Ritorno al passato
Circa un anno fa, precisamente il
23 febbraio 2016, scrissi un post su quella che mi sembrava una tendenza serpeggiante
nella Chiesa d’oggi: la nostalgia degli anni immediatamente successivi alla
conclusione del Concilio Vaticano II (“Formidabili quegli anni”). Mi sono tornate in mente quelle riflessioni nei giorni
scorsi per due o tre circostanze. La prima è stata la lettura di un articolo
del Timone sull’esortazione
apostolica Amoris laetitia, la quale non sarebbe altro che la
riproposizione delle tesi sostenute negli anni Ottanta dal Padre Bernhard
Häring. La seconda circostanza è stata l’attacco del Prof. Andrea Grillo al
Card. Carlo Caffarra sulla rivista Munera,
nel quale si rievoca la protesta di un gruppo di teologi italiani alla fine
degli anni Ottanta (capeggiata, anche questa, da Padre Häring). In questi giorni,
infine, la notizia, data da SandroMagister e confermata dalla rivista dei gesuiti America,
della costituzione di una commissione deputata alla revisione dell’istruzione Liturgiam
authenticam (28 marzo 2001). Potrebbero sembrare — e senz’altro sono —
fatti slegati fra loro; c’è però un filo rosso che li accomuna: lo sguardo
rivolto al passato.
Il Prof. Grillo potrebbe
assentire, confermando che con l’attuale pontificato la Chiesa sta
riallacciando i legami con la “grande tradizione cattolica”, legami
interrotti
dalla “teologia intollerante e sorprendentemente semplificatrice” che
era
stata fatta propria dal magistero della Chiesa negli ultimi trent’anni.
Per quanto anch’io condivida, in linea di principio, la distinzione fra
una
pseudo-tradizione dell’immediato passato e la “grande tradizione” della
Chiesa
(si veda il post del 7 marzo 2009), nel caso specifico, ritengo che lo sguardo, di cui
sopra, non abbia nulla a che fare con la “grande tradizione cattolica”, ma sia
rivolto appunto all’immediato passato, agli anni giovanili di quelli che, con
l’attuale pontificato, sono riusciti a raggiungere il potere nella Chiesa e
intendono finalmente dare attuazione ai loro antichi progetti, rimasti finora
nel cassetto.
In questi quattro anni ci è stato
fatto il lavaggio del cervello per farci credere che finalmente la
Chiesa ha ripreso
il cammino che aveva iniziato con il Vaticano II e che era stato poi
ingiustificatamente interrotto; il rinnovamento conciliare, dopo
cinquant’anni,
può finalmente vedere la luce; la Curia sarà una buona volta riformata;
si può
cominciare a respirare dopo anni di rinchiuso e di oscurità.
Significative
alcune espressioni del Prof. Grillo: “La fine di un mondo. Forse la fine
di un
incubo. Sicuramente la fine di un delirio”.
Se devo essere sincero, di nuovo
io finora ho visto ben poco. Tutte quelle che vengono contrabbandate come
novità sono in realtà la riproposizione di tesi sostenute nell’immediato
postconcilio e che erano state giustamente accantonate, perché ritenute erronee o quantomeno
inopportune dal magistero della Chiesa. L’esempio piú eclatante è, appunto, Amoris
laetitia, che sdogana, dopo trent’anni, le posizioni, allora condannate, di
Padre Häring.
Si trattasse solo della nostalgia
di qualche teologo, si potrebbe pure sorridere e chiudere un occhio. Quel che è
grave è che qui si tratta invece di interventi di governo che rimettono in
discussione il cammino che la Chiesa ha compiuto negli ultimi cinquant’anni. Sembrerebbe
che cinquant’anni siano trascorsi invano: si ha l’impressione che tutto ciò che è stato fatto — in
campo dottrinale, morale, liturgico, canonico, disciplinare, ecc. — dalla fine
del Concilio fino a quattro anni fa debba essere cancellato e si debba tornare
all’anno zero, all’8 dicembre 1965, per riprendere il cammino in una direzione
opposta a quella che allora fu intrapresa.
Mi sembra molto significativa la
decisione (sulla quale mi riservo di tornare in maniera specifica, perché la
ritengo estremamente preoccupante) di rimettere in discussione l’istruzione Liturgiam
authenticam. Finora, in campo liturgico, la Chiesa aveva percorso una certa
strada, caratterizzata da uno sviluppo forse un po’ altalenante, ma comunque
abbastanza coerente. La tappa successiva, nella stessa direzione, sembrava
dover essere la tanto attesa e discussa “riforma della riforma”. E invece ora
si fa dietro front: “Scusate, abbiamo sbagliato strada; solo ora ci siamo
accorti che al bivio dovevamo imboccare l’altra strada. Siamo costretti a tornare
indietro. Vogliate scusare i disagi”.
Qualcuno interpreta questo
“ritorno al passato” come una specie di “rivincita” sul pontificato
immediatamente precedente, quello di Benedetto XVI. Io invece vado sempre piú
convincendomi che il vero nemico da abbattere non sia tanto Papa Benedetto,
quanto piuttosto il suo predecessore, San Giovanni Paolo II. Ratzinger viene
considerato un nemico solo in quanto prima, come Cardinale, fu stretto
collaboratore di Papa Wojtyla (benché di orientamento teologico diverso, si
dimostrò sempre leale) e poi, come Pontefice, proseguí sulla stessa linea. Il
pontificato di Giovanni Paolo II — durato, non dimentichiamolo, ventisette
anni! — deve essere stato, per lo schieramento attualmente al potere, una
interminabile tortura: tutti i loro progetti venivano sistematicamente accantonati,
in favore di un rinnovamento della Chiesa nel solco della tradizione. Ora che
gli oppositori di Papa Wojtyla sono usciti allo scoperto e hanno raggiunto i
vertici della Chiesa, è ovvio che il loro desiderio sia quello di cancellare
quel pontificato e di smantellare tutto ciò che esso aveva realizzato.
Io stesso mi sono trovato spesso
in disaccordo con Giovanni Paolo II su alcune sue scelte pastorali; non
mi è
mai piaciuto il “culto della personalità” che era stato creato intorno a
lui (anche se ora comincio a comprenderne l’utilità); ho criticato
l’insolita celerità con cui si sono
svolti i processi di beatificazione e canonizzazione (ma, anche in
questo caso,
penso di capire solo ora il motivo di tanta fretta). Ma non posso non
riconoscere la grandezza di Papa Wojtyla e il contributo determinante
che egli ha
dato alla Chiesa dei nostri giorni: quando assunse il pontificato, la
Chiesa era ridotta in
condizioni pietose; alla sua morte, ha lasciato una Chiesa che aveva
ritrovato
una sua identità, una certa sicurezza e, diciamo pure, una certa
fierezza. La
Chiesa di oggi, quella reale che soffre in silenzio, non quella virtuale
presentata dai media, è figlia di Giovanni Paolo II, da lui è stata
plasmata, e
proprio per questo rimane disorientata di fronte a certe decisioni che
dànno l’impressione
di voler rimettere in discussione ciò che egli fece.
Sono convinto che il tentativo di
smantellamento del pontificato wojtyliano sia destinato al fallimento. Nel post del 23 febbraio 2016
spiegavo i motivi per cui non è possibile spostare indietro le lancette della
storia. Il contributo che San Giovanni Paolo II ha dato alla Chiesa è un’acquisizione
irreversibile. Non che ci si debba fermare a lui: la Chiesa deve ovviamente
continuare il suo cammino nella storia, purché lo faccia nella direzione che
lui, Santo, le ha indicato.
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