contatti soavi, e infine sulla pianta dei piedi,
così rapidi, un giorno, nel correre all’appagamento dei desideri e che ormai
non avrebbero più camminato. Il prete si asciugò le dita, gettò nel fuoco i
batuffoli d’ovatta intrisi d’olio e tornò a sedere presso la moribonda per
dirle per dirle che ora ella doveva congiungere le proprie sofferenze con
quelle di Gesù e abbandonarsi alla Misericordia divina”.
Questa sequenza di segni, così celesti e così concreti, “ad oculos, ad aures, ad nares, ad os comperssis labiis, ad manus, ad pedes” avrebbe efficacia anche se l’uomo non ci mettesse il cuore, perché sgorgano da quello di Dio. Ed è tragico che vengano imputati come prova di aridità a carico chi continua a tenerli vivi, quasi che la condiscendenza alle derive mondane possa essere più meritoria agli occhi del Signore. Non c’è nulla, sulla terra, che valga quanto la forma e la materia di un sacramento per santificare e letificare la vita e la morte degli uomini: “Ora Emma non era più così pallida e aveva sul volto un’espressione di serenità, quasi che il sacramento l’avesse guarita”. Proust, padre letterario degli atei devoti, era incantato dalla levità di queste righe. E fu forse lo splendore liturgico che vi riluceva a fargli serbare come ricordo tra i più amati un Rosario portatogli dalla Terra Santa, tanto da chiedere più volte alla governante di porglielo tra le mani in punto di morte. Ma, pur essendo custode di tale splendore e tale grandezza, il tradizionalista può cadere nel troppo umano e persino nel solo umano. Che non consiste nell’esibire una dottrina e una pastorale a cui ha sottratto il cuore, ma nel tenerle solo per sé, quasi fosse l’avanguardia di una rivoluzione al contrario e non, invece, soldato sotto gli stendardi del contrario della rivoluzione.
Tale tentazione è frutto
dell’applicazione di categorie politiche al Corpo Mistico di Cristo: l’unico
luogo di questo mondo in cui non hanno efficacia e sono destinate a fallire. La
prova del Concilio Vaticano II, consegnato dal modernismo a una visione
politicizzata, ha condotto certi tradizionalisti a cadere nel grande inganno
rivoluzionario finendo in due finti opposti. Da un lato, si sostiene che un
Concilio non può sbagliare e dunque, dal momento che alcuni documenti del
Vaticano II suscitano difficoltà, il Papa che li ha promulgati e i successori
che li hanno accettati hanno perso quanto meno “formalmente” la suprema
autorità: sono Papi solo “materialmente”. Dall’altro, si dice che un Concilio
non può sbagliare, dunque il Vaticano II non ha sbagliato, dunque non solo è un
vero Concilio ma è il metro per giudicare tutto il Magistero precedente. Se per
i primi il Vaticano II è tutto da buttare a prescindere, per i secondi è tutto
da accettare a prescindere. Ma si tratta della stessa posizione che viene
semplicemente capovolta.
Gli uni e gli altri, hanno perduto
di vista il cristallino “Magnopere curandum est ut id teneatur quod ubique,
quod semper, quod ab omnibus creditum est” distillato da San Vincenzo di Lerino
nel suo “Commonitorium”: “Bisogna soprattutto preoccuparsi perché sia
conservato ciò che in ogni luogo, sempre e da tutti è stato creduto”. Il
tradizionalista si perde quando sottrae la conservazione e la trasmissione
della fede all’esercizio della carità e la consegna in ostaggio alla propria
intelligenza, al proprio ego. Cosicché, l’eccessiva raffinatezza della cervice
teologica, a forza di rendere acuti i ragionamenti, finisce trasformarli in
ottusi e incapaci di parlare al prossimo.
Sia che viri verso il
neoconservatorismo, sia che viri verso il sedevacantismo, il risultato è un tradizionalismo
afasico, al limite dell’autismo, che si compiace della purezza propria e, forse
ancor di più, dell’impurezza altrui. Sul piano pastorale, ne discende una
degenerazione clericale: il sopruso e la condanna senza capacità di porgere
perdono. Sul piano dottrinale, ne deriva il peccato d’orgoglio: alla condanna
senza capacità di porgere la verità.
Ma sarebbe troppo semplice, troppo
politico, applicare la teoria degli opposti estremismi al mondo tradizionale
nel tentativo di salvare un centro buono e puro. L’ipertrofia della cervice è
un virus tremendo che ama diffondersi ovunque vi sia attenzione alla ragione e
alla dottrina e, nella fase di incubazione, si accontenta di poco. Gli basta
che il ventricolo cerebrale del cattolico prenda a pulsare anche solo un po’
più forte e un po’ più fretta di quello caritatevole. Allora il
tradizionalista, che giustamente e cattolicamente prova orrore al cospetto
dell’ospedale da campo dove ogni male viene curato con il corazòn, rischia di
dimenticare che gli uomini sono anime dentro a dei corpi. Perde di vista il
senso con cui San Pio X ammoniva che “i veri amici del popolo non sono né
rivoluzionari, né novatori, ma tradizionalisti”.
E non è nell’incedere liturgico, nei
paramenti pregiati, nelle suppellettili preziose che il tradizionalista trova
ostacolo nel farsi amico del popolo. Chi sorride o si scandalizza della
devozione a tanto splendore, non sa che quelle liturgie, quei paramenti, quelle
suppellettili possono diventare la salvezza di Emma Bovary e della vecchina
perennemente inginocchiata a dire il rosario, che possono accompagnare un re
all’incoronazione o un sacerdote davanti al protone d’esecuzione dei
rivoluzionari spagnoli e messicani. La grandi opere di assistenza e di mutuo
soccorso sono nate nel cuore della chiesa ai tempi in cui il Santissimo passava
sotto magnificenti baldacchini tra le folle inginocchiate. Il tradizionalista è
amico del popolo proprio perché si fa tutt’uno con quell’incedere liturgico,
quei paramenti pregiati, quelle suppellettili preziose, le offre a Dio e quindi
non chiede nulla in cambio agli uomini.
Così può curarsi dei corpi senza dimenticare che racchiudono delle anime. Come
Santa Teresa di Gesù Bambino, anima felice di essere forma di un corpo malato.
Un giorno, durante la malattia che la accompagnò alla morte, la piccola Teresa
ebbe in dono dalle consorelle una rosa. Invece che deporla in un vaso, la
sfogliò sul Crocifisso con pietà e amore, quasi a lenire le piaghe di Cristo.
“Nel mese di settembre” disse accompagnando il suo gesto “la piccola Teresa
sfoglia ancora una rosa di primavera”. E poi “En éffeuillant pour Toi la rose
printanière, je voudrais essuyer tes pleurs!”. Sfogliando per Te la rosa
primaverile, vorrei asciugarti le lacrime”. E, siccome i petali cascavano per terra
e rischiavano di andare persi, ormai morente si affrettò a invitare le
consorelle a non sprecare tanta bellezza: “Raccoglieteli sorelline mie, vi
saranno utili per fare dei piaceri più tardi, non ne perdete nessuno…”. Era il
settembre 1897. Nel settembre 1910, uno di quei petali guarì il vecchio
Ferdinand Aubry da un cancro alla lingua.
Il tradizionalista ha tra le mani
petali come questi e, se non vuole perdere se stesso, deve perennemente fare
memoria che non sono suoi. Solo così potrà trovare un luogo, anche piccolo, in
una di quelle scene sacre che ammaliarono Proust, dalle vetrate delle
cattedrali in procinto di essere dissacrate dallo stato francese. Immagini così
cattoliche da accogliere tutti “Non soltanto la regina e il principe (...). O
voi tutti, dalle vostre vetrate di Chartres, di Tours, di Bourges, di Sens, di
Auxerre, di Troyes, di Clermond Ferrand, di Tolosa, bottai, pellai, speziali,
pellegrini, bifolchi, armaioli, tessitori, tagliapietre, beccai, panierai,
scarpari, cambiamonete, o voi, grande democrazia silenziosa, fedeli ostinati ad
ascoltare l’uffizio, non smateriati ma più belli che ai giorni della vostra
vita, nella gloria di cielo e di sangue della preziosa vetrata, non udrete più
la Messa che vi eravate assicurata dando per l’edificazione della chiesa i
vostri più limpidi scudi”. Il limpido scudo con cui il tradizionalista può
assicurarsi un luogo tra questi fratelli è lucente di dottrina e liturgia, ma
ha da ardere di carità.
Fonte il Foglio 6 novembre 2014
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