IN SUFFRAGIO DI UN AMICO
Bravo, Domenico, e addio…un “addio” non è mai per sempre.
Ciò che noi riteniamo un fallimento è una gloria
Parrocchia di San Renato vescovo
Moiano, 18 ottobre 2012
Concelebrazione esequiale
per il parroco
Don Domenico
Omelia
Non senza difficoltà, estrema difficoltà, prendo la parola in questa santa assemblea, in cui celebriamo i misteri della vita del Signore, direi che la prendo in obbedienza al nostro vescovo Franco. Nostro. Sono i figli chiamati a dire parole accanto alla bara del padre e non viceversa, come accade in questo momento. In questo silenzio raggelante, ma anche colmo di fede e di speranza, facciamo risuonare nel nostro cuore la Parola che è stata proclamata, l’Unica che può abitare il silenzio, che è assenza di parole da dire, di cose da fare, quella frenata brusca che ci fa sobbalzare in avanti e ci lascia intontiti ogniqualvolta la morte ci visita, ci toglie qualcuno che affiancavamo, laddove nessuna parola umana può essere proferita, ma risuona sovrana e luminosa e incanto la Parola di Dio.
Abbiamo ascoltato nel giorno della Festa di San Luca la pagina, quasi certamente a tutti noi più cara tra i racconti della Risurrezione; è stata scelta questa pagina perché Don Domenico l’ha voluta per questa comunità come traccia per un mese intero di predicazione e di riflessione lo scorso giugno, ai piedi del Cuore di Gesù, o nel suo Cuore. E la rileggiamo adesso davanti alla sua bara ma in comunione - cosa più importante e gioiosa - con lui, vivo, presente nella comunione dei Santi, con noi in questa celebrazione, benché invisibile, e la riascoltiamo per trovare un’uscita di sicurezza da questa strettoia che ci opprime il cuore.
Ci presentiamo sempre così a Gesù sulle strade della vita, con storie a pezzi, che non riusciamo più a comporre, di cui ci sfugge il senso. Gesù cammina con noi in questa liturgia della Parola, ci accompagna, si interessa al nostro dolore, alle nostre vicende; Egli già sa cosa ci sia nel cuore di ciascuno ma quasi ci invita a raccontargliele, perché le persone che amano amano sentirsi dire quello che già sanno dai figli bambini.
Cosa avevano in mano i discepoli scoraggiati in cammino verso Emmaus in quel pomeriggio di Pasqua?, e cosa abbiamo in mano noi?
Dei brandelli, storie a pezzi, cuori lacerati, abbracci interrotti, dialoghi che avevano bisogno di ben altro tempo, tempi che sono finiti e di cui avevamo ancora estremo bisogno per spiegarci storie e dialoghi e parole e frasi sconnesse.
Sono così le nostre vite, fratelli e sorelle, ed è così la nostra situazione in questa celebrazione, almeno sulle prime, all’atto in cui i “perché” sono tanti, imperiosi, ci feriscono, mettono a dura prova la nostra fede, il “perché” della sofferenza, il “perché” del dolore, il “perché” di una vita che si stronchi a trentatré anni da parte di un pastore che era appena all’inizio della sua opera.
Ecco, Signore Gesù, siamo così, con i nostri pensieri interrotti, con le nostre conversazioni a pezzi, e Tu ti metti in cammino con noi, ci chiedi e noi Ti raccontiamo di noi, noi Ti raccontiamo di questa comunità, - vorrei farlo a nome di questa comunità parrocchiale, della comunità diocesana - di speranze, di attese, di progetti… Ti raccontiamo, per esempio, di una esperienza esaltante, che la nostra Diocesi visse sei anni fa, il 3 di maggio, a Sorrento. Sono qui gli altri di quella covata numerosa e prodigiosa come mai ci era capitato d’avere: sette preti in una volta.
Quanti ragazzi! È qui Marino, Maurizio, Domenico, Franco, Armando, Tonino, Enrico. Erano lì pieni di vita, avrebbero cambiato il mondo, erano lanciati nella Storia, già bella, della nostra Chiesa, bella e dolorosa, e Ti raccontiamo e ci ricordiamo di quella sera e dei loro volti radiosi, e dei nostri, e delle speranze.
Cosa significa essere prete, Gesù?
E questo epilogo - di uno di quei magnifici sette, come furono definiti - questo epilogo nella bara, no, non nella bara, ma nella morte, questo epilogo che viene a stroncare una pastoralità, una carità pastorale, immensa e piena di promesse, è un incidente, o era già scritto quel giorno. E noi, che celebriamo l’Eucaristia ogni giorno, e da quel giorno voi sei: «Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue» sono parole esterne, sono parole che diciamo sul pane e sul vino, o anche parole che diciamo su di noi, presentandoci, offrendoci, unendoci a Gesù Pastore e vittima, a Gesù che dà la vita per il suo gregge.
Questo è il mio corpo.
In questa chiesa Don Domenico l’ha detto tante volte spezzando il pane per voi, il Pane della Parola e il Pane eucaristico, ma dandovi il Corpo di Gesù vi consegnava anche il suo, la sua giovinezza, le sue piaghe, il suo essere divorato dal cancro, il suo voler a morsi prendere ancora del tempo, per fare qualcosa con voi.
E nuovamente mi torna l’interrogativo:
ma questo è un incidente?
E la risposta è “no”, no, no, Domenico, e tu lo sai bene ora che non è un incidente, era già in quel “sì, lo voglio, sì, lo voglio, sì, lo voglio, sì, con la grazia di Dio lo voglio”.
Carissimo vescovo Franco,
che non hai avuto il tempo di conoscerlo Don Domenico, devo dire innanzi tutto, io sono forse l’unico che può dirlo senza che nessuno si offenda, che la grazia battesimale e poi quella dell’Ordine scese, è scesa su un uomo violento, è scesa su un’indole inquieta, un rivoluzionario, un attaccabrighe.
Questo era Domenico, starà sorridendo mentre io lo descrivo così - i padri possono dire questo dei figli - era difficile, Franco, stare accanto a Domenico senza esserne feriti; era il suo carattere.
Ci siamo sempre detti, scherzando, che cosa sarebbe divenuto se non avesse incrociato gli occhi di Gesù a diciott’anni in un Corso di Esercizi spirituali ad Avezzano, se non fosse stato un prete, cosa sarebbe diventato Domenico con il carattere che aveva, ma la grazia di Dio predispone ogni cosa per una finalità di tempo, perché la grazia è scesa su quella umanità, così irruente, così polemica, aveva una vis-polemica Domenico come non l’ho mai vista. Ho ancora dolente il piede in tutti questi anni perché l’ho dovuto tenere premuto sul freno nella sua vita per quello che c’era da dire e da fare, eppure oggi guardando questa bara, ma ancor più contemplando con gli occhi della fede la luce, la pace, in cui egli finalmente è entrato, dobbiamo dire: “grande, mirabile fede - come canta il Manzoni - ai trionfi avvezza”, perché la fede ha avuto la meglio su quel carattere impossibile, trasformandolo, moderandolo, e volgendo al bene, alla creatività pastorale, a quell’azione rivoluzionaria, a cui un prete è chiamato, quelle energie che altrimenti sarebbero finite in corto circuito.
Com’è bello vedere i giochi di Dio nelle nostre umanità,
com’è bello considerare come Egli tenga tutto di noi, anche gli aspetti meno amabili, e riesca a volgerli ad una finalità di bene,
com’è bello vedere che Domenico ai Campi scuola, Domenico agli Esercizi spirituali, Don Domenico, alla guida di questa comunità, che suona la chitarra, che canta meravigliosamente, che… è generoso fino all’inverosimile, perché dentro quel riccio di mare, che non si poteva toccare, c’era e c’è un grande cuore, di cui tutti noi, o quasi, abbiamo fatto esperienza.
E questa è opera della grazia, e questo lo ha fatto il Signore, e di questo Domenico, tra l’altro, loda, ringrazia e benedice il Padre, autore di ogni bene, e benedice Gesù, che lo ha attirato nella sua rete, perché egli, a sua volta, diventasse pescatore di uomini.
E Domenico rilegge la sua infanzia, la sua adolescenza inquieta, inquieta, la sua giovinezza, il suo essere in Seminario sempre con i denti stretti, come un’occasione di purificazione e di grazia, che il Signore gli ha offerto, e solo ora, solo ora, più di quanto non appaia a noi, quella vita interrotta e a cocci egli la vede come un capolavoro, capolavoro della grazia.
Ho conosciuto Domenico, quando era ancora bambino dietro a Maria, oggi suor Chiara Damiana, sua cugina, che se lo portava dietro, un bambino dai capelli rossi, impossibile a tenersi, e poi un adolescente insieme a Filippo, Florindo e gli altri, il gruppo di Imma, e poi ministrante, impeccabile, come siete voi qui adesso a Moiano, un turiferaio, che incensava alla perfezione, un seminarista a mille Campi scuola, la salita al Molare, la Quinta alpini, sempre a protestare, ma devo riconoscere che Domenico con me ha avuto una docilità che mi meraviglia a tutt’oggi.
Carissimo Don Franco,
Domenico è il figlio della parabola che dice “no”, ma … , a differenza di quelli che si impettiscono con le loro virtù e poi battono la fiacca e si imboscano, Domenico protestava ma alla fine era obbediente, era polemico ma amava, sapeva recuperare, aveva dei gesti di tenerezza, e qui a Moiano l’avete sperimentato tante volte voi giovani, e non solo, che lasciavano con il fiato sospeso.
E questo chi l’ha fatto?
E questo lo ha fatto il Signore, ma anche, anche lui, Domenico, si è reso disponibile alla grazia e si è lasciato pervadere da Gesù fino ad assumerne il volto piagato.
“Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?”
Ecco, Gesù, noi siamo qui a presentarti in tanti ricordi, in tante foto, in tante parole, dette, ascoltate da questo pulpito, magari con furia, la parola forse più cara a Domenico: “sono venuto a portare il fuoco sulla terra, come vorrei che fosse già acceso”.
Parliamo del bene che Domenico ha fatto e del bene che Domenico avrebbe potuto fare, che sembra fermarsi qui, ma non è così, tu ce lo dici: “Duri e tardi di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti”, non bisognava - lo so che Domenico vi ha tenuto un’omelia su questo a giugno, in una delle poche volte che è riuscito a trascinarsi qui con una caparbietà sull’”oportebat” – non bisognava, era necessario, Domenico; era necessario, Domenico, anche questo distacco per noi; erano necessari dei fallimenti, era necessario che Cristo subisse tutte queste cose; “oportebat” era scritto, è scritto ai piedi della Croce, alla quale siamo venuti pellegrini tante volte sul tuo letto di dolore.
Damiana, brava iconografa, in tempi non sospetti aveva scritto “oportebat”.
Era necessario.
Ciò che noi riteniamo un fallimento è una gloria.
Carissimi fratelli e sorelle, la Chiesa canta nell’abiezione, la Chiesa danza quando ci sarebbe da disperare, la Chiesa crede nel Signore anche quando sembra non averci ascoltato, noi speravamo… E tanti di voi, tanti di noi siamo venuti qui con questa amarezza: noi speravamo, noi abbiamo pregato…
E Domenico ha fatto sue le espressioni di un altro grande ammalato di cancro, Davide Maria Turoldo, che in “Canti Ultimi”, a proposito di una guarigione chiesta da altri, ha detto: “Tu non puoi, tu non devi”, rivolto a Gesù.
Questa è la fede della fede e questo è il cuore della fede, e non una fede che chiede e pensa di ottenere subito nella direzione in cui noi formuliamo la preghiera; noi siamo sempre ascoltati anche quando chiediamo pani e ci danno sassi.
“Dio non turba mai la gioia dei suoi figli se non per prepararne loro una più grande e più certa”, dice il Manzoni alla fine dell’Addio ai Monti.
E noi questo, Domenico, vogliamo credere; per te non c’è più bisogno di crederlo perché tu lo vedi, per te è evidenza, tu però non hai più bisogno di fede e di speranza ma vivi nell’Amore, noi no, noi siamo qui in questa sera, che tra poco ci precipiterà sulle spalle, come sui tetti di Emmaus, e ci sentiamo spauriti, disorientati:
“Resta con noi, Signore, perché si fa sera.
Il Signore Gesù visita le nostre sere, ha visitato la sera di Domenico, le sere di Domenico, i suoi momenti di tentazione, di sofferenza, egli ci sostiene.
“Entrò per rimanere con loro”, e con noi.
Carissimo vescovo Franco,
tante foto vorrei consegnarti di Domenico, ho pensato alla fine ad una un po’ strana, poteva costituire per te un dono oggi. Ho visto piangere Domenico molte volte, soprattutto in questi anni, soprattutto quando, mi riferisco a due volte, in cui sono venuto qui a Moiano, angelo della morte e con la morte nel cuore, la prima volta due anni fa a novembre ed era una bellissima giornata, come quella di oggi, e come si fa a parlare di cancro in una giornata come questa? ma ero latore di un annuncio: Hai un cancro, Domenico.
E ci sono tornato un anno dopo, oltre ad altre volte ovviamente, con lo stesso annuncio, ancora più tragico: Domenico, non è il caso di continuare la chemio perché il cancro non demorde e gli effetti collaterali sono eccessivi.
Grazie a Laura, a proposito la nostra Chiesa dovrebbe dirglielo, grazie a Laura che con competenza e con amore da figlia è diventata il medico che ha reso possibile a Domenico di restare qui, senza essere a lungo ospedalizzato.
Ebbene, dicevo, Franco, ho visto Domenico piangere ma… silenziosamente, versare lacrime anche in qualcuna delle ultime visite, quando l’essere è impossibilitato anche a scendere in chiesa, e gli sembrava il più grande smacco. Mi ricordo che Domenico ha fatto un Campo scuola sulle Alpi, nonostante le mie controindicazioni e quelle di Laura, appena pochi mesi fa, perché il tempo bisogna prenderselo fino in fondo – è uno dei tanti insegnamenti - perché “bisogna dare vita agli anni e non anni alla vita”.
Non è di queste volte, Franco, la foto che voglio consegnarti, ma porta una data, dolorosissima, forse possono capire solo i preti, ed è, credo, del gennaio 2007. Eravamo alla conclusione di un Corso di Esercizi spirituali, forse a Sepino, ma sul luogo posso sbagliarmi, ed io dovevo preparare questo figlio, come altri, ad una sorta di distacco da parte di un confratello che abbandonava il ministero; cercai di farlo nella maniera più dolce e graduale. Ma ieri e oggi quel pianto disperato mi è tornato alla mente e mi ha lacerato nuovamente. Domenico non piangeva come un bambino perché perdeva un amico-prete, ma perché perdeva un prete-amico e fratello.
Perché ti consegno questa foto di Domenico, tra le tante che altri ti consegneranno, di cui potrei parlarti per ore? - chiedo scusa della lungaggine - Perché in quel pianto, a dirotto, irrefrenabile, che non ho visto neanche nei giorni della malattia, c’era l’amore alla Chiesa. Quel pianto dice quanto un prete, ordinato pochi mesi prima, fosse legato al suo Presbiterio e ad essere prete e tenesse per sé e per gli altri, così quello che dobbiamo continuamente temere, tenendoci d’occhio, una uguale e drammatica uscita di sicurezza.
Ecco, ti consegno, carissimo vescovo Franco, questa foto di Domenico: Gennaio 2007.
Non riuscii a consolarlo in nessuna maniera, e più di me, più di altri, è stato così duro, e adesso l’interessato lo capirà, così duro a riprendere i contatti, così come sapeva esserlo Domenico, ma quella durezza, e quel pianto soprattutto, parlava di un amore.
Bravo Domenico! Beato te, Domenico, che sei stato fotografato per sempre nella grazia della giovinezza e non hai conosciuto la mediocrità dei 40’anni, dei 50’anni, dei 60’anni.
Bravo pure, perché hai resistito.
Bravo perché hai conservato la fede (A Damiana nell’ultima telefonata hai detto: ho paura di perdere la fede) e ci sono tutti gli estremi quando si è in quella condizione di perderla la fede.
Bravo perché l’hai tenuta stretta fino alla fine.
Bravo per questi due giorni ultimi, dove hai combattuto corpo a corpo con la morte e hai perso, perché noi perdiamo sempre, Domenico; la nostra vittoria è questa perdita senza fine, a partire dal perdersi di Gesù per noi sulla Croce.
Prega per noi, Domenico, perché ancora fai parte di questo Presbiterio nella comunione dei Santi.
Prega per i tuoi fratelli, per il tuo vescovo, prega per noi su cui sta per scendere questa inesorabile sera.
Bravo e addio!
E un ”addio” non è mai per sempre.
˜˜˜
Il testo, tratto direttamente dalla registrazione, non è stato rivisto dall’autore.
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