2 Febbaraio
Presentazione del Signore
Purificazione della B.V.Maria
S. E. Rev. ma Mons. Arturo Aiello
Teano, 2 2 2011
Omelia
Carissimi fratelli e sorelle, carissimi religiosi e religiose,
il calendario della Chiesa – dico questo senza fare “archeologia liturgica” – si è innestato sapientemente nel calendario pagano e, come il Natale rispondeva al desiderio di rendere cristiana una festa, quella dopo la notte più lunga (quindi il saluto della luce, che era importante nell’antichità, quando non c’era ancora la luce artificiale, ma questo fino appena ad un secolo fa), così la Festa della Presentazione al Tempio s’innesta su un’altra festa pagana che celebrava nuovamente la luce, perché era passato un mese, si cominciava ad avvertire l’avanzare della luce, le giornate erano più lunghe, e dunque c’erano processioni da un tempio pagano all’altro per festeggiare l’estate vicina, anche se a noi sembra lontana. Quindi i primi cristiani sono stati bravi nel compiere quest’opera d’innesto, inserendo elementi cristiani su una festa pagana.
La Festa della Presentazione al Tempio del Signore e della Purificazione di Maria null’altro è che una coda luminosa della Solennità del Natale: quindi ancora il tema della luce. Nel canto di Simeone, che noi ripetiamo ogni sera a Compieta, c’è l’espressione “Luce per illuminare le genti” e questo Bambino illuminerà il mondo.
Il gesto che Maria e Giuseppe compiono portando Gesù al Tempio, come vi ho raccontato anche gli altri anni, rientrava invece in un altro calendario, quello delle consuetudini legate alla vita umana, che Israele aveva, viveva, celebrando l’opera del Signore che aveva liberato i primogeniti (l’esperienza cardine del popolo d’Israele, della fede ebraica, è sempre la liberazione dall’Egitto e quindi la notte del passaggio, quella notte che noi ci prepariamo, sia pur da lontano, a solennizzare nella Veglia Pasquale). A partire da quella notte, dove ci fu morte dei primogeniti degli egiziani e vita per i primogeniti degli ebrei, nacque questa consuetudine che era una sorta di celebrazione nella storia delle persone; in particolare, questa celebrazione riguardava specificamente quelli che aprivano la serie, quelli che aprivano il grembo materno, dunque i primogeniti. Se erano stati liberati i primogeniti, bisognava offrire i primogeniti, offrirli al Signore come riconoscenza. Questa offerta significava, probabilmente, ancor prima della consuetudine ebraica, facendo ancora uno sforzo “archeologico”, una sorta di gesto di ingraziarsi gli dei per quelli che sarebbero venuti dopo, come figli, come fratelli. Dunque, anche se la cosa vi sembrerà terribile - ma siamo adesso nella notte dei tempi - bisognava sacrificare il primogenito per il bene degli altri fratelli. Poi, nella storia, avremo il contrario: mi riferisco alle famiglie nobili dove il titolo lo prendeva il primogenito a discapito degli altri. Invece c’era, nella notte dei tempi, probabilmente, l’abitudine di sacrificare il primo figlio, di offrirlo, di farne dono al Signore, perché al Signore bisogna dare le primizie. Chi ancora coltiva i campi o venga da una cultura contadina sa che almeno questa abitudine era valsa non tanto lontano da noi, quando i nostri nonni portavano in parrocchia il primo olio, il primo vino, perché si diceva: “Ciò che è primizia non appartiene a me, non appartiene a noi, ma appartiene al Signore”. Ovviamente le cose cominciano con entusiasmo e poi diventano una sorta di “legame”, quando cala l’intensità dell’amore, e allora si era trovata questa buona abitudine che salvava “capre e cavoli”: veniva offerto il primogenito, però poi lo si riscattava, cioè da un lato lo si offriva al Signore e dall’altro, dopo averlo per così dire deposto sull’altare, lo si riprendeva, lo si riportava a casa riscattandolo, cioè pagandolo attraverso un’offerta in natura (ci ha ricordato anche l’evangelista che i poveri offrivano coppie di giovani colombi o di tortore).
Perché vi sto dicendo tutte queste cose? Non per affastellarvi la mente di nozioni che sembrano non avere una diretta connessione con la fede, ma perché non riusciamo a capire il senso dell’offerta di Gesù, il giorno in cui Maria e Giuseppe lo presentano al Tempio, come offerta del primogenito che si pone al posto degli altri, che paga a nome degli altri, se non teniamo presente queste piccole nozioni che spero d’avervi snocciolato in una maniera molto semplice (spero non semplicistica).
Gesù, in qualche maniera, era stato sognato, era stato preconizzato, era stato annunciato da quelli che nell’antichità sacrificavano i primogeniti, per dire: “Benedici la nostra famiglia e i figli che verranno”; era stato anticipato dal sacrificio di Isacco da parte di Abramo (Isacco era il figlio primogenito, ma non solo, anche unigenito). Mentre per gli altri sarebbe stata un’offerta simbolica o – come noi diciamo in una maniera più pedante – finta, perché “lo offro e poi me lo riprendo, lo metto sull’altare, ma poi mi raccomando, sacerdote, ridammelo, perché io senza questo bambino non posso vivere!”, non così è avvenuto per Gesù. Non so quanta coscienza potesse avere Maria, ma certamente ha compiuto per la prima volta un gesto irrevocabile; anche se sarà tornata a casa con il bambino e avrà detto: “Sono una donna come le altre, è accaduto quello che fanno tutte le donne che generano il loro primogenito”, cioè un rito, in realtà Maria non ha più potuto avere il figlio, perché questo figlio non era un figlio qualsiasi, ma era il Figlio unigenito del Padre, venuto per la nostra salvezza, che si offre sulla croce come agnello per tutto il gregge. Lo dice bene il canto del servo che leggiamo il Venerdì Santo: Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno andava per la sua strada, ma Lui si è caricato delle nostre colpe, ha pagato a nome nostro. Questa offerta, dove uno si mette al posto di altri, si chiama, in termini tecnici, “vicaria”. Lo sanno bene le suore che hanno la Madre Generale e poi la vicaria: la vicaria è quella che fa le “veci di”; quando non c’è la Madre c’è la vicaria oppure, anche in Diocesi, quando il Vescovo è assente, se si crea un’emergenza, c’è il vicario.
“Offerta vicaria” significa “offerta a nome di”, perché se la Madre Generale non c’è, risponde la vicaria e risponde “a nome di”; così anche per la Diocesi. Ma quello che mi interessa che comprendiamo insieme è che questa dimensione vicaria l’ha assunta su di sé Gesù per noi, in modo tale che non dovessimo più offrire i primogeniti, in modo tale che tutto fosse già saldato. Quindi Lui al posto nostro, Lui a nome nostro, Lui ha fermato - come dicono alcuni autori - l’ira del Padre, ammassando su di sé le nostre colpe.
Ho voluto un po’ calcare la mano sulla dimensione vicaria, perché entriamo, sia pure per un attimo, nella testimonianza dei religiosi e delle religiose, ma anche dei sacerdoti, quindi in una parola sintetica, dei consacrati, la cui presenza si pone in questa continuità, cioè di primogeniti offerti, di persone che si ponevano al “posto di”, soprattutto come sacramento dell’Offerente per eccellenza e dell’Offerta per eccellenza al Padre, che è Gesù.
Che fanno le suore? Che fanno le monache? Qui c’è Suor Noemi che rappresenta il Monastero delle Clarisse di Pignataro, c’è una rappresentante del Monastero delle Benedettine di Teano, ma anche le altre religiose presenti che fanno? Se io vi interrogassi, probabilmente direste: le suore hanno l’asilo, le suore si occupano degli anziani… Queste cose sono secondarie, perché la presenza dei consacrati è una ripresentazione, oggi, dell’offerta di Gesù al Padre a nome nostro. Non dovete pensare che chi sta in un monastero, chi sta in un ordine religioso o chi vive il ministero presbiterale, lo faccia per sé, neanche – ma questo le suore lo sanno benissimo – nel tentativo, nel sogno di realizzare una propria santità: sarebbe enormemente egoistica una motivazione del genere (entro in convento, faccio parte di quest’ordine, faccio l’iter per entrare in questa congregazione perché voglio essere santo). Attenti: tutti dobbiamo essere santi! Allora, una motivazione del genere, all’atto di una verifica, di uno scrutinio prima di una Professione, perlomeno deve fare arricciare il naso del Maestro, della Maestra delle novizie o dei novizi, o del Padre Generale o della Madre, a dire: Questa motivazione non tiene, perché i religiosi sono “a nome di”, sono presenza davanti a Dio per tutta la Chiesa, intercedono per il mondo, vivono questa dimensione offertoriale per ricordarci che uno si è offerto per noi totalmente, fino all’ultima goccia di sangue, e si chiama Gesù di Nazareth.
Voi dite: Ma questa cosa non bastava scriverla da qualche parte su una lapide, su un libro? No, non basta. Noi abbiamo bisogno di uomini e donne che ci raccontino questa meravigliosa fiaba: tu sei stato amato a tal punto che Dio ha mandato il Suo Figlio a sostituirsi a te, per portare la croce che avresti dovuto portare tu, per ottenerti la salvezza che altrimenti non avresti mai raggiunto, e quindi uno si è offerto per te, uno ha fatto il tuo vicario.
Vorrei che vi restasse impresso questo termine: vicario, sofferenza vicaria, offerta vicaria, cioè offerta a nome di un altro.
Che fanno le religiose e i religiosi? Pregano? Non per sé. Cantano? Vivono povertà, castità e obbedienza? Non per sé, non per un’autogratificazione: Ecco, vedi? Riesco a vivere come gli altri non riescono a fare… No, fanno questo a nome nostro.
Oggi, festa dei consacrati, noi vogliamo dire loro grazie. Grazie, perché le lezioni dette a voce, come sto facendo adesso io, o scritte, lasciano il tempo che trovano, invece quelle che diventano carne, sangue, che diventano respiro, che diventano volto, che sono scritte a marchio di fuoco nel corpo, nella vita, nei giorni di una persona, finiscono con l’essere lezioni incisive. Questo è il senso della presenza in mezzo a noi dei religiosi, delle religiose, delle monache, dei consacrati.
Allora da un lato diciamo grazie a loro (diverse suore e religiosi sono presenti a questa celebrazione): il Vescovo è grato a voi, a nome della Chiesa di Teano-Calvi, perché una Chiesa senza religiosi è una Chiesa poverissima e ci sono Diocesi dove la presenza delle religiose e dei religiosi è veramente al lumicino. Noi addirittura abbiamo la gloria – e vorrei sottolineare questo termine – la gloria d’avere tre monasteri di clausura e voi neanche immaginate quanto ossigeno producano per la nostra Diocesi, per la fedeltà dei sacerdoti, per la santità dei coniugi, per le vostre fedeltà laicali, neanche lo immaginate! Quindi diciamo grazie. Ma poi il Vescovo si rivolge anche a loro tra qualche istante, invitandoli a rinnovare il loro sì, e questa sera vi dico: Coraggio! Guardate a Gesù e sarete raggianti, non saranno confusi i vostri volti.
Come nella vita matrimoniale, così nella nostra vita di consacrati, nella loro vita, ci sono dei momenti di stanchezza, di delusione, i conti non tornano, gli investimenti non producono interesse, se addirittura non ci mandano alla bancarotta. Allora, coraggio, perché tu non stai davanti al Signore, davanti al mondo e davanti alla Chiesa – coram si dice in latino – a nome tuo, ma tu sei il racconto vivente del grande Offerente che è Gesù. Riprendi coraggio, riprendi grinta, riprendi fervore, qualsiasi sia lo stato nel quale in questo momento ti raggiunge la parola del Vescovo e la grazia di questa celebrazione. Da questa sera che dedichiamo ai consacrati, ripartiamo grintosi: costi quello che costi, porteremo fino alla fine dei nostri giorni questa testimonianza. Intercede per noi questo vegliardo, che è Simeone; senza nominarlo, noi lo visitiamo ogni sera, nella preghiera di Compieta, perché ha saputo aspettare quello che era impensabile per tanti anni fino all’ultimo giorno della sua vita. Secondo alcuni questo “canto del cigno” che è il Nunc dimittis – Ora lascia, o Signore, che il Tuo servo vada in pace secondo la Tua Parola… – è l’ultima parola di Simeone, cioè dopo non ha più parlato o addirittura ha chiuso la sua esperienza terrena nella dolcezza d’aver toccato questo bambino, magari dopo averlo innalzato secondo il gesto sacerdotale, e muore dicendo grazie, perché non ha vissuto invano.
Auguro a voi – ovviamente lo auguro anche a me, anche il Vescovo è un consacrato –, nonostante le asperità e i deserti che dovremo attraversare, di avere questa speranza che ci conduca fino alla soglia tra la vita e la morte, tra la morte e la Vita, dicendo: Signore, ho portato avanti la Tua bandiera, ho ripresentato al mondo Te che Ti sei offerto per me e per tutti.
Auguri e intensifichiamo anche la nostra simpatia; c’è bisogno anche di simpatia, che le suore devono sentire da parte vostra, da parte dei laici. Grazie, auguri, coraggio: questo dovete dire loro quando vi saluterete alla fine della celebrazione.
Nessun commento:
Posta un commento