Il card. Caffarra: «Fino a quando sulle nostre spirituali rovine sarà celebrata l’Eucaristia, esse potranno risorgere
L’attuale arcivescovo emerito di Bologna — nonché profondo e acuto teologo — nella festa di sant’Agostino 2016 lanciò un accorato appello ai cristiani fedeli affinché non si scoraggino nel deserto spirituale e nella confusione che contraddistinguono l’attuale frangente della vita della società e della Chiesa pubblicata dalla benemerita rivista Cultura e Identità, n.13 del 30-9-16.
Eccellenza
venerata e carissima; Signor Sindaco di questa città splendida per storia,
arte, e scienza; Gentili Autorità Civili e Militari, la cui presenza onora la
celebrazione: considero grande dono fattomi dal Signore celebrare questa Santa
Eucaristia presso le spoglie mortali di Agostino, Padre della Chiesa e
dell’Occidente. Devo questo dono alla benevolenza del Vs. Ecc.mo Vescovo, giovane
in età ma non in sapienza. Grazie, fratello carissimo.
1.
Cari fratelli e sorelle, le tre letture
appena proclamate nel loro insieme ci hanno presentato la realtà della Chiesa
nella sua condizione storica.
La
Chiesa, come ci viene detto nella prima lettura, è l’unità umana ricostruita
dall’obbedienza al-l’insegnamento degli Apostoli e dalla “frazione del pane”,
cioè dalla celebrazione eucaristica. L’espressione inequivocabile dell’unità
riedificata dalla fede e dal Sacramento, è la scomparsa delle categorie
“mio-tuo”: «tenevano ogni cosa in comune».
Se
dalla prima lettura passiamo alla pagina evangelica, la presentazione della
Chiesa diventa drammatica. Accanto all’amabile ed attraente figura del Buon
Pastore, si muovono lupi rapaci. Essi si sono introdotti nel gregge del Signore
“per rapire e disperdere”; e di fronte ai lupi vi sono pastori-mercenari che
fuggono, impauriti dal pericolo.
Ma
la seconda lettura è ancora più drammatica. Essa preannuncia per la Chiesa «un
giorno in cui non si sopporterà più la sana dottrina […] rifiutando di
dare ascolto alla verità per volgersi alle favole» [2Tm, 4, 3-4].
Cari amici, il contrasto non poteva essere più violento: una Chiesa costruita
sull’ascolto dell’insegnamento degli Apostoli — una Chiesa percorsa dal «prurito
di udire qualcosa» [ibid., 4, 3] di diverso, dando ascolto ad
affabulatori, «secondo le proprie voglie» [ibidem].
A questo
punto non dobbiamo commettere l’errore di intendere la Parola di Dio in senso
cronologico, come se ognuna delle tre letture narrasse periodi storici diversi
della Chiesa: ad una Chiesa santa ed immacolata degli inizi succede a lungo
tempo una Chiesa corrotta e mondana. No, non è questo che la Parola di Dio
vuole dirci. Che cosa allora? E cominciamo allora ad andare alla scuola del
vostro Santo Compatrono, il quale, in un testo bellissimo, risponde alla nostra
domanda.
Agostino
commenta il testo biblico che narra la misteriosa lotta tra Giacobbe e
l’Angelo. Da essa il padre del popolo ebraico esce benedetto da Dio, ma
azzoppato per tutta la vita. Scrive dunque Agostino: «la parte lesa di
Giacobbe rappresenta i cattivi cristiani, perché nello stesso Giacobbe ci sia e
la benedizione e lo zoppicare […]. Ora la Chiesa zoppica. Poggia
solidamente su un solo piede, l’altro è invalido»
[1]. La Chiesa della quale parla la prima lettura è la
stessa Chiesa della quale parla Paolo nella seconda lettura. La Chiesa vera e
la Chiesa — chiamiamola così — del quotidiano è la stessa realtà; è la stessa
Chiesa quella che, come Giacobbe, poggia saldamente su un piede e sull’altro
zoppica. Un grande scrittore inglese ha detto: «Per i grandi santi e per i
grandi peccatori c’è la Chiesa Cattolica; per la gente dabbene basta la Chiesa
Anglicana»[2].
«Ecco
perché — scrive Agostino — la Chiesa di
Cristo ha fedeli saldi nella fede, ma ha pure fedeli tentennanti, e non può non
essere senza quelli stabili nella fede, né senza quelli instabili»[3].
2. Come dobbiamo vivere dentro alla nostra casa che è la
Chiesa, nella quale, come ci ha appena detto Agostino, ci sono cristiani forti
nella fede e cristiani deboli?
La
Parola di Dio ascoltata risponde a questa domanda, rivolgendosi distintamente a
noi pastori e a voi fedeli.
2.1
A noi pastori. «Carissimo […] annunzia la Parola, insisti in
ogni occasione opportuna ed inopportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni
magnanimità e dottrina […] compi la tua opera di annunciatore del
Vangelo». Quali parole tremende sono rivolte a noi pastori! «Voi» —
dice Agostino, rivolto a voi fedeli «ascoltate[le] con
attenzione, noi [le] ascolteremo con tremore […]. Quanto a
voi ascoltate come pecore di Dio e osservate come Dio vi abbia posto al sicuro.
Qualunque sia il comportamento di chi vi sta a capo, cioè di noi, voi state
sempre al sicuro per la sicurezza che vi ha donato il Pastore d’Israele. Dio
non abbandona le sue pecore»[4].
Le
nostre città, la nostra nazione, la nostra Europa stanno attraversando una
crisi mortale. La cifra della loro agonia è il freddo inverno demografico che
stiamo attraversando. La parola che Dio rivolge a noi pastori ci costringe ad
alcune domande: stiamo compiendo l’opera di annunciare il Vangelo o ci
accontentiamo di esortare le persone a buoni sentimenti morali, quali per
esempio tolleranza, apertura, accoglienza? Non dobbiamo essere sordi al vero
bisogno, alla struggente necessità che abita nel cuore di uomini e donne che
vivono con ansia i giorni cupi e tristi che stiamo attraversando. Non dobbiamo,
noi pastori, essere sordi all’angoscia che abita nel cuore di padri e madri,
che pensano con paura al futuro dei loro bambini. È necessario che i pastori
della Chiesa testimonino, dicano che dentro ogni istante, dentro ogni evento
abita una Presenza, un Ospite che guida tutto ciò che accade al bene di coloro
che Dio ama.
Fino
a quando sulle nostre spirituali rovine sarà celebrata l’Eucarestia, esse
potranno risorgere. Le pie esortazioni morali lasciamole ad altri.
Quando
il 24 agosto 410 Alarico I re dei Visigoti [370 ca.-410] saccheggiò Roma, nello
sconcerto generale — era dal tempo di Brenno [?-dopo 390 a.C.] che non accadeva
— Girolamo [347-419/420)] scrisse: «[...] è occupata la città che
aveva occupato il mondo intero»[5].
Ed aggiunge con un’immensa angoscia: «in una sola città tutto il mondo è
perito». Girolamo non vedeva più futuro.
Ben
diversa fu la reazione di Agostino. Egli non soffre meno per le notizie che gli
arrivano da Roma: […] su tutte abbiamo gemuto, spesso abbiamo pianto, siamo
appena riusciti a consolarci»[6].
Ma egli portò a compimento La Città di Dio, vera pietra miliare della
nostra civiltà. Il santo vescovo insegnò ai suoi fedeli il modo giusto di porsi
dentro la storia; e dentro alle rovine dell’Impero gettò i semi di una nuova
civiltà.
Ciò
che desiderava, ciò che Agostino voleva, era trasmettere vera speranza, e
proprio in un momento in cui tutto l’Impero ed in esso la sua Africa stavano
crollando. Sul suo letto di morte egli seppe che i Vandali erano entrati in
città.
Trasmettere
la speranza fondata sulla fede la quale, rinunciando al progetto di una vita
ritirata fatta di preghiera e studio, lo fece capace di partecipare veramente
all’edificazione della Chiesa e della città. La speranza che Agostino seppe
trasmette era incrollabile, perché era certo che Dio era venuto a vivere la
nostra tribolata vicenda umana, e dal di dentro l’aveva salvata. È questo Dio
che ci dà il diritto di sperare, non un qualsiasi Dio, ma solo il Dio che ha un
volto umano perché si è fatto uomo.
Il
Signore dunque faccia tacere sulle nostre labbra di pastori parole vuote, e
metta sulla nostra bocca parole vere.
2.2 La Parola di Dio si rivolge anche a voi fedeli.
E vi dice: «Non siate tra coloro che non sopportano più la sana dottrina, ma
per il prurito di sentire qualcosa di nuovo, non circondatevi di maestri che vi
dicono ciò che voi avete piacere sentirvi dire, rifiutando di dare ascolto alla
verità, per volgervi alle favole». Ma è Gesù che nel Santo Vangelo vi dice
parole di consolazione. Egli vi dice: «Io sono la porta delle pecore […]
se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà ed uscirà e troverà pascolo»
[Gv 10, 9].
Ecco
come le spiega Agostino. «Si può dire che noi entriamo quando ci raccogliamo
nella nostra interiorità per pensare, e che usciamo quando ci esteriorizziamo
mediante l’azione; e poiché, come dice l’Apostolo, è per mezzo della fede che
Cristo abita nel nostro cuore, entrare per Cristo significa pensare alla luce
della fede, mentre uscire per Cristo significa tradurre la fede in azione
davanti agli uomini»[7].
Ecco, cari fedeli, che cosa vi dice il Buon Pastore: pensate alla luce della fede;
traducete la fede in atti.
Concludo.
In uno scritto contro i Manichei, Agostino ci rivela le ragioni per cui resta
nella Chiesa. Eccole.
«Mi
mantiene fermo [nella Chiesa] il consenso dei popoli
e delle genti; mi mantiene fermo quell’autorità avviata dai miracoli, nutrita
dalla speranza, aumentata dalla carità, confermata dall’antichità; mi mantiene
fermo la successione dei Vescovi sulla stessa sede di Pietro […] fino al
presente Sommo Pontefice; mi mantiene fermo infine lo stesso nome di Cattolica»[8].
Cari
fedeli, ascoltate il vostro Compatrono. In questi momenti di grave incertezza
mantenetevi fermi nella Chiesa. Abbiamo ragioni vere e belle per farlo. È in
essa che incontriamo il nostro Salvatore.
[1] Sant’Agostino, Discorso 5, 8,
trad. it., in Opera Omnia di Sant’Agostino, a cura della Nuova
Biblioteca Agostiniana (NBA), Città Nuova, Roma, vol. XXIX, Discorsi 1-50.
Sul Vecchio Testamento, 1979, pp. 94-95. La sottolineatura è mia.
[2] Cfr. «The Catholic Church is for
saints and sinners alone. For respectable people, the Anglican Church will do»
(Oscar Wilde, cit. in Richard Ellman (1918-1987), Oscar
Wilde, Penguin, Londra 1988, p. 548).
[3] Sant’Agostino, Discorso 76, 3.4,
in Opera Omnia di Sant’Agostino, cit., vol.
XXX/1, Discorsi 51-85. Sul nuovo Testamento, 1982, p. 519.
[4] Idem, Discorso 46,1.2, ibid.,
vol. XXIX, cit., pp. 796.797.
[5] San Girolamo, Lettera a Principia,
CXXVII,12; CSEL, t. LVI, p.154, 16].
[6] Sant’Agostino, Discorso sulla caduta
di Roma, 6; PL 40, pp. 715-724.
[7] Idem, Commento al Vangelo di Giovanni
45,15, in Opera Omnia di Sant’Agostino, cit., vol. XXIV, Discorsi
341-400. Su argomenti vari, 1989, p. 913.
[8] Idem, Contro la Lettera di Mani detta
del Fondamento 4.5, ibid., vol. XIII/2, Contro I Manichei II,
p. 307.
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