Troppo amore e poca grazia nella Bibbia tradotta dalla CEI
Da Firenze, il professor Pietro De Marco ci invia una nota critica sulla traduzione della Bibbia in uso nella Chiesa italiana dal 2007. Una traduzione che affiora in ogni messa, talvolta con sorprese per i fedeli più attenti.
La discussione sulle traduzioni del messale latino nelle lingue correnti, intrecciata a quella della Bibbia, si è particolarmente animata, in vari paesi, dopo la lettera scritta lo scorso aprile da Benedetto XVI ai vescovi tedeschi a proposito delle parole della consacrazione del calice, con il papa decisamente a favore del letterale “per molti” invece del “per tutti” adottato da molte versioni postconciliari.
La nuova versione italiana del messale è in questo momento sotto l’esame della congregazione vaticana per il culto divino.
Intanto, però, è in vigore da cinque anni in Italia una nuova traduzione della Bibbia che è già all’opera nelle letture, nei salmi responsoriali e negli altri testi biblici della messa.
Ed è contro questa versione che De Marco avanza serie obiezioni.
Obiezioni che – si può presumere – sarebbero state ancora più forti se la congregazione per il culto divino non avesse chiesto alla conferenza episcopale italiana di attenersi a una traduzione il più possibile letterale della Bibbia, invece che a una “dinamica” e “interpretativa” come quella che la stessa CEI aveva in corso d’elaborazione fin dalla metà degli anni Ottanta.
LITURGIA E NUOVA TRADUZIONE DELLA BIBBIA. PROBLEMI DI RECEZIONE
di Pietro de Marco
1. Ignoro se sia comunemente noto, tra i fedeli, che da quasi cinque anni usiamo nel culto e in ogni pubblico evento o documento ecclesiale una nuova versione italiana ufficiale della Bibbia, il cui iter di approvazione era terminato il 21 settembre 2007, per essere affidata, per dire così, dalla CEI alla comunità italiana il successivo 4 ottobre. Chi abbia la ventura o decida occasionalmente di seguire la messa ordinaria, in italiano, con un messale non aggiornato viene sorpreso nel vivo dell’azione liturgica (che è sanzione della “lex credendi” e preghiera efficace secondo la “lex orandi”) dalle novità di traduzione.
Se una ricerca, non difficile, evidenziasse che il fedele comune non sa di leggere un nuovo testo (non della Bibbia ma della sua traduzione: è ovvio, però gli andrebbe chiarito), dovremmo imputarlo ad una inadeguata “transizione” dal vecchio al nuovo nella pastorale ordinaria, parrocchiale anzitutto.
Non solo. È anche mancato, credo, uno strumento agile, essenziale ma anche sostanzioso, che facilitasse i parroci, quelli non dotati in proprio di attenzione e cultura esegetica, nell’individuare i luoghi dell’Antico Testamento (nella liturgia specialmente i salmi) e del Nuovo, significativamente toccati dal lungo lavoro di revisione, e darne conto ai catechisti, ai lettori, ai fedeli. “Per incidens”, lo scadere del primo quinquennio (4 ottobre 2012) potrebbe favorire un rilancio di attenzione e un consuntivo degli effetti del nuovo testo.
So che dal moderno pastoralismo si argomenterà che nel vissuto liturgico tutto si fonde, e che la lettera di ciò che si ascolta o pronuncia – da supporre benefica comunque perché detta “più fedele agli originali” – è meno importante dell’atto partecipativo. Ma una visione meno ottimistica e non pragmatistica (molto liturgismo ha una visione tecnicamente pragmatistica, non misterica, del rito) opporrà che oggi è così esile l’attenzione prestata alla “lex credendi”, cioè ai significati di fede di ciò che nella messa si proclama o si ascolta proclamare per assentirvi, che qualsiasi cosa ci venga detta o fatta dire “va bene”, purtroppo. L’abitudine di alcune parrocchie, e di ambienti non parrocchiali, a riplasmare la liturgia per conto proprio, a infiorettare e interpolare od omettere, a intercalare commenti occasionali o soggettivi, non fa che liquidificare il delicato organismo della “lex orandi” nella sua natura di continua confessione di fede, in sé non alterabile.
La questione del “per molti” o “per tutti” nella formula della consacrazione, che implica la responsabilità non di parroci o gruppi poco controllabili, ma di episcopati e di organi centrali, è solo un vertice di questo procedere senza un corrispettivo didattico, come evitando l’onere e il rischio di una spiegazione, cui invece è tenuta l’innovazione legittima e autorevole, proprio in quanto tale.
Non parlo di giustificazioni; la “ecclesia docens” non deve “giustificare” presso nessuno atti che discendono dalla sua sollecitudine per la fede, avendo l’autorità e la garanzia dello Spirito per esercitarla. Diversamente il parroco o la piccola comunità, che non sono “ecclesia docens”. È però necessario, come conseguenza dell’atto legittimo, un momento didattico che trasformi la forma nuova in assenso, avvertito e ragionato, alla ricchezza delle “duae leges”.
Ora, nell’ambito della vita liturgica e della sua pastorale, l’impressione di chi ha vissuto, da adulto e in maniera dottrinalmente vigile, gli ultimi quarant’anni è che i “riformatori” quanto più erano decisi tanto più abbiano proceduto per fatti compiuti, rispetto alla maggioranza dei fedeli e del clero. Per non innescare lungaggini e controversie, ma sovente anche per evitare la delicatezza teologica di alcune “spiegazioni”.
Per di più l’argomento storico-liturgico, spesso invocato nel variare e abolire, non convince, anzitutto perché la liturgia cresce, come la Tradizione, attorno a un nucleo inalterabile e generatore. E nessuna “abolizione” di aggiunte e innovazioni, anch’esse secolari, è dunque buona a priori. Neppure nel restauro artistico o architettonico si procede più con questo criterio, nonostante l’originale abbia sicuramente valore in sé e per sé. La liturgia vivente non è un’opera d’arte dell’antichità cristiana. Sembra invece che questa sia la “communis opinio” dei liturgisti.
Ma ci si deve opporre all’archeologismo liturgico, come a quello esegetico, per una ragione più pungente: ogni “ritorno alle origini” è potentemente ideologico; intende colpire qualcosa o molto del nostro presente e affermare qualcos’altro al suo posto. Finché non si dichiara cosa si vuole “colpire”, cosa sostituire e perché, con forti ragioni teologiche valide per se stesse, e con responsabilità ecclesiale, ogni operazione “archeologica” indurrà, sempre più, nella Chiesa, sospetti di arbitrio e di illegittimità sull’intelligencija che ne è protagonista. Coloro che celebrano la “comunità” e la “democrazia” nella Chiesa si dimostrano spesso autoritari, secondo una costante propria delle avanguardie che i politologi conoscono bene. Senonché la lunga e ormai stagnante stagione postconciliare dell’assorbimento acritico o passivo di scelte teo-ideo-logiche, proposte o imposte “in nome del Concilio”, è finita.
2. S’intende che esiste una scienza liturgistica maggiore e minore; esistono trattati, saggi, riviste e una mole di strumenti divulgativi e didattici; ma erano letti specialmente trenta o quaranta anni fa. Le ultime generazioni adulte di laici e preti vivono una cultura liturgica data per scontata, sotto il segno di una significatività partecipativa così marginale rispetto alla fede (alla “fides quae”, alla dottrina di fede) che tutto passa ed entra in circolo, da parole nuove nelle letture a novità nell’impalcatura dell’”ordo missae” (con preghiere che di fatto scompaiono: vedi il caso del “Confiteor”).
E per fortuna non si sono toccate ulteriormente le preghiere liturgiche classiche (le antifone, le collette, i grandi prefazi ecc.), che dicono ancora chiaramente quello che si tenta di non far più dire alla Scrittura. Ma, quando tutto passa, niente o quasi di ciò che cambia viene recepito dai fedeli per ciò che, veramente, l’innovazione legittima intende significare o ottenere. Ora, questa mancata recezione nel comune fedele può anche esser stata provvidenziale; sia detto brutalmente, pensando agli eccessi dell’attuazione della riforma liturgica: meno convinzioni azzardate e discutibili in giro. Ma non può durare così; tutto va ripreso saldamente in mano da Roma.
Un esempio. Nel seguire il rito della messa della Santissima Trinità col mio vecchio messale quotidiano (Ed. San Paolo, 1994) sono stato colpito, ancora una volta, dalle varianti nei brani scritturistici. La questione delle varianti mi aveva appassionato fin dalla pubblicazione del nuovo Lezionario. Il salmo responsoriale (dal salmo 33, nella Vulgata 32) contiene dati interessanti, purché si colgano: per due volte al precedente “grazia” è sostituito “amore”: “chi spera nel tuo amore” (v. 18); “su di noi sia il tuo amore” (v. 22). Le traduzioni prevalenti dell’ebraico “hesed” sono state nei secoli “misericordia” (”mercy” nella Bibbia di re Giacomo, sull’autorità della Vulgata; non molto diversamente Lutero, che ha “Güte”, benevolenza). Appare “Gnade”, grazia, nelle versioni tedesche di Ottocdento e Novecento (e “gratuité” in una diffusa Bibbia protestante francese, quella del Martin). “Gratia” viene adottato dalla revisione latina della Vulgata (il Novum Psalterium del 1946; solo per il v. 18) e passa nella prima traduzione ufficiale CEI. Castellino (1955) preferiva “pietà”. Trovo “amour” nella versione Tournay e Schwab, rivista con la collaborazione di Gelineau e Chifflot (Les Psaumes, 1955), per la “Sainte Bible” in volumetti separati detta poi “Bibbia di Gerusalemme”. Così anche nelle versioni non francesi di questa diffusa traduzione. Compare “love” nella autorevole “New English Bible with Apocrypha”, Oxford, 1970. In un suo classico lavoro del 1949 Asensio sentiva in “hesed” la nota ultima di “amor tierno y benéfico”, ma anche un significato costante di “sostegno” cui affidarsi. Dahood vi sottolineava la consistenza del “rampart”, del terrapieno o muro di cinta. Il prezioso volume di accompagnamento alla nuova versione ufficiale CEI (”La Sacra Bibbia. Introduzione e note”, CEI, 2008) su questo punto non ha informazioni, dando forse la cosa per scontata. Ma anche “misericordia”, anche “grazia” erano apparsi al loro tempo scontati.
La scelta di rendere nel salmo 33, 18.22 “hesed” come “amore” avrà certo le sue ragioni. Oggi, però, calata nei nostri contesti pastorali e liturgici, non ha un suono forte ma piatto; sembra piuttosto l’eco di un’omelia standard ove di grazia non si parla quasi più (così avviene anche nella letteratura teologica) e troppo di amore di Dio, sperperando una nozione, mescolandone sensi umani e divini, infine oscurandone la realtà. Una scelta di vocabolario, dunque, che, assieme ad altre traduzioni nuove non corredate di buone spiegazioni teologiche, “cade male”, mi permetto di dire.
3. La comune lingua ecclesiale è tentata, infatti, da un fideismo semiquietista, cui corrisponde uno spazio massimo e sregolato rivendicato alla libertà delle persone, anzi dei corpi. D’altronde, se l’azione non si incontra con la legge di Dio, se non coopera con la grazia nella legge, ma tutto riceve dal suo amore, ciò che cristianamente operiamo è solo supererogatorio. Un così copioso parlare di amore appare coerente, piuttosto, con la scomparsa del tema del peccato nelle spiritualità diffuse e nella catechesi, come nell’esile cultura di giovani teologi e teologhe (1). E la vita cristiana si assimila al cieco attaccamento del lattante al petto della madre; bello, ma falso.
Mi rendo conto di inseguire delle derive in atto con preoccupazioni che possono apparire contraddittorie. Ma, per restare ai nostri esempi, si deve temere, da un lato, che la grazia scompaia di fronte all’amore, e, dall’altro, che la grazia sia accentuata in un uso inconsapevolmente predestinazionista (2). Sono due errori estremi, in direzioni opposte. Dove e come, invece, convergono?
Il “come” è nella liquidificazione filosofica del dogma (Antonio Livi ha profondamente ragione in questo), per cui eresie opposte, svuotate della loro determinatezza teologica, semplicemente si sovrappongono, come l’enciclica “Pascendi” di san Pio X aveva colto nel modernismo classico, definito “sintesi di tutte le eresie”. E siamo, nella cultura cattolica, da oltre un quarto di secolo in clima tecnicamente neomodernistico; questo non detto genericamente, ma guardando a coordinate teoriche spesso esplicite, esibite: antidogmatismo, antirazionalismo, primato dell’esperienza e della filosofia religiosa o mistica ma anche esegesi scientifica elevata a risultato teologico; monismo spiritualistico, spinozismo, ma anche concezione della comunità di tipo gnostico; mito dell’uomo moderno ma anche filo-orientalismi nihilistici.
Il “dove” è quel punto di convergenza per cui, se la grazia è l’amore (senza ulteriori determinazioni teologiche), l’atto amorevole di salvezza non solo non ha bisogno della nostra “bona voluntas” (questo è in sé, ontologicamente, vero) ma la nostra stessa “bona voluntas” perde ogni significato (e questo è falso, persino per le teologie calvinistiche classiche). Non vi è, di conseguenza, peccato; ma senza il peccato a che la grazia?
A riprova, la dialettica peccato/grazia è quasi scomparsa dal linguaggio ordinario della pastorale. Con una premessa nell’apparentemente innocuo: il linguaggio della messa ha rinunciato alla profondità cattolica del tradizionale “ma di’ soltanto una parola e l’anima mia sarà risanata”, che alludeva alla dialettica quotidiana della caduta e della “sanatio”, per un “e io sarò salvato” assoluto, di risonanza protestante ma senza la corrispondente drammaticità, quindi astratto e automatico. Si aggiunga la liquidazione dell’anima.
Si ha l’impressione di un che di maniacale, di distruttivamente illuministico, nella mente di chi ha poteri, nelle diverse sedi, sulla prassi pastorale e liturgica. Perciò anche ci si trova costretti a riaffermare ad un tempo la grazia di fronte all’amore (indeterminato, modernistico), e la libertà e peccabilità individuali, quindi la responsabilità, di fronte alla grazia indeterminata, modernistica, senza riprovazione né inferno. Nel magma una nuova e antica chiarezza, dunque, che si otterrà solo con il ritorno alla rigorosità dogmatica.
NOTE
(1) Non dovrebbe essere ammesso, per chi abbia o solo aspiri a gradi accademici in teologia, fregiarsi dell’appellativo di teologo, che implica una formale assunzione di responsabilità verso il “depositum fidei” e il magistero.
(2) Virtualmente predestinazionista, nonostante la virgola, è l’uso incauto della traduzione “agli uomini, che egli ama” o “agli uomini del suo amore” al posto del bimillenario “hominibus bonae voluntatis” proclamato in Luca 2, 14; specialmente se fatta assimilare con la recita del “Gloria” senza spiegare la scomparsa di una formula così forte e significativa come “uomini di buona volontà”. Si è avuta la saggezza di non eccedere, e il “Gloria” liturgico conserva la classica dizione “buona volontà”. Ma tutto messo in atto, e un po’ subíto, piuttosto che spiegato, anzi adeguatamente ragionato.
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