1 OTTOBRE
ESECUZIONE DI JACQUES FESCH
Nell’esteso panorama della santità del Novecento, fra tante figure di grandi apostoli della fede, fondatori e fondatrici, moderni martiri, laici impegnati, operatori di pace o votati al sollievo della sofferenza e dei disagi sociali, ci sono state anche figure chiamate alla santità nella quotidianità, capaci di far risplendere la luce della fede nella vita di ogni giorno, spesso in circostanze difficili o addirittura drammatiche.
E certamente una delle più sconvolgenti testimonianze, di quanto Dio può operare nella conversione di un’anima e nella sua elevazione spirituale, è la figura di Jacques Fesch, giovane francese di 27 anni, ghigliottinato il 1° ottobre 1957.
Egli nacque a Saint-Germain-en-Laye presso Parigi, il 6 aprile 1930, da genitori belgi di nobili origini, trasferitasi a Parigi una decina d’anni prima.
Purtroppo i genitori non seppero tenere unita la famiglia e col tempo questa divisione diede i suoi frutti nefasti; il padre, direttore di banca, era colto, avventuriero, amante della musica, pianista, ma anche cinico, donnaiolo, dichiaratamente ateo; dei figli si interessava quel tanto che bastava.
La madre, buona di carattere ma introversa, in disaccordo con il marito, non riusciva a neutralizzare la sua nefasta influenza; il tenore di vita era alto, con cambio di case lussuose ma prive di calore umano e il piccolo Jacques cresceva bello, simpatico, ma chiuso.
Fortunatamente venne ducato per tutta la fanciullezza in un collegio di religiosi cattolici, acquistando una “fede sensibile”, cioè una fede che si amalgama con gli affetti, con la vita.
Nel difficile periodo dell’adolescenza, cresceva troppo in fretta e quanto più avrebbe avuto bisogno di una guida, tanto più si trovava abbandonato a sé stesso; cominciò ad andare male negli studi, diventò pigro, ostentò a sua volta del cinismo.
Fortunatamente venne ducato per tutta la fanciullezza in un collegio di religiosi cattolici, acquistando una “fede sensibile”, cioè una fede che si amalgama con gli affetti, con la vita.
Nel difficile periodo dell’adolescenza, cresceva troppo in fretta e quanto più avrebbe avuto bisogno di una guida, tanto più si trovava abbandonato a sé stesso; cominciò ad andare male negli studi, diventò pigro, ostentò a sua volta del cinismo.
Il padre cominciò a diventare un ideale per il ragazzo, anche se lui per primo si sentiva disprezzato. In una sua lettera, ne scriverà tante dal carcere, Jacques diceva: “A casa nostra c’era tanta religione quanta ce n’era in una scuderia, ed eravamo tutti dei mostri di egoismo e di orgoglio”.
Alla ricerca di uno scopo nella vita, Jacques Fesch cresceva disorientato, inquieto, molto infelice, corteggiato dalle ragazze, ma senza amore; metteva nel letto un manichino al suo posto, per trascorrere le notti fuori casa, ma forse non era necessario, perché i suoi genitori non volevano accorgersene.
Aveva 19 anni quando interruppe gli studi, si impiegò in banca, ma per poco tempo, non sopportava il lavoro subordinato; continuò ad appassionarsi al suo amato jazz, ai racconti di viaggi, alla mineralogia; di Dio non si interessava più, anzi copiando il padre, diceva a chi gli poneva domanda a riguardo: ”Dio è una graziosa leggenda, la consolazione di coloro che soffrono, la religione dello schiavo e dell’oppresso”.
Da quando aveva 17 anni cominciò un’amicizia con Pierrette Polack, primogenita di una numerosa e ricca famiglia di origini ebraica; erano così diversi fra loro, ma si sentivano attratti proprio per questa diversità.
A vent’anni nel 1950 fu chiamato al servizio di leva e venne inviato tra le truppe francesi operanti ancora in Germania.
Pierrette allora convinse il padre di poter andare a lavorare a Strasburgo, più vicino a Jacques, che così poté passare le sue licenze nell’appartamentino di lei. La tenerezza di quei momenti, intrisi da un’evidente povertà, sfociò inevitabilmente nell’attesa di un bambino.
Il conseguente desiderio di sposarsi, fu necessariamente accantonato, perché il matrimonio era osteggiato dal padre di lei ebreo e da suo padre antisemita arrabbiato. Attesero così la maggiore età e poi si sposarono civilmente (con la sola presenza del padre di Pierrette), un mese prima della nascita della piccola Véronique.
Il conseguente desiderio di sposarsi, fu necessariamente accantonato, perché il matrimonio era osteggiato dal padre di lei ebreo e da suo padre antisemita arrabbiato. Attesero così la maggiore età e poi si sposarono civilmente (con la sola presenza del padre di Pierrette), un mese prima della nascita della piccola Véronique.
La loro luna di miele fu spezzettata secondo le licenze di Jacques, con qualche bella vacanza in Svizzera, nella villa di montagna di proprietà dei Polack.
Nell’aprile 1952 ebbe finalmente il congedo militare con l’attestato di buona condotta; fu necessario mettersi a lavorare, con nuove divisioni della famigliola, Pierrette con la bambina a Strasburgo e Jacques a Nancy nell’industria di carbone del suocero, vivendo in un albergo.
La vita della giovane coppia si svolgeva senza un minimo di organizzazione, in pratica alla giornata, dando libero sfogo ai divertimenti e i soldi non bastavano per tutto il mese.
La vita della giovane coppia si svolgeva senza un minimo di organizzazione, in pratica alla giornata, dando libero sfogo ai divertimenti e i soldi non bastavano per tutto il mese.
Scriverà Jacques alla moglie: “Mia Minou, a Strasburgo io non ti amavo, avevo solo un vivissimo affetto per te, rafforzato dai legami di intimità; è tutto”.
E alla fine il matrimonio infatti non durò; in parte erano fragili i due ragazzi, in parte si misero di mezzo le famiglie, ci furono dei pasticci economici nella fabbrica del suocero provocati da Jacques, il quale si disaffezionò dal lavoro progressivamente.
Pierrette tornò dai genitori e Jacques licenziatasi dalla ditta del suocero, andò a vivere con la madre (ormai anch’essa separata dal marito); la mamma gli diede un milione di vecchi franchi per aiutarlo ad intraprendere un’attività in proprio, egli ne spese subito la metà per comprarsi un’auto di lusso e per l’impresa che voleva aprire, essa fallì prima di cominciare, consumando i pochi soldi rimasti.
La madre a questo punto, infastidita, si disinteressò di lui; allora ritornò dalla moglie Pierrette, la cui lontananza insieme alla bambina lo tormentava, ma per l’opposizione delle famiglie si vedevano di nascosto, a volte in albergo, con atteggiamenti più da fidanzati che da sposi, illudendosi di rivivere i bei tempi della prima giovinezza.
Ma nel suo intimo Jacques Fesch era disorientato, inquieto, insoddisfatto e di conseguenza molto infelice; tutto sommato una situazione personale e sociale, comune a molti giovani, poi di solito interviene provvidenzialmente un incontro, un’opportunità, un consiglio giusto, ecc. e la maggior parte trova prima o poi una soluzione per uscirne.
Ma a Jacques, solo, senza lavoro, senza un vero scopo della vita, mancò questo salutare apporto, poi in quegli anni di dopoguerra, i giovani cercavano evasioni, desiderando intraprendere viaggi per conoscere il mondo, e la fantasia di Jacques galoppava sui viaggi fatti dal padre nelle lontane isole del Pacifico, da cui aveva portato ricordi, souvenir, esperienze, amori.
Per questo gli occorrevano almeno due milioni di franchi per comprare una barca e prendere a viaggiare da solo verso quelle isole sognate.
Tutti gli chiusero la porta in faccia compreso il padre, e i soldi diventarono la sua ossessione, alla fine decise che bisognava rubarli. E venne il giorno fatidico, il 24 febbraio 1954 con l’appoggio di due delinquenti abituali, armato di una pistola che doveva servire a spaventare il derubato, si recò a sera nel negozio di un cambiavalute ebreo, conosciuto dal padre, a ritirare dell’oro che aveva ordinato la mattina stessa.
Mentre l’uomo girato, tirava fuori dalla cassaforte l’oro, egli lo colpì alla testa col calcio della pistola, ma partì un colpo e si ferì lui stesso alla mano.
A questo punto, preso dal panico, scappò a piedi senza prendere nemmeno la macchina parcheggiata lì vicino, sanguinante alla mano, perse anche gli occhiali che portava per la forte miopia.
I complici per distogliere l’attenzione della polizia da loro, furono i primi a descriverlo; fu inseguito e lui si infilò in un grosso caseggiato salendo le scale fino al tetto, dove rimase finché ritenne che la caccia si fosse interrotta, ma all’uscita dal caseggiato fu riconosciuto.
Gli fu intimato di fermarsi, ma Jacques in preda al panico, non riconoscendo per la miopia, chi gli stava davanti, sparò attraverso l’impermeabile, uccidendo così un agente; scappando disperatamente ormai in preda al terrore, sparò ancora ferendo di striscio un’altra guardia e sparando all’impazzata contro chiunque gli si parasse davanti, fortunatamente senza colpire altre persone; fu alla fine disarmato e catturato da un anziano ispettore di polizia.
I complici per distogliere l’attenzione della polizia da loro, furono i primi a descriverlo; fu inseguito e lui si infilò in un grosso caseggiato salendo le scale fino al tetto, dove rimase finché ritenne che la caccia si fosse interrotta, ma all’uscita dal caseggiato fu riconosciuto.
Gli fu intimato di fermarsi, ma Jacques in preda al panico, non riconoscendo per la miopia, chi gli stava davanti, sparò attraverso l’impermeabile, uccidendo così un agente; scappando disperatamente ormai in preda al terrore, sparò ancora ferendo di striscio un’altra guardia e sparando all’impazzata contro chiunque gli si parasse davanti, fortunatamente senza colpire altre persone; fu alla fine disarmato e catturato da un anziano ispettore di polizia.
Percosso a sangue, strattonato, venne condotto piangente e in manette in una cella de “La Santé”, il carcere di Parigi, dove naufragarono i suoi sogni di mari sconfinati ed isole tropicali.
Cominciò così la seconda fase della disordinata vita di Jacques, con la scoperta, la riflessione, la sofferta risalita, verso le vette della spiritualità più alta, che solo Dio può donare all’anima che lo cerca.
Cominciò così la seconda fase della disordinata vita di Jacques, con la scoperta, la riflessione, la sofferta risalita, verso le vette della spiritualità più alta, che solo Dio può donare all’anima che lo cerca.
Mentre la giustizia degli uomini, faceva il suo corso con i processi, gli interrogatori, le accuse della Procura, i piani di difesa dell’avvocato, Jacques Fesch nella solitudine della sua cella, prese a leggere libri, riviste, classici, romanzi, che passava il carcere, altri libri gli pervenivano dalla famiglia, dai genitori in parte rappacificati, dai suoceri e poi dal cappellano e dall’avvocato Baudet, un convertito e Terziario carmelitano; non mancarono opere di un certo livello spirituale, le vite di s. Francesco d’Assisi, s. Teresa d’Avila, s. Teresa del Bambin Gesù.
Attraverso la lettura dei numerosi libri (250 il primo anno), cominciò a conoscere la vita, i caratteri, le passioni, i desideri, le possibilità di peccare e di raggiungere la santità, la grandezza e la miseria del genere umano, le altezze e le volgarità del pensiero; lesse fra l’altro la “Divina Commedia”.
Davanti al figlio carcerato, stranamente i genitori trovarono il modo di andargli a far visita e consolarlo e quando la madre seppe con terrore, che rischiava la ghigliottina, giunse ad offrire a Dio la propria vita, affinché il tanto trascurato figlio potesse almeno “morire bene”.
Dopo un anno di detenzione, una sera che era a letto, avvenne il momento cruciale della sua definitiva conversione, lo raccontò lui stesso nel suo “Giornale intimo”, scritto per comunicare la sua fede alla figlia.
“Quella sera ero a letto con gli occhi aperti, e soffrivo realmente, per la prima volta in vita mia con un’intensità rara, per ciò che mi era stato rivelato riguardo a certe cose di famiglia. E fu allora che un grido mi scaturì dal petto ‘Mio Dio!’ e istantaneamente, come un vento impetuo-so che passa, senza che si sappia donde viene, lo Spirito del Signore mi prese alla gola”.
Gli sarà di aiuto e conforto nella salita della difficile via della conversione totale, un amico convertito anche lui, Thomas, diventato frate benedettino, a lui verranno scritte le lettere più intime e al quale racconterà l’itinerario spirituale per cui Dio lo conduceva.
Gli sarà di aiuto e conforto nella salita della difficile via della conversione totale, un amico convertito anche lui, Thomas, diventato frate benedettino, a lui verranno scritte le lettere più intime e al quale racconterà l’itinerario spirituale per cui Dio lo conduceva.
Alle otto del mattino leggeva in un messalino la Messa del giorno, perché era l’ora in cui vi assisteva l’amico frate, poi faceva la meditazione su quanto letto, a sera concludeva la giornata con la “Compieta” della domenica.
Meditava attentamente la ‘Via Crucis’ e quando ormai capì che la sua vicina condanna era quella capitale, offrì la sua vita per placare la giustizia divina irritata, riteneva che la pena inflittagli fosse ingiusta, nonostante questo egli volle accettarla cooperando all’esecuzione, sembrandogli così di morire meno indegnamente.
Pregava per la conversione del padre; scoprì l’amore perduto e sciupato per il suo comportamento per la moglie Pierrette, il 7 giugno 1956 morì la madre che aveva offerto la vita per la sua redenzione.
Il 6 aprile 1957, giorno del suo 27° compleanno, giunse la sentenza definitiva del tribunale, a cui aveva concorso l’agitazione della Polizia, che richiedeva una condanna esemplare; fu trasferito nella ‘cella 18’, quella riservata ai condannati a morte.
Da qui vincendo la naturale paura e l’odio che vorrebbe invadergli il cuore, perché la pena era sproporzionata alle sue reali intenzioni nell’aver commesso il delitto, intensificò lo scrivere delle lettere piene di fede indirizzate all’amata figlia Véronique, a sua moglie Pierrette, all’avvocato Baudet, all’amico Thomas, alla suocera considerata ormai come una madre, al cappellano del carcere; sempre compilando ogni giorno il “Giornale intimo”.
Questi scritti sono la testimonianza di una conversione e di una dirompente, genuina, sublime fede che in una situazione drammaticissima, lo accompagnò alla morte mediante la ghigliottina, trasfigurando l’orrore in gioia, per l’imminente incontro con il suo Dio.
Voleva che fosse celebrato il matrimonio religioso con Pierrette, la quale però era chiusa in un circolo vizioso senza sbocchi spirituali; scriveva Jacques alla suocera: “In fondo, lei aspetta la fede per pregare e non vuole pregare per avere la fede. Allora, ecco, quando sarò lassù, toccherà a me pregare a mia volta per voi, e nell’ora della vostra morte…”.
Il Presidente della Repubblica Francese René Coty, pur respingendo la domanda di grazia, gli mandò a dire: “Dite che gli stringo la mano per ciò che egli è diventato”.
Il giorno prima della sentenza, ebbe la consolazione di sapere che Pierrette si era confessata e ricevuto la Santa Comunione, e a sera tramite l’amico Thomas, fu celebrato per procura il loro matrimonio religioso.
La sentenza era fissata per il 1° ottobre 1957 e Jacques qualche giorno prima disse: “Io tendo una mano alla Vergine, e l’altra alla piccola Teresa; in tal modo non corro alcun rischio, ed esse mi attireranno a sé per consegnarmi al piccolo Gesù per l’eternità”.
All’alba del 1° ottobre, si avviò all’orribile macchina, con dignità, compostezza e perfino con una certa serenità, baciando il crocifisso, chiedendo perdono a tutti; al punto che la cinquantina di persone presenti e lo stesso boia rimasero scossi.
A conclusione, si riporta alcuni brani dalle tante lettere scritte, in quei tre anni di tormentata attesa e di felice riscoperta di Dio e dei valori umani e cristiani.
“Per la prima volta io piango lacrime di gioia, nella certezza che Dio mi ha perdonato e che ora Cristo vive in me, nella mia sofferenza, nel mio amore. Poi è venuta la lotta, silenziosamente tragica, tra ciò che sono stato e ciò che sono divenuto… bisogna che io abbatta, adatti, ricostruisca, e non posso essere in pace che accettando questa guerra” (A Thomas, 14.5.55).
“A due riprese Dio mi ha detto: ‘Tu ricevi le grazie della tua morte!’. Dio si è impadronito della mia anima. Un velo si è squarciato, e se continuassi a vivere, non potrei mai rimanere sulle vette che ho raggiunto. È meglio che io muoia” (All’avvocato, che tenta di fargli ottenere la grazia).
“Una cosa sola conta agli occhi del Signore, salvare le anime!… La vita è un cammino stretto che fa capo a una porta piccola che si apre sulla vita vera. Per passare, bisogna prima lasciarsi crocifiggere sulla croce che sbarra l’entrata. Se la sofferenza e la paura ti fanno indietreggiare, non entrerai.. Ma con la prova viene la fede e con la fede i doni, non sono distribuiti grettamente, bensì a profusione.. E questa morte è nient’altro che dona la vita…” (Alla suocera, 3/8/57).
“Una cosa sola conta agli occhi del Signore, salvare le anime!… La vita è un cammino stretto che fa capo a una porta piccola che si apre sulla vita vera. Per passare, bisogna prima lasciarsi crocifiggere sulla croce che sbarra l’entrata. Se la sofferenza e la paura ti fanno indietreggiare, non entrerai.. Ma con la prova viene la fede e con la fede i doni, non sono distribuiti grettamente, bensì a profusione.. E questa morte è nient’altro che dona la vita…” (Alla suocera, 3/8/57).
“Quando Cristo dirige un’anima, è a Maria che in primo luogo la indirizza. Ma chi potrebbe crederlo, se non gli è stato dato dall’alto?… Gesù mi manda da sua Madre, ed è lei che ha in mano la mia salvezza. Nessuna preghiera mi apporta maggior consolazione delle ‘Ave Maria’ e della ‘Salve Regina’, prego ogni giorno per te, bambina mia Veronique, che ti colmi di grazie e ti prenda sotto la sua protezione” (‘Giornale intimo’, 4, 9.8.1957).
“Mi sono unito con tutta l’anima a Pierrette, che ora è mia moglie in Dio… Reciterò il mio rosario e delle preghiere per i moribondi, poi affiderò la mia anima a Dio. Buon Gesù, aiutami!… Sono più tranquillo di un momento fa, perché Gesù mi ha promesso di portarmi subito in paradiso…Non sono solo, ma il Padre mio è con me. Solo più cinque ore da vivere! Fra cinque ore vedrò Gesù!..
La pace è svanita per dar posto all’angoscia! È orribile! Ho il cuore che salta nel petto. Santa Vergine, abbi pietà di me! Addio a tutti e che il Signore vi benedica” (‘Giornale intimo’, 30/9/57).
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