giovedì 17 marzo 2011

FU VERA GLORIA?

O GRAN DIO BENEDICI L'ITALIA (b.PIO IX)

Due riflessioni sull' unità d' Italiabuona lettura.

 

 

PERCHE' - DA CATTOLICO -
NON FESTEGGIO L'UNITA' D'ITALIA

di Francesco Colafemmina

Non sono borbonico o neo borbonico, non appartengo a conventicole di insorgenti, non ho sposato l'ideologia neoceltica della Lega Nord e non striscio neppure nelle anticamere degli Episcopi italiani. Sono un uomo del sud, un Appulo, un epigono sbiadito dei miei progenitori che hanno vissuto per secoli nella terra che guarda alla Grecia, che si affaccia sull'Epiro, terra che custodisce una storia troppo complessa e sovrabbondante per poter essere compressa nei sussidi scolastici. E da semplice cittadino del sud, cittadino pugliese, io non festeggio l'unità d'Italia, questa festa ipocrita e ignobile, nata dall'orrenda affezione dei politici agli anniversari.
Vi snocciolo quindi qualche ragione per la quale su questa festa preferisco stendere un velo nero, luttuoso, di tenebra.

1. La storia
La storia la fanno i vincitori, così ripete l'adagio. Ma da sempre inebetiti dall'adagio sembriamo non trarne mai le conseguenze logiche: la storia raccontata dal vincitore è falsa e puzza d'inganno. Così è stato anche per la storia di questa Unità d'Italia. Non riconoscerlo sarebbe da sciocchi. Il Sud fu invaso da una banda di manigoldi, armati dalla massoneria britannica, e si arrese dinanzi alla corruzione del regno Sabaudo (si veda l'esempio di Liborio Romano). Poi sopraggiunse l'esercito nordico che sradicò le sacche di resistenza inventando il brigantaggio, o meglio ampliando la fenomenologia di quest'ultimo e identificando come briganti donne, bambini, vecchi, e uomini nobili e coraggiosi che nell'esercito di Sua Maestà vedevano solo l'invasore sgradito e arrogante, con gli occhi iniettati di sangue e le mani rapaci di denaro. E lo stato unitario fu completato dalle razzie ai danni della Chiesa Cattolica, fu il primo fenomeno di anticattolicesimo in Italia, una vera e propria rivoluzione che decentrò la fede dai luoghi abitati, che sostituì conventi ed episcopi con Municipi e scuole elementari. E fu in queste scuole che cominciò ad essere inculcata al neo costituito popolo la "storia" dell'epopea risorgimentale. Storia falsa, ipocrita, ideologica, para-religiosa. Storia che confondeva la voglia di libertà delle regioni del nord occupate dallo straniero austriaco, con la voglia d'unità di una nazione divisa da secoli.
Oggi non possiamo essere nostalgici, non possiamo dire "ma se fosse andata diversamente", "se i Savoia avessero perso"... Non ha senso. Ma ha senso, fuori dalla retorica del XIX secolo e fuori dalle ipocrisie del XX secolo, guardarsi in faccia e dirsi la verità. Fu storia di guerra, di sangue, di violenza, di ruberie e di sguaiate bestialità. Ecco perché l'unità va rifondata, va letta in un altro modo, va ricreata nel presente, se proprio vogliamo fare i conti col passato.

2. La Chiesa
La Chiesa allineata al potere e sempre pronta ad elemosinare elargizioni, visibilità, scambi di interesse. Questa Chiesa così sbiadita, dove le tonache e le mozzette non si distinguono dai doppiopetti e dalle cravatte dei nostri ancor più sbiaditi politici, non poteva non festeggiare i 150 anni dall'unità d'Italia. Non poteva non partecipare alla spartizione di fondi messi a disposizione dal Governo per celebrare il nulla, per celebrare quei giorni che furono per essa i più penosi, giorni del più florido anticlericalismo, giorni mazziniani e luciferini. E' anche l'atteggiamento immemore e rapace di questa Chiesa ipocrita e revisionista che m'induce ancor più a non festeggiare questa festa orrenda, carica di menzogne, e oscurantista, capace di coprire innumerevoli verità.

3. La cultura perduta
Secoli di patrimonio culturale regionale e tradizionale attendono ancora d'esser riscoperti specie in questo nostro Sud che dell'Italia unita è sempre stato l'appendice e la riserva operaia. Questo Sud umiliato costantemente dai suoi politici fanfaroni e tronfi, dai suoi complessi d'inferiorità generati dall'imposizione di una lingua non sua, di istituzioni che non gli erano proprie, di un'arretratezza industriale, logistica, culturale, che fu voluta e costruita negli anni dai potenti vincitori della guerra d'unificazione. E questa cultura del sud, fatta di tanti piccoli tasselli avrebbe potuto comporre un mirabile mosaico nell'unità, ma è stata invece oppressa, negata, calpestata, in nome dell'eletta e sopraffina cultura del vincitore che creò la scuola e la leva obbligatoria. Leva dalle cui viscere sarebbero emersi centinaia di migliaia di cadaveri cinquant'anni dopo la sospirata unità, mentre dalle viscere del Sud esondava la massa di emigranti sospinti via dalla loro terra da un tragico destino. E' per la cultura omessa e sottomessa, per quella cultura che ho dovuto scoprire nella sua ricchezza e freschezza senza alcun ausilio scolastico, che ho dovuto dissotterrare dal cimitero nel quale i "padri fondatori" l'avevan sepolta, è per la vigoria del dialetto meridionale, delle nostre tradizioni contadine, della nostra arte, della grandiosa semplicità del nostro popolo, è anche per questa ragione che non festeggio l'unità d'Italia.

4. La memoria dei vinti
La galoppante ipocrisia italiota, questa virtù dei deboli che sembra appartenere al popolo nato dalle alchimie di una cricca di massoni e finanzieri, trionfa sommamente nella negletta memoria dei vinti. Ci si sofferma per un istante su quelle vittime, quei martiri a dire il vero, come fossero uno scomodo ostacolo alla festa, alla celebrazione, al clima di suburra che sembra accompagnare da decenni le tipiche pagliacciate governative nostrane. Si passa sui cadaveri che hanno fatto questa storia e talvolta si ha il coraggio belluino di negarli quei morti, di numerarli nella parte avversa. E invece no, fino a quando questa nazione non avrà il coraggio di contare ed onorare quei morti che lottarono per difendere la loro identità regionale, la loro fede cattolica romana, il loro re, la loro terra, dall'aggressore sabaudo, dai socialisti garibaldini, dai lanzichenecchi del nord, non si potrà commemorare alcun anniversario. Sarà solo anniversario dell'ipocrisia e dell'interesse. E sarà forse solo un caso se lo stigma del vinto è il suo nobile onore, un onore che non viene mai a patti col denaro né tantomeno col potere, ma vive della sua indiscussa nobiltà.

Per chi volesse approfondire: La Chiesa e la questione risorgimentale italiana



Amo l'Italia

di Francesco Agnoli

In questi tempi, finalmente, dopo tanta retorica ufficiale, qualcuno sta raccontando veramente cosa fu il nostro Risorgimento. Questo dà fastidio a molti. Non che si possa negare che il mitico Mazzini era un settario, un proto-terrorista, come lo ha definito lo storico Pierre Milza, che glorificava il pugnale, l’assassinio come ordinaria modalità politica. Neppure è possibile smentire che Cavour fu un machiavellico, un cinico, disposto a tutto pur di realizzare l’espansione del regno di Sardegna, a danno degli altri stati italiani e degli stessi piemontesi, costretti a guerre su guerre, dalla Crimea al sud Italia. Difficile, poi, oggi, presentare ancora il pirata Garibaldi, devastatore del Meridione, avventuriero senza scrupoli, sciupafemmine incallito, come un eroe. No, la retorica ufficiale è rimasta bagaglio di pochi: Benigni, un comico, si può permettere di spararle grosse, di ergersi a storico ufficiale dell’Italia unita, 150 anni dopo, inventandosi un Garibaldi ed un Cavour che non sono mai esistiti, proprio perché nessuno persona seria che conosca quei fatti ha più il coraggio di dire certe amenità. Solo pochi decenni fa un giornalista e uomo politico importante come Giovanni Spadolini, poteva ancora scrivere le agiografie dei padri della patria, commuovendosi e trasfigurando i briganti in eroi, i ladri in benefattori. Poteva mettere aureole a destra e a manca, senza tema di grandi lamentele.

Oggi, lo ripeto, non è più possibile. Come mettere da parte, infatti, quello che hanno scritto i Verga, i Pirandello, i Tommasi di Lampedusa, i Carlo Alianello, e poi una generazione di storici accademici e di storici amatori, da Giacinto de Sivo a Pucci Cipriani, da Massimo Viglione a Gigi Di Fiore, da Paolo Mieli a Gilberto Oneto, da Giordano Bruno Guerri ad Angela Pellicciari, da Silvio Vitale a Massimo de Leonardis ecc., che hanno definitivamente revisionato la mitologia risorgimentale?

Cosa dicono, allora, i critici riguardo a coloro che rintracciano nel Risorgimento l’origine delle divisioni italiane, del profondo divario Nord Sud, della oppressione centralistica dello stato, del nazionalismo guerrafondaio, della mancanza di senso civico e di patriottismo vero ecc.? Dicono, semplicemente, senza prendersi la briga di confutare documentalmente, chè sanno di non poterlo fare, che sarebbero dei "disfattisti", che non amano la loro patria, che non amano l’Italia.

Dicono, i Napolitano, i Bersani e quant’altri, che l’Italia è nata da Mazzini, da Garibaldi, e che questa Italia va celebrata. Costoro, si badi bene, appartengono a quella tradizione che fa capo a Gramsci, il quale criticava il Risorgimento come opera di pochi a danni dei molti, dei ricchi a danno dei poveri, dei Savoia a danno degli altri italiani. Tradizione che continuò con Togliatti, anch’egli sulle posizioni gramsciane, finché non gli fece comodo, ad un certo punto, trasformarsi in un "garibaldino", per apparire - lui filo-sovietico, obbediente a Mosca, internazionalista - patriottardo!

Ma chi sono i veri innamorati dell’Italia? Qui bisogna chiarirsi: di Italie ne esistono ancora più d’una.

I risorgimentali, di ogni tempo, sono coloro che per primi hanno voluto dividere il paese. Basti pensare al termine che hanno imposto per definire, appunto, il loro processo di unificazione: Risorgimento. Un termine fortissimo, quasi religioso, dicotomico, che segna una cesura. Hanno detto, costoro, che prima di Garibaldi, Mazzini, Cavour, e Napoleone III, l’Italia era morta.

Che loro hanno resuscitato un cadavere. Hanno così buttato a mare la storia, le radici, la cultura dell’Italia precedente, per sostituirli con la loro visione del paese. Questo è stato il Risorgimento: non solo l’unificazione politica - ché questa la volevano anche Pio IX, Rosmini e tanti altri, sebbene auspicassero un’Italia unita pacificamente, senza rivoluzioni, non dalle sette, federale e non giacobina -, ma anche il tentativo di creare una nuova Italia, archiviando l’Italia di prima.

Quale l’Italia da dimenticare? Anzitutto quella cattolica. Per Mazzini e Garibaldi il più grande nemico era la Chiesa, e con lei il popolo cristiano, i contadini e le donne, "servi dei preti", incapaci di comprendere le idee rivoluzionarie. Per questo il Risorgimento fu guerra alla Chiesa: sequestro di beni, imprigionamento e uccisione di vescovi e sacerdoti. Ma fu anche guerra ai popoli: non furono i veneti né, più tardi, i trentini a voler essere "liberati", chè nell’impero di Francesco Giuseppe non stavano affatto male. Neppure i meridionali poterono gioire dell’unificazione: è grazie al cosiddetto Risorgimento che il Meridione ha vissuto fucilazioni e saccheggi, la legge marziale, l’occupazione militare, la piemontesizzazione, interi villaggi bruciati, 15 milioni di persone costrette all’emigrazione, l’esplosione di fenomeni prima ben diversi e ben più marginali, come la mafia e la camorra ecc… Là dove c’erano le cattedrali e i palazzi stupendi di Noto, Ragusa, Scicli, Modica ecc. oggi rimangono, a testimonianza che risorgimento non fu, rovine e incuria…

E subito dopo il 1861? Le fucilazioni dei siciliani riuniti nei Fasci, da parte del garibaldino siciliano Francesco Crispi; l’imperialismo straccione ed il nazionalismo dello stesso Crispi, vero precursore del fascismo; il cannoneggiamento sulla folla di Bava Beccaris, col consenso del re, nel 1898; il nazionalismo ottuso di color che ci buttarono nella I guerra mondiale perché desiderosi di "compiere il Risorgimento" e di eliminare definitivamente il vecchio nemico, l’Impero asburgico, multinazionale e cattolico...

Ecco, allora, come stanno le cose: ci sono più Italie.

Per Adriano Prosperi, nemico acerrimo del pensiero cristiano, come in genere gli intellettuali del quotidiano "Repubblica", sull’Italia si può sputare ogni giorno: paese cattolico, e perciò "arretrato", che non ha avuto, purtroppo, la Riforma protestante; che invece ha ancora, purtroppo, i papi; che non ha compreso, ahimè, Machiavelli…

Anche un altro intellettuale di sinistra, Ermanno Rea, fresco autore de "La fabbrica dell’obbedienza", ha la sua Italia. Rea disprezza "i secoli bui" (ahi l’ignoranza e i luoghi comuni!), l’Italia cattolica, che non ebbe la Riforma ("quella mancata riforma che ha tolto ogni vigore agli italiani"), che visse "gli orrori della Controriforma"; al contrario elogia ed ama l’Italia di Gramsci, del PCI, cui egli aderì in gioventù, della Resistenza, che a suo dire produsse "verità e coscienza" (avrà mai letto qualcosa di Claudio Pavone, di Gianpaolo Pansa ecc?).

Rea divide gli italiani "degni" da quelli "indegni": i degni sono sempre i rivoluzionari, i nemici della Chiesa e della Tradizione, i giacobini "afrancesati"; gli indegni di ieri i cattolici e la Chiesa, quelli di oggi gli italiani "di centro destra", etichettati in massa come "servi", o quantomeno stupidi, corrotti ed ottusi.

Ad ognuno, dunque, la sua Italia. Al sottoscritto, al contrario, piace l’Italia di Dante e di san Francesco, di san Tommaso e di Giotto, di Simone Martini e del beato Angelico, di Petrarca e di Tasso, di Raffaello, di Michelangelo, di Caravaggio, di Colombo e di Vespucci, delle cattedrali romaniche e barocche, del melodramma e della lirica, dei papi che sorressero le università, finanziarono gli ospedali, pagarono gli artisti…

Amo l’Italia che ha dato al mondo i comuni, Genova e Venezia, le prime università del mondo, le prime banche, i primi e migliori ospedali, tantissima cultura ed arte, buona parte della medicina e della scienza moderna… Questa Italia non aveva bisogno alcuno di risorgere.

Questa Italia non doveva aspettare Garibaldi, che parlava meglio il francese né Mazzini, né tanto meno il Pci, che parlava russo, di Rea o Repubblica di Prosperi

All’Italia di Rea e di Prosperi, all’Italia azionista di Mauro e di Ciampi, preferisco l’Italia che non si esaltò per la I guerra mondiale, ma la definì un’ "inutile strage"; l’Italia di Gedda e di Guareschi, cattolica ed anticomunista, che nel 1948 sconfisse il Fronte popolare (il cui simbolo era la faccia di Garibaldi), che voleva trasformarci in un paese satellite di Mosca, con tanto di gulag, partito unico, eliminazione della libertà, povertà materiale e spirituale garantita per tutti.

Ai presunti "orrori della controriforma" – la Controriforma del Tasso e del Bernini, di san Giuseppe Calsanzio, fondatore della scuola moderna e di san Camillo de Lellis, iniziatore dell’ospedale moderno -, contrappongo i veri "orrori del comunismo", delle brigate garibaldine a Porzus, del triangolo della morte resistenziale, delle foibe e delle Brigate rosse…

All’Italia radical-comunista di Bresso, Bonino e Vendola, preferisco l’Italia di Cota, Formigoni e Polverini. Io ho la mia Italia, Rea e Prosperi la loro. Loro festeggiano perché sono nati il 17 marzo 1861, mentre per tanti altri l’Italia, benedetta e bellissima Italia! , esiste da oltre 20 secoli: l’Italia cuore dell’Impero di Roma, ponte tra la cultura latina e quella greca, capitale della cultura cristiana, non solo nazionale, ma mondiale. L’Italia che avrebbe potuto venir unita in altro modo, e da persone ben più degne dei carbonari, dei Savoia, e degli avventurieri. L’Italia che ora amiamo così come è, anche se i Prosperi, i Rea e mille altri cercano sempre di tagliarne le radici, di delegittimarne la storia, di creare ghetti per i "non degni", di separare "secoli bui" e epoche, presunte, luminose.

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