sabato 20 ottobre 2012

concilio vaticano II

Apertura di un cinquantenario

per un riesame obiettivo del concilio Vaticano II e della sua applicazione

A dispetto di tutte le pesantezze che lo ostacolano, gli anni futuri dovrebbero consentire un riesame obiettivo del concilio Vaticano II e della sua applicazione. In effetti le circostanze rendono inevitabile un tale bilancio.
Posta in una situazione di rigetto di ciò che i papi del XIX secolo chiamavano « la civiltà moderna » (Pio IX) o « il diritto nuovo » (Leone XIII), la Chiesa ha lungamente reagito opponendo la perennità dei suoi insegnamenti ai principi dominanti dell’epoca, cercando d’altra parte attraverso vie diverse, talvolta paradossali, i modi per mantenere la sua presenza nella società. Questa situazione conflittuale è durata molto a lungo, tuttavia senza mai influire su un modus vivendi stabile e soddisfacente. Il Vaticano II, prendendo atto della persistente inefficacia di queste vie, avrebbe potuto, e dovuto, essere l’occasione di una eccezionale revisione di analisi e metodi, e favorire l’insorgere di uno sforzo collettivo per ripensare in maniera innovativa il rapporto della Chiesa con le forme sociali e culturali contemporanee.

Per quale motivo ciò non ha avuto luogo? È impossibile suggerire una risposta senza tener conto del periodo precedente, quello tra le due guerre e l’indomani della Seconda Guerra mondiale, caratterizzato da una disparità crescente tra l’affermazione di principi chiarissimi (tutto il discorso sulla regalità sociale di Cristo, sulla « conquista del mondo a Gesù Cristo ») ed una pratica di integrazione al corso degli eventi progressivamente crescente, imposta dall’adattamento ai cambiamenti di stampo politico in Europa.

Durante questo periodo, l’assenza di riflessione critica di un certo livello sulla organizzazione della società assume due aspetti molto complementari.

Da una parte, una certa sclerosi affetta i luoghi istituzionali di elaborazione e trasmissione del sapere – università pontificie e altri centri di formazione cattolica superiore – specialmente in ragione dei contraccolpi dei « riallineamenti » successivi. In quegli ambienti ci si astiene dall’analizzare i sistemi per privilegiare un approccio in termini di morale individuale rispettosa dell’ordine stabilito (i doveri dell’operaio, del padrone, dell’elettore, il pagamento delle imposte e i suoi limiti...). Dall’altra parte si fa un gioco pericoloso all'interno di organismi come l’Azione cattolica, la stampa e l’editoria religiosa, e certamente anche i partiti politici e i sindacati, posti a contatto immediato con la cultura dominante, marxista o liberale, senza avere i mezzi per comprendere criticamente le logiche, a maggior ragione visto che le si ammette come semplici regole del gioco. Da questi diversi crogioli sono usciti tutti gli attori dell’integrazione dei cattolici in quello che al momento del concilio si chiamerà « il segno dei tempi ». Alcuni personaggi hanno avuto un ruolo determinante nell’incoraggiare questo passaggio, con in testa i « personalisti » – Mounier e Maritain – veri ostetrici della « modernizzazione » delle maggioranze cattoliche, successivamente seguiti da un ambiente di intellettuali « progressisti », largamente portati dalle circostanze (in Francia: la Resistenza, la guerra in Algeria; in Italia, i postumi della Resistenza poi i dibattiti interni sulla questione del « Blocco cattolico », del « prepolitico » e del pluralismo. Parallelamente, in simbiosi con questo ambiente, i chierici della Nouvelle Théologie seguono la stessa linea generale.

All'inizio degli anni '60, ogni sforzo collettivo di ripresa non poteva dunque che essere impedito, ammesso che fosse affrontato. In un certo senso i modernisti dell'inizio del XX secolo avevano visto giusto su un punto: è dannoso mantenere un atteggiamento di ripiegamento protettivo, di tagliarsi fuori dalla conoscenza del mondo in cui si vive, almeno delle correnti che vi circolano, delle obiezioni che ne promanano. Per contro è meglio uscire armati, tanto sul terreno della fede - da lì la caduta dei modernisti - quanto su quello della ragione, ivi compresa la ragione politica. Sfortunatamente una consolidata pratica ecclesiastica si è ispirata principalmente alla preoccupazione di proteggere i fedeli nell'accesso al culto e all'educazione cristiana, dando priorità alla negoziazione con i governi  da potere a potere, vigilando nell'inquadrare, in certi momenti secondo una disciplina molto spinta, i cattolici che assumono responsabilità nel corpo sociale. Se a ciò si aggiunge un ricorrente indifferentismo politico, con la sua contropartita opportunista, diventa facile spiegarsi la mancanza di chiaroveggenza a proposito della minaccia principale presentata da una modernità politica i cui effetti non si riassumono nella persecuzione diretta e brutale della pratica liturgica, nell'ostilità al catechismo ed alla libertà scolastica.
Questo stato di carenza non assoluta ma maggioritaria nel cattolicesimo del XX secolo, ha permesso ai più attivi tra gli elementi « modernizzatori » di ottenere un bilanciamento nel loro senso, venendo a sanzionare l'accettazione delle tesi definite nella seconda metà del XIX secolo nel seno della corrente cattolico-liberale. Fu dunque il momento della grande  « svolta antropologica » (K. Rahner), con tutte le sue applicazioni, specialmente nel campo dei rapporti tra spirituale e temporale. Questa svolta si è riversata nei testi conciliari considerati i più importanti, ed ha condotto ad un generale allineamento alla  « democrazia » ed al suo « Stato di diritto », largamente confermato in seguito, dato per scontato.

Nella « Costituzione pastorale sulla Chiesa del mondo di oggi », Gaudium et Spes, il concilio forniva alla Chiesa il desiderio di farsi riconoscere come guida universale in un mondo in piena trasformazione : « […] proclamando la grandezza somma della vocazione dell'uomo e la presenza in lui di un germe divino, offre all'umanità la cooperazione sincera della Chiesa, al fine d'instaurare quella fraternità universale che corrisponda a tale vocazione » (GS, 3, 2) ; e ancora: « […]  il Concilio intende rivolgersi a tutti per illustrare il mistero dell'uomo e per cooperare nella ricerca di una soluzione ai principali problemi del nostro tempo. » (GS, 10, 2).

Se mezzo secolo fa questa proposizione audace poteva ancora attirarsi lodi alquanto ambigue, oggi il suo rigetto è franco e brutale, in certi casi persino insultante. Non si potrebbe dunque mantenere a lungo un discorso così impietosamente smentito dai fatti. A cinquant'anni di distanza, si constata che né l'offerta di servizio né l'acquiescenza ai valori del tempo hanno ricevuto una risposta proporzionata. Non soltanto il cambiamento di paradigma si è rivelato anche inefficace, se non più, del precedente, poiché la contropartita di nuova simpatia che ci si attendeva non si è verificata, ma per di più ha provocato numerosi nuovi problemi, esterni ed interni ; si diceva che la Chiesa per effetto delle sue condanne si era ritirata fuori dal mondo, ma oggi, malgrado tutti i dialoghi e tutte le aperture, essa ne è più esclusa che mai mentre d'altro lato ha subito una « mondanizzazione » interiore profonda e senza precedenti, come ha constatato Benedetto XVI nel suo
discorso al Bundestag, il 22 settembre 2011.

Sarebbe dunque opportuno e legittimo interrogarsi sulle ragioni di questo scacco. Per questo sono indispensabili due condizioni: che un simile interrogativo cessi di essere procrastinato dalla moltiplicazione di argomenti certamente legittimi a livello di ipotesi, ma che non resistono all'esame ; e che esso possa essere formulato in un clima di ricerca della verità e non essere oggetto di un fine di non-ricevere, come dietro un muro di protezione invalicabile.
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Messa da parte la negazione pura e semplice, di natura propriamente ideologica, del fallimento, al momento esistono due modi di dilazionare l'analisi. Il primo consiste nel cercarne la causa principale nell'aggravarsi dello stato della società, concretamente nel maggio 1968 e i suoi strascichi, le conseguenze paradossali della fine del sistema sovietico, la mondializzazione. È del tutto evidente che questi grandi cambiamenti hanno costituito altrettanti fattori di destabilizzazione, agendo sia come origine di tentazioni (l'irruzione dell'edonismo legato ai superconsumi di massa) sia come fattori di turbamento degli abituali punti di riferimento. Ma per quanto pressante tutto ciò abbia potuto essere, non si è trattato, dopo tutto, che di un insieme di nuove condizioni alle quali era possibile rispondere secondo il grado di convinzione e di forza interiore disponibili nel popolo cristiano e individualmente nel clero.
È su questo punto che è impossibile imputare la responsabilità principale del crollo al mondo esterno. E ciò per una ragione di principio - la prova fortifica i forti e abbatte i deboli - ed un'altra di fatto, poiché in netta misura, sono state proprio le forze della modernizzazione interne alla Chiesa a nutrire le avanguardie che hanno provocato le mutazioni intervenute a partire dal 1968. È lo stesso clero che è entrato in decomposizione, come pure gli ordini religiosi, durante lo stesso corso del concilio e non solamente negli anni 1970. Tipica fu a questo riguardo la rivoluzione tranquilla del Quebec (1960 -68, ma anche la costruzione europea, l'azione di «agevolazione » dei partiti democratico-cristiani, la déconfessionalizzazione dei sindacati cristiani, senza omettere le « defezioni » massicce di preti, religiosi e religiose. D'altra parte, l'ottimismo che andava per la maggiore nel Concilio si fondava sia su una stupefacente ignoranza del corso reale del mondo e dei suoi cambiamenti, sia su un rifiuto deliberato di prenderli in considerazione in seguito a scelte prestabilite. Un caso eclatante è stato quello dell'omissione del comunismo malgrado lo scandaloso silenzio sulla sua spaventosa meccanica di distruzione umana ma forse ancor di più quello del silenzio sul sistema globale di cui il comunismo è solamente un ramo.

Bisogna dunque ammettere che se « il fumo di Satana » è penetrato nella Chiesa, è perché si è mancato di trovarsi subito vigilanti davanti alla tentazione, ed anche per non aver voluto guardare in faccia la realtà. E ciò è tanto più incontestabile dal momento che numerosi osservatori avevano avvertito il pericolo - guarda caso proprio quelli che il discorso inaugurale di Giovanni XXIII apostrofava « profeti di sventura »

Un altro modo di ritardare l'analisi d'insieme delle cause del fallimento del tentativo conciliare di riconciliazione col mondo non cristiano o anticristiano consiste nell'immaginare una sorta di « piano B », una interpretazione che, senza rimettere in discussione i grandi orientamenti dell'epoca, tentasse di negoziare sulla loro base reinterpretata, un accettabile rapporto coi poteri attualmente dominanti.
È evidente che in questo caso si tratterebbe di una soluzione in ogni caso meno costosa rispetto ad un azzeramento della costruzione iniziata nel 1962-65 e considerevolmente sviluppata poi, con le sue conseguenze pesanti non soltanto negli enunciati dottrinali ma anche nelle istituzioni, nei metodi di formazione, nelle discipline, negli accordi giuridici... Il discorso pronunciato da Benedetto XVI il 22 dicembre 2005 ha reso ufficiale l'esistenza del problema e precisato nello stesso tempo le modalità di un riesame moderato che permetterebbe di evitare i due poli opposti della revisione lacerante e della fuga in avanti. Il tentativo, perfettamente comprensibile, è fragile perché si fonda principalmente sul possibile incontro, in mezzo ad un mondo non cristiano o decristianizzato in cui dominano il relativismo, il cinismo, l'arroganza, e ormai una aperta ostilità anticristiana, di felici eccezioni, di situazioni più aperte, o improntate ad una certa benevolenza verso la Chiesa e i suoi membri. Per adesso, ci sono pochi esempi di quella che potrebbe essere una « laicità positiva », poiché di questo si tratta, salvo forse in qualche paese africano, come ad esempio il Benin. Inoltre, trattandosi d'un adeguamento pratico, sempre suscettibile di modifiche di equilibri interni, l'ipotesi lascerebbe da parte un riesame completo del passivo dottrinale per attenersi ad una serie di correttivi parziali, essi stessi soggetti ad ulteriore declassamento di pari passo con le modifiche di equilibri interni. Di per se stesso, questo tentativo è transitorio, non fondandosi che su basi mutevoli e concretamente aleatorie. In compenso, il solo fatto di dichiarare il concilio interpretabile costituisce una prima tappa verso una revisione d'insieme, mettendone in causa la versione conciliare più conforme allo spirito dell'epoca, la più « progressista », ma venendo anche a contrastare le abitudini acquisite o anche la paura di ogni cambiamento, del tipo « conservatore » questa volta.
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È indispensabile che il bilancio di questo particolarissimo mezzo secolo possa aprirsi finalmente in condizioni normali, cioè liberamente, con prudenza, in un clima intellettualmente favorevole. Ciò ancora non è possibile in ragione delle opposizioni congiunte e delle abitudini acquisite. All'interno del corpo ecclesiale sono stati ampiamente adottati metodi ideologici, ognuno ne conosce la lista: intimidazione, uso di termini squalificanti, campagne di denunce, soffocamento nel silenzio... Queste pratiche sono state rafforzate attraverso tre fattori. Innanzitutto - e in questo la struttura postconciliare ha tratti in comune con alcuni regimi occidentali attuali - la proibizione di discutere si opera attraverso il collegamento tra attivismo di base (i famosi comitati auto-istituiti repressivi in molte diocesi ed ordini religiosi, che esercitano di fatto un potere arbitrario) e l'intervento del « braccio secolare » costituito dall'apparato ideologico funzionante nella società, nei media, nelle associazioni, polizie private e se del caso istanze governative o internazionali. È inutile entrare nei dettagli, basta ricordare il modo in cui si sono svolti alcuni affari interni e la loro ripercussione nel mondo intero (il discorso di Ratisbona, il caso Williamson, quello dell'arcivescovo di Olinda e Recife, ecc.).

In questa prospettiva, la Chiesa è sottoposta al controllo di elementi estranei che si arrogano il diritto di giudicare su ciò che è conveniente o meno alla sua vita interna. Dunque non ci si trova più semplicemente di fronte al caso di privatizzazione della religione, ma decisamente di una subordinazione agli interessi dei poteri esterni: ciò, fatte le debite proporzioni, non è molto lontano dal caso della Chiesa patriottica in Cina.

A rinforzare l'effetto di queste misure attive interviene un secondo fattore, d'ordine istituzionale: la dissoluzione delle strutture gerarchiche derivante dalla collettivizzazione dell'autorità, in nome della collegialità. Poco importa che essa abbia in pratica oltrepassato le norme conciliari, è un dato di fatto che si è generalizzato, rendendo psicologicamente obbligatoria la solidarietà nel rispetto della norma che si è imposta. Sono rari i casi che sfuggono a questo sistema, potentemente consolidatosi nella maggior parte dei paesi europei.

Infine nulla di tutto questo avrebbe un impatto determinante senza la superdogmatizzazione del concilio, che deriva da una pratica sempre più irrazionale man mano che il tempo passa, che malgrado tutto si mantiene a dispetto di ciò che ne aveva chiaramente detto a suo tempo per rifiutarla (Santiago, 1988) il cardinal Ratzinger. Questi tre fattori riuniti costituiscono una superstruttura parassitaria atta a prolungare indefinitamente una illusione collettiva sempre più lontana dalla realtà. Tuttavia questa superstruttura sta ora sgretolandosi, cosa di cui non ci si può che rallegrare.
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La prima e fondamentale ragione di questa evoluzione è semplicemente il fatto che è vero che la Chiesa comporta una dimensione umana, troppo umana, ma essa è innanzitutto di istituzione divina e a questo titolo, sottomessa alla Provvidenza più di qualunque altra realtà terrestre. Se è venuto il tempo di veder dissolversi ciò che di mal ispirato si è concretizzato nell'avventura conciliare, niente vi si potrà opporre. E come spesso accade, le volontà della provvidenza non fanno troppo rumore e transitano per vie naturali molto banali. Accade che oggi se ne scorgano molte.
Innanzitutto, il mito conciliare necessita di un supporto umano attivo. A lungo esso fu il frutto di un certo numero di teologi di valore, formatisi nella prima parte del secolo scorso. Ora l'azione sovversiva che essi hanno condotta con cura ha avuto come conseguenza, tra altri effetti, di sminuire il valore dell'insegnamento teologico, in modo tale che la loro posterità è lontana dal raggiungere il loro livello di capacità inventiva. Il neo-modernismo dell'epoca del Vaticano II mostra così una crisi di quadri. E inoltre, il discorso portato avanti negli anni 1960 è molto invecchiato, come tutto ciò che è « moderno » a un dato momento prima di apparire fuori moda.

Esso non ha conosciuto rinnovamento, e ancor meno per esser stato oggetto di uno sviluppo lineare delle disposizioni che esso racchiudeva e che ne esprimono lo spirito iniziale, inquadrato solidamente attraverso da un riferimento costante al corpus fondatore richiamato e celebrato senza posa. Conseguentemente, col passar del tempo si è vieppiù approfondita la distanza dal mondo reale. Oggi la rilettura di un testo come Gaudium et Spes, intriso di un certo fascino davanti alla conquista dello spazio, agli altri prodigi della tecnica e all'avvento dell'abbondanza, testimonia di questo superamento, formale e sostanziale.
L'entusiasmo ha ceduto il passo al disincanto.
Infine, sono state iniziate discussioni tra la Fraternità San Pio X, fondata da Mons. Lefebvre, e il Vaticano, al fine di trovare uno statuto giuridico particolare. A queste trattative sono stati associati scambi vertenti sull'interpretazione del concilio, e sulla possibilità di discuterne alcuni testi. A prescindere dal successo o dal fallimento di questi scambi, il solo fatto che essi abbiano potuto aver luogo ha rafforzato l'idea che è ormai ammesso mettere in discussione il concilio. E ai margini degli ambienti direttamente coinvolti, sullo stesso tema si sono moltiplicati scambi, che di fatto hanno instaurato un dibattito, dando luogo, nella difesa spesso maldestra dell'ortodossia conciliare da parte dei suoi difensori più conservatori, a contro-esempi che a loro volta hanno nutrito il « discorso da fare » sull'insieme del problema - secondo gli auspici ed il il titolo di una delle opere significative di questo nuovo periodo (B. Gherardini, Vaticano II. Un discorso da fare, 2009).
Così la cappa di piombo tanto lungamente imposta è chiamata a rarefarsi prima, forse, di sparire totalmente. Gli anni futuri dovrebbero essere occasione di vedere allargarsi e attestarsi un progressivo clima di libertà in vista di una metodica revisione dei dati in causa.
Bernard Dumont
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[Fonte: Catholica 114 — Inverno 2012]

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